L'AMBIGUITà DELLA COMUNICAZIONE VIRTUALE.
Verso una dialettica della virtualità
NerioJamil Palumbo
Il testo riportato di seguito è l’intervento tenutosi il 10 giugno
scorso all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, nell’ambito dei
seminari intitolati Anestesie del presente (9-11 giugno 2014).
1
In
questo luogo pubblico ma non comune, in questa pubblica occasione –
lontanissima dall’essere però un’occasione comune – vorrei partire da
un’impressione comune, da un riconoscibilissimo ed immediato modo di
sentire della nostra epoca.
Per
quanto la questione riguardante la virtualità e il nostro rapporto con
essa – e con i nuovi mezzi di comunicazione – possa esser resa complessa
e rielaborata sulla base di prospettive specialistiche di vario tipo
(cosa che in parte avverrà anche nel corso di questo intervento, se pur
con qualche provocatoria anomalia), rimane possibile l’identificazione
di una percezione media di essa, ed è proprio da alcuni tratti di
questa percezione che vorrei partire.
Esiste un’evidenza della virtualità. Heidegger l’avrebbe definita uno
«stato interpretativo medio» della virtualità.
Fin
da subito vorrei mettere in evidenza che, sospeso tra chi – molto
fondatamente e legittimamente – considera il vecchio professore del
Reich come inservibile, e chi invece si rivolge con acribia
spesso stolida, forse superflua, alle ultime e recondite pieghe del suo
complesso discorso – convinto magari di trovarvi davvero il «senso
dell’essere» o qualcosa del genere – io farò un uso del tutto
irresponsabile ed a-filologico del suo grande scritto della giovinezza –
Essere e Tempo – servendomi semplicemente di alcune delle sue
intuizioni e di alcune sue sistemazioni concettuali per applicarle,
sciolte dal loro contesto originario, all’oggetto di cui ci stiamo
occupando.
Lo
stato interpretativo medio, dunque. Quello che comunemente si dice
attorno alla virtualità e ai suoi mezzi, quello che probabilmente la
produzione fantascientifica – in costante sinergia con
l’informatizzazione di molte operazioni fondamentali della nostra vita –
ha prodotto e progressivamente arricchito.
Cosa
dice questo stato interpretativo? La cosa che immediatamente sa
riconoscere, e che infatti afferma senza dubbio alcuno, è che virtuale e
reale non sono la stessa cosa: che il virtuale è inequivocabilmente
non reale. Chiunque sa che parlare con una persona dal vivo non è
come parlarci al telefono, e a maggior ragione non è come chattarci.
Siamo
dunque di fronte a un qualcosa che ha uno statuto di verità ridotto.
Non sono menzogne, non sono cose inesistenti, ma non sono neppure reali.
Godono di una realtà e di una verità ridotta.
Accanto a ciò, però, non sono mancati negli ultimi anni tentativi di
circonloquire questo mistero in altri modi più elaborati, nei cosiddetti
Virtual studies … sociologi, antropologi, filosofi, semiologi,
psicologi od anche solo studiosi di informatica e di hackering
hanno fornito una serie di definizioni della virtualità, collezionare le
quali potrebbe essere ad oggi, 2014, un lavoro davvero molto lungo. Nel
mio piccolo vorrei fornire quindi la mia circonlocuzione, costruita
intuitivamente sulla base di quello che ho potuto notare in molti anni
di utilizzo e di riflessione su questi strumenti: la virtualità è un
sistema iconico interattivo di rappresentazione del reale.
Conscio di non essere però completamente estraneo a quello che prima
avevamo definito come «stato interpretativo medio» della virtualità,
conscio che, anche rimanendo su Heidegger, nessun Esserci è in grado di
sottrarsi del tutto a quel tipo di interpretazione – a quel tipo di
apertura del Ci, per dirlo in heideggerese – vorrei fare una somma
matematica delle due definizioni: sommando la mia e quella comune,
otterremmo che la virtualità è un sistema iconico interattivo di
rappresentazione del reale, inequivocabilmente non vero. E qui il primo
problema.
Questo sistema, considerato in tutte le sue propaggini (in tutti i suoi
rappresentanti, potremmo dire), richiede parte del nostro
tempo. L’uomo deve
dedicarsi alla virtualità, a quegli aspetti della sua vita che ha deciso
di affidare a questo sistema iconico interattivo.
Modifichiamo il naturale fluire della nostra vita, sacrifichiamo la
nostra attenzione, la nostra emotività e in ogni caso parti anche
“minime” del nostro corpo (gli occhi e le dita) a questa dimensione
altra, a questa velocità altra … come se il corso di un fiume
rallentasse improvvisamente, producendo quello che la scienza geologica
ha definito come deiezione, un deposito di detriti dovuto al
rallentamento di un corso d’acqua in un determinato punto.
La
virtualità è così una deiezione della nostra esistenza e il nostro
piccolo gioco architettonico delle definizioni può concludersi con
quest’ultima: la virtualità è un’inequivocabile deiezione. Una deiezione
senza equivoco.
2
Ora,
deiezione è un termine con una storia filosofica importante: così
infatti Pietro Chiodi, nella sua rinomata versione di Essere e tempo,
tradusse il Verfallen heideggeriano, quella condizione
esistenziale in cui
l’Esserci è innanzitutto e per lo più presso il «mondo» di cui si
prende cura. Questa immedesimazione in … ha per lo più il carattere
dello smarrimento nella pubblicità del Si[1].
Nella
suggestiva descrizione heideggeriana, esisteva un vero e proprio modo di
guardare e vivere il mondo (tecnicamente un’apertura dell’Esserci,
Erschlossenheit), nel quale le dimensioni costitutive degli esseri
umani (gli esistenziali co-originari dell’Esserci) – secondo
Heidegger la comprensione, il discorso e la situazione emotiva –
decadevano nelle loro forme inautentiche (o deiettive) – rispettivamente
la curiosità, la chiacchiera e l’equivoco: forme in cui la
«pubblicità del Si» (il modo in cui comunemente si dicono, si fanno e si
pensano le cose) è unico ed inappellabile giudice della realtà e della
verità delle cose stesse.
«Ad
oculos enim videre proprie pertinet. Il vedere è proprio degli
occhi». Una volta chiarito l’importante ruolo del vedere nel fenomeno
del comprendere occidentale in generale, Heidegger descrive
la curiosità, un vero e proprio modo di guardare il mondo in cui
l’Esserci cerca ciò che è lontano unicamente per portarselo vicino nel
suo aspetto. L’Esserci è interessato solo all’aspetto del mondo; in
questo modo di essere egli tende a liberarsi da se stesso quale
essere-nel-mondo, a liberarsi dall’essere presso l’utilizzabile
quotidiano più vicino. La
curiosità, ormai liberata, non si prende cura di vedere per comprendere
ciò che vede, per «essere-per» esso, ma si prende cura solamente
di vedere. Essa cerca il nuovo esclusivamente come trampolino
verso un altro nuovo. Ciò che preme a questo tipo di visione non è la
comprensione o il rapporto genuino con la verità, ma unicamente la
possibilità di abbandonarsi al mondo. La curiosità è perciò
caratterizzata da una tipica incapacità di soffermarsi su ciò che
si presenta. (…) In questa agitazione permanente la curiosità cerca di
continuo la possibilità della distrazione.
La curiosità non ha nulla a che
fare con la considerazione dell’ente piena di meraviglia, col
thaumazein, non la interessa lo stupore davanti a ciò che non si
comprende, perché essa cerca, sì, di sapere, ma unicamente per poter
aver saputo[2].
Discorso tutto sommato simile, e similmente profetico, per quanto
riguarda la forma deiettiva (o potremmo già dire virtuale?!) del
discorso – o meglio della originaria, naturale discorsività del reale –
ovvero la chiacchiera. In essa,
il
discorso comunicato può essere in gran parte compreso anche senza che
colui che ascolta arrivi ad essere in una comprensione originaria di ciò
sopra cui il discorso discorre. Più che di comprendere l’ente di cui si
discorre, ci si preoccupa di ascoltare ciò che il discorso dice come
tale. Ciò che è compreso è il
discorso, il sopra-che-cosa lo è solo approssimativamente e
superficialmente. Si intendono le medesime cose, perché ciò che è
detto è compreso da tutti nella medesima medietà[3].
Ma le
inquietanti analogie di questa descrizione heideggeriana ai modi di
rapportarsi alla realtà generati dalla virtualità non sono finite:
poiché il discorso ha perso, o non ha mai raggiunto, il rapporto
ontologico originario con l’ente di cui si discorre, ciò che esso
comunica non è l’appropriazione originaria di questo ente, ma la
diffusione e la ripetizione del discorso. Ciò-che-è-stato
detto come tale si diffonde in cerchie sempre più larghe e ne trae
autorità. Le cose stanno così perché così si dice. (…) L’infondatezza
della chiacchiera non è un impedimento per la sua diffusione pubblica,
bensì un fattore che la favorisce. La chiacchiera è la possibilità di
comprendere tutto senza alcuna appropriazione preliminare della cosa da
comprendere. La chiacchiera garantisce già in partenza dal pericolo di
fallire in questa appropriazione. La chiacchiera, che è alla portata di
tutti, non solo esime dal compito di una comprensione genuina, ma
diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più
nulla di inaccessibile[4].
I
corsivi sono tutti suoi. Heidegger sembra delineare in queste pagine un
colossale inganno gnoseologico-metafisico. Eppure ogni inganno deve
fondarsi su un equivoco, e la chiacchiera e la curiosità trovano proprio
nell’equivoco, in un senso kantiano che lui forse non avrebbe approvato,
la loro condizione di possibilità.
L’equivocità che caratterizza lo stato interpretativo pubblico accredita
il parlare-prima e il presentimento curioso come l’autentica realtà,
screditando l’esecuzione e l’azione come qualcosa di secondario e privo di
interesse. La comprensione dell’Esserci fondata nel Si si
inganna quindi costantemente quando si tratta di progettare le
proprie possibilità di essere genuine.
Nell’equivoco, l’Esserci è
sempre nel «Ci», cioè nell’apertura pubblica dell’essere-assieme,
in cui la chiacchiera più diffusa e la curiosità più sfrenata creano
l’«animazione» nella quale tutto accade quotidianamente in modo tale che
in fondo non accade mai nulla. L’equivoco offre costantemente alla
curiosità ciò che essa va cercando e dà alla chiacchiera l’illusione che
tutto sia deciso da essa[5].
L’equivoco è il cardine della deiezione, proprio perché consente ad essa
ed alle altre due forme di cui essa si compone (chiacchiera e curiosità)
di non essere percepite come inautentiche.
Da
questo punto di vista, possiamo dunque essere tranquilli nel nostro
dedicarci alle numerose chiacchiere e curiosità della deiezione
virtuale: proprio perché sappiamo riconoscerla come priva d’equivoco,
inequivocabilmente non vera, essa non rischia di apparirci come più
reale di ciò che è e, probabilmente, giammai riuscirà ad assurgere –
come era per l’originale deiezione heideggeriana – ad una condizione
esistenziale e basilare dell’essere umano, ad una «determinazione
esistenziale dell’Esserci stesso». In Heidegger, per rimanere un attimo
ancora con lui,
inautentico e non autentico non debbono affatto essere intesi come
«autenticamente non», quasi che, in questo modo di essere, L’Esserci
perdesse il suo essere.
L’inautenticità significa così poco qualcosa come un
non-essere-più-nel-mondo che essa costituisce, al contrario, un modo
eminente di essere-nel-mondo, (…). Il non-essere-se-stesso funge
come una possibilità positiva (...). Questo non-essere
deve essere inteso come il modo di essere più prossimo dell’Esserci, in
cui esso si mantiene per lo più. (…) La deiezione è una determinazione
esistenziale dell’Esserci stesso[6].
Una
precisazione che ci tornerà molto utile.
3
Eppure qualcosa sta cambiando – o meglio, probabilmente qualcosa ha
compromesso fin dall’inizio la linearità rassicurante della nostra
distinzione inequivocabile tra reale e virtuale.
Lungo
il corso della mia collaborazione al gruppo di lavoro Esperienza e
rappresentazione, ho provato ad insistere più volte e in vari
modi sulla necessità di illuminare la natura più intima della virtualità
grazie ad una sua ricostruzione storico-genealogica. Introducendo
l’aggettivo “iconico”
nella mia definizione, ho voluto sintetizzare la rilevanza che – a mio
avviso – l’uso e l’elaborazione di immagini di vario tipo hanno avuto
nella genesi e nella storia di ciò che è oggi la virtualità.
La
parte di storia del virtuale che riguarda le immagini e che ci riguarda
molto da vicino, ho voluto provocare qualche volta in quelle sedi, è
proprio la storia di quel Libro di figure senza figure, di quella
«nuova iconografia, muta e prigioniera» con cui Adorno seppe
sintetizzare l’imago mundi derivante dalla vittoria finale
dell’Illuminismo, una vittoria che era allo stesso tempo
l’avvento dell’industria culturale.
Si
dovrebbe ritornare sempre e comunque sul funzionamento di quest’ultima
poiché
il
suo richiamarsi al proprio carattere commerciale, la sua professione di
verità ridotta, è divenuta da tempo una scusa per sottrarsi alla
responsabilità della menzogna[7].
e
così la nostra analisi – come fu per quella di Adorno ed Horkeimer nella
appena citata Dialettica dell’Illuminismo – dovrebbe provare ad
attenersi «alla pretesa insita oggettivamente nei prodotti, di essere
creazioni estetiche e quindi verità rappresentata», cercando di cogliere
i risvolti di questa «verità ridotta» della virtualità, e quindi la
pericolosità di questa strutturale quanto furba de-responsabilizzazione.
Un’analisi storico-genealogica della virtualità, nella quale tenderemo a
prenderla un po’ sul serio ... proprio come fu per i due francofortesi,
la prenderemo «più sul serio di quanto essa stessa non vorrebbe».
4
Come
abbiamo accennato, la nostra serietà sarà storica, e nella sua
storicità sarà quindi responsabile. In questo senso è bene precisare
subito che tutta la nostra ricostruzione non sarà che un’ipotesi:
intuitiva, particolare nella scelta dei suoi riferimenti e quindi
perpetuamente rivedibile.
In
linea con quanto detto riguardo alle immagini e al loro ruolo – in linea
anche con quanto detto poc’anzi da Alessandro su quel particolare e
delicato settore di immagini che è il porno-graphein – la nostra
storia sarà una storia del graphein. Se la virtualità è infatti
un sistema iconico interattivo, bisogna capire la natura intima delle
modalità d’elaborazione di queste icone, di queste immagini, e allo
stesso tempo provare a monitorare passo dopo passo le modalità
d’interazione che gli esseri umani hanno avuto con esse. Se ci
concederemo qualche acrobazia, fosse anche qualche acrobazia illecita,
sarà invero in buona coscienza, dato che già da un bel po’ sappiamo che
le più incredibili acrobazie di pensiero non possono essere in realtà al
passo con quelle fatte dai mille demoni di quel mondo che il pensiero
prova a spiegarsi e vivere.
La
virtualità è arte, ma l’arte (o almeno un certo modo di fruirne) è
sempre stata virtualità in nuce.
«L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità», leggiamo in
Minima Moralia, una definizione che ci è vicina, che ci somiglia,
in quanto è in grado di rendere splendidamente l’intrecciarsi dell’arte
con la magia e con la conoscenza, quindi con la verità e la menzogna.
Così
la nostra storia comincia con lo stravolgimento totale dei mezzi
dell’arte figurativa avvenuto nell’ultimo secolo e mezzo, comincia con
quella piccola ma grandiosa rivoluzione che si chiama fotografia, e
soprattutto con quella grande ma pericolosissima rivoluzione che si
chiama cinema.
Quando fu creato un meccanismo atto a far riprodurre un sight –
una visione – ad una macchina, senza il bisogno di passare per il
fallibile disegno, l’importante e antica parola realismo
conobbe il suo tramonto e, allo stesso tempo, la sua nuova, strana,
importantissima alba.
La
parola mimesis indicava in Grecia l’imitazione, e l’imitazione fu
subito collegata dalla sapienza greca alla finzione. Le danze corali
imitavano, mimavano le falangi di guerra e i loro movimenti, ma c’era la
danza e quindi non c’era davvero la guerra. Dalla celeberrima condanna
platonica della Repubblica in poi, mimesis divenne l’atto,
l’intento originario dell’artista, il quale doveva riprodurre la natura,
la physis – attraverso la natura, dia physeos –
creando prodotti che ne imitassero il funzionamento e che insinuassero
però magicamente la bellezza tra le pieghe di questa riproduzione.
Tutta
la storia dell’arte è in fondo un semplice avvicendarsi di approcci alla
mimesis: tra questi, spicca da sempre quello realistico,
in base al quale l’efficacia artistica di una produzione è direttamente
proporzionale alla sua capacità di riprodurre la natura senza lacune ed
imperfezioni.
Nella
letteratura, nella scultura e nella pittura realistica abbiamo sognato
per millenni l’avvento in qualche angolo del mondo delle mani divine,
quelle capaci di quella seconda creazione – quella che gli indemoniati
esteti tedeschi chiamavano zweite Schöpfung – in grado di dare
una riproduzione della natura impossibile da distinguere dal suo oggetto
ispiratore di provenienza: nel frattempo abbiamo inventato le
proporzioni, la prospettiva, la lente di ingrandimento e quant’altro,
nel tentativo di aiutare le mille umanissime mani di artisti nel loro
difficile e appassionante compito mimetico. Queste mille mani del
passato sono la preistoria artistica del virtuale, proprio e
semplicemente in quanto, come la virtualità e prima di essa,
riproducevano il reale. La loro massima, potremmo dire parafrasando
Hegel, era che tutto ciò che è reale è virtualizzabile.
A
partire da ciò, possiamo riconoscere e ricostruire alcune fasi del
progressivo potenziamento di questa volontà di realismo, partendo
appunto da quelle grandi e connesse rivoluzioni tecnologiche che
segnarono il passaggio dalla riproduzione realistica puramente umana al
«naturalismo radicale» di quella macchinica: la fotografia e il cinema.
In
questo viaggio, ci serviremo ovviamente di una guida d’eccezione.
La
produzione degli anni ‘30 e ‘40 della Scuola di Francoforte è
caratterizzata da una costante e per noi preziosissima attenzione alle
linee d’evoluzione più tortuose e nascoste dell’arte contemporanea:
Adorno sapeva osservare e maneggiare straordinariamente nella stessa
pagina tutte le epoche dell’umano creare, da Omero a Walt Disney.
Nelle
numerosissime pagine dedicate a questo tema, spicca un argomento un po’
tortuoso ma molto importante, riguardante l’evolversi e il mutare dei
meccanismi di narrazione a partire dall’introduzione di nuovi mezzi
tecnici di riproduzione del reale, uno fra tutti – già “caro” al
Benjamin dell’Opera d’arte – il montaggio cinematografico.
La
possibilità del montaggio come atto creativo fu il motivo per il quale
il parlare di naturalismo e di realismo – come se n’era parlato fino ad
allora – non ebbe più un senso, il motivo per cui, ancora oggi, può
esistere solo uno «pseudorealismo, che è lo stile dell’industria
culturale».
Se il
film, secondo le esigenze di Zola, si abbandonasse ciecamente alla
rappresentazione della vita quotidiana, come – coi mezzi della
fotografia mobile e della ripresa sonora – sarebbe certamente in grado
di fare, ne risulterebbe un quadro insolito, estraneo alle abitudini
visive del pubblico, diffuso e inarticolato verso l’esterno.
Il naturalismo radicale che la
tecnica cinematografica rende possibile, dissolverebbe alla superficie
ogni contesto significativo ed entrerebbe in violento contrasto col
realismo familiare. Il film trapasserebbe nella corrente
associativa delle immagini, e la sua forma sarebbe solo la loro
costruzione pura e immanente. Quando invece, in base a considerazioni
commerciali, o anche in nome di un’intenzione oggettiva, seleziona le
parole e i gesti in rapporto a un’idea destinata a conferir loro un
senso, questo tentativo, forse inevitabile, entra in contraddizione
altrettanto inevitabile con la premessa naturalistica.
Nella letteratura naturalistica,
la minor compattezza della riproduzione lasciava ancora un certo spazio
alle intenzioni: ma la duplicazione della realtà, compatta e senza
lacune, che è propria della tecnica cinematografica, trasforma ogni
intenzione – e fosse anche la verità – in menzogna. La parola, che deve
imprimere nell’ascoltatore il carattere di chi parla o addirittura il
significato del tutto, suona, rispetto alla fedeltà letterale dei
fotogrammi, «innaturale»[8].
Queste poche righe – solo la prima parte dell’impagabile aforisma 93 di
Minima Moralia, scritto nel 1945 – ci illuminano sulla situazione
storica da cui probabilmente partì la virtualità propriamente detta, ma
allo stesso tempo ci testimoniano di un momento di sviluppo di essa in
cui tutti i suoi problemi erano già non solo avvertibili, ma anche
ampiamente delineabili. Uno fra tutti la trasformazione di «ogni
intenzione – e fosse anche la verità – in menzogna».
La
«duplicazione della realtà, compatta e senza lacune» è già quella della
riproduzione video, quella che per noi è oggi ovvia, e che per Adorno
era visibilmente un “salto” di importanza storica unica. Ma andiamo con
calma. Dal ‘45 ad oggi, la compattezza delle riproduzioni ha fatto passi
notevoli.
Dalla
riproduzione video passammo alla riproduzione video live, alla
diretta audiovisiva … dal cinema passammo alla televisione.
In
questo stadio, l’industria tecnologica risolse molto rapidamente i
paradossi davanti a cui fu messa dalle critiche sociali più
intransigenti. Lo stesso Pasolini riconobbe in quell’imposizione
generalizzata di immagini un meccanismo autoritario, nel quale il
livello d’interazione del pubblico doveva limitarsi alla semplice
fruizione passiva, o tuttalpiù alla scelta tra alternative prestabilite.
Dalla
diretta televisiva si passò dunque all’utilizzo delle linee telefoniche
e il televoto generò nel grande pubblico l’illusione di poter interagire
– e persino di contribuire alla creazione dei contenuti di cui avrebbe
fruito.
Anche
questo, però, uno “stratagemma” ampiamente prevedibile già al termine
del secondo grande conflitto mondiale, e già insito, secondo Adorno, nei
meccanismi stessi della cultura di massa.
L’industria culturale pretende ipocritamente di regolarsi sui
consumatori e di fornire loro ciò che desiderano. Ma mentre si studia di
respingere ogni idea di autonomia ed erige a giudici le sue vittime, la
sua autarchia e sovranità effettiva – che essa cerca invano di
nascondere – supera tutti gli eccessi dell’arte più «autonoma».
L’industria culturale, anziché
adattarsi alle reazioni dei clienti, le crea o le inventa. (…)
«La musica ascolta per l’ascoltatore», e il film pratica sulla scala del
trust l’odioso trucco degli adulti che, quando vogliono
affibbiare qualcosa a un bambino, lo stordiscono col linguaggio che
vorrebbero che quello adoperasse, e gli presentano il regalo più
discutibile con l’espressione di schioccante rapimento che intendono
evocare in lui. L’industria
culturale è modellata sulla regressione mimetica, sulla manipolazione
degli istinti mimetici repressi: essa si serve del metodo di anticipare
la propria imitazione da parte dello spettatore e di fare apparire come
già esistente l’intesa che mira a creare. E ci riesce tanto meglio in
quanto – in un sistema stabile – può effettivamente contare su
quell’intesa: intesa che, perciò, non si tratta tanto di produrre,
quanto di ripetere ritualmente. Il suo prodotto non è uno stimolo, ma un
modello per reazioni e stimoli inesistenti[9].
Regressione mimetica del vivaio umano. Falsa quanto tattica riverenza
dell’unico adulto rimasto in vita, ovvero la grande macchina industriale
delle immagini.
Questo è un punto delicato della nostra storia, perché in un certo senso
essa smette di essere storia per diventare cronaca. Almeno un tentativo
di cronaca.
L’industria culturale è mai come oggi un artista prepotente, autonomo e
autarchico fino all’eccesso, un artista autoritario nascosto
dietro una maschera di plasmabilità, di permeabilità, di affabile
disponibilità alle interazioni e perfino alle personalizzazioni di ogni
tipo.
Il
suo segreto però, il segreto del suo autoritarismo ormai invisibile, è
nel fatto che questa autorità non si applica davvero sulla selezione dei
contenuti, delle immagini, quindi degli stimoli che fornisce – cosa che
apparirebbe a chiunque come una censura diretta – ma si applica invece
alle modalità di esposizione e quindi di ricezione di esse. Il
problema non è il cosa, ma il come … il mezzo non è
assolutamente neutrale.
Non a
caso, nella Dialettica dell’Illuminismo sarà tracciato un ardito
e suggestivo parallelismo tra questo meccanismo e quello di sussunzione
dei dati appercepiti da parte dell’intelletto nella (secondo il
ragionamento dei francofortesi) autoritaria e logocentrica gnoseologia
kantiana.
Kant ha anticipato intuitivamente ciò che è stato realizzato
consapevolmente solo da Hollywood: le immagini sono censurate in
anticipo, all’atto stesso della loro produzione, secondo i moduli
dell’intelletto conforme al quale dovranno essere contemplate. La
percezione, da cui il giudizio pubblico esce confermato, era già
apprestata da esso prima ancora di sorgere[10].
Come
un gigantesco Io kantiano, l’industria culturale censura preventivamente
tutto non censurando nulla, poiché imprime il suo marchio fondamentale
sul modo di ricevere le immagini in generale più che sulle
singole immagini. Allo stesso tempo, l’istinto mimetico viene represso
perché viene reso innocuo tramite la ormai radicale uniformità delle sue
modalità d’espressione. Mi piace, non mi piace, ti voto, non ti voto …
ti amo, non ti amo.
Dall’atto percettivo e mimetico preso singolarmente (ad esempio il
singolo feedback, anche se autorevole, sulla singola immagine
prodotta), l’industria delle immagini ne esce sistematicamente
confermata. Dalla scelta della religione di riferimento a quella delle
scarpe è tutto perfettamente equivalente.
Quando decidiamo di assorbire o non assorbire, di condividere o non
condividere qualche contenuto specifico, il nostro giudizio sarà
indifferente, perché ciò che conta è che, in un caso come nell’altro, il
nostro modo di esprimerlo sarà perfettamente in linea con le intenzioni
e le modalità di chi ce l’ha prodotto.
Quando e se la guardiamo, la grande maschera dell’artista autoritario ci
sorriderà in ogni caso.
Il
grande problema, da Adorno in poi, e da questo punto della nostra storia
in poi, è però quello del progressivo perfezionamento ed arricchimento
di questa maschera, perfezionamento che, ovviamente, è andato di pari
passo e in perfetta sinergia con il perfezionamento della mimesis
di cui ci stiamo occupando. Più la mimesis è fedele – più riesce
a trasformare il suo montaggio, e quindi il suo ritmo, il suo come
nel più normale e ovvio fluire delle immagini … a trasformare il suo
pseudorealismo in canone di realismo – più ha gli strumenti per
«anticipare la propria imitazione da parte dello spettatore», e così non
importerà più quale immagine specifica egli sceglierà di imitare.
L’istinto mimetico, una volta represso, può ubriacarsi ora dell’infinita
varietà messagli a disposizione fino alla morte. La sua gabbia
invisibile di fantasie indotte proteggerà il sistema da ogni anomalia.
Al
nostro artista non interessa più di creare l’intesa, essa va piuttosto
«ripetuta ritualmente» … guarda un po’, proprio come la chiacchiera cui
abbiamo accennato all’inizio del nostro discorso.
A
questo punto della nostra storia, mentre varchiamo le soglie di Internet
e della virtualità vera e propria, devo chiedervi perdono per la
leggerezza con cui vi parlerò, per l’ambiguità con cui vi parlerò
dell’ambiguità del virtuale.
Come
ho avuto modo di scrivere ultimamente, non so quanto manchi ancora a che
Matrix diventi un documento di denuncia, anche perché probabilmente allo
stato attuale delle cose non m’interessa nemmeno più di tanto. Non so
quanto manchi a che la lunga parabola del graphein che stiamo
delineando trovi la sua fine, o meglio il suo telos (parola che
indica allo stesso tempo la fine, la morte e la massima realizzazione di
qualcosa). La stessa riproduzione artificiale di sensazioni fisiche sta
facendo passi da gigante … e quindi davvero non so quanto tempo ci
separa ancora dal momento in cui, ri-parafrasando Hegel, tutto ciò che è
reale è virtuale.
Non
ho alcun dubbio sul fatto che la mimesis dell’arte virtuale
risulterà a un certo punto perfetta ma non mi interessa poiché,
proseguendo nella lettura del già citato aforisma 93 di Minima
Moralia, mi sono convinto del fatto che questa perfezione sarà tanto
più illusoria e pericolosa quanto più risulterà tale agli occhi dei più.
Anche e soprattutto perché, come abbiamo già letto, trasforma «ogni
intenzione – e fosse anche la verità – in menzogna».
Mi
sono convinto che «siamo in una trappola» perché
il
conformismo è operato a priori dall’atto di significare in sé,
indipendentemente dal significato concreto mentre, d’altra parte, solo
lo sforzo di significare potrebbe scuotere il conformismo, la rispettosa
ripetizione del fatto. (…) Che
intenzione e realismo siano inconciliabili, e che la sintesi sia
diventata menzogna, è implicito nel concetto di chiarezza o di
univocità. Il concetto di univocità è equivoco, in quanto si riferisce
contemporaneamente e simultaneamente all’organizzazione della cosa in se
stessa e alla sua trasmissione al pubblico[11].
Il
problema di questa maniacale ripetizione planetaria di schemi
concettuali e di contenuti tramite la rete non è nella sua immoralità
strutturale o nella sua inutilità per la rivoluzione proletaria o per il
bene del genere umano. Qui non si fa del moralismo, né tanto meno del
moralismo politico demodè.
L’attualissima lezione di Adorno è nel fatto che, in questo processo di
progressiva linearizzazione e semplificazione dei contenuti al fine
della loro trasmissione, i contenuti non restano intatti. L’intenzione
– che è in estrema sintesi il significato più genuino e più genuinamente
umano di qualcosa – viene
sacrificata nella sua esposizione ai canoni di realismo (quindi di
pseudorealismo!) che l’industria culturale (quindi l’industria virtuale)
ha imposto a questa esposizione stessa. Questi canoni infatti, mentre
sembrano riferirsi unicamente alla trasmissione al pubblico ed alle sue
modalità ed esigenze, vanno ad operare anche e soprattutto nella
«organizzazione della cosa in se stessa», mutilandola irreversibilmente
della sua originalità, quindi della sua natura.
Ma
questa ambiguità è tutt’altro che casuale. La chiarezza indica il punto
di indifferenza di ragione obbiettiva e comunicazione[12].
Che è
esattamente il punto in cui la presunta professione di verità ridotta
dei prodotti virtuali, che volevamo indagare, diventa poco credibile ed
estremamente pericolosa: la loro verità ridotta di oggi sarà
probabilmente l’unico canone di verità domani, quindi bisogna stare
attenti a quegli aspetti che, lasciati progressivamente indietro e
abbandonati come non chiari e non fungibili, celano magari in sé la
natura più intima di ciò che viene virtualizzato, natura che perciò non
potrà mai comparire nella sua raffigurazione virtuale.
La
formulazione chiara, la nettezza che, nelle quindici righe di un link,
è in grado di fornirci le risposte ai nostri interrogativi di ogni tipo,
non è veramente interessata a risponderci né all’integrità (che non è la
fedeltà) di quello che sta trasmettendo.
La
formulazione chiara indulge al consumo[13].
E
basta.
Un
altro motivo per cui non mi interessa se riusciranno davvero a creare
una second life perfettamente sostituibile alla vita vera (cosa
che per altro con il dispositivo Ingress di Google giunge a una
sua plausibilità), è che intanto è stato trovato un modo per invertire i
termini della nostra questione. Attualmente, per continuare ancora nella
nostra parafrasi hegeliana, tutto ciò che è virtuale è realizzabile.
Osservando il fenomeno dei meme mi sono reso conto che oggi siamo
passati dalla mimesis alla memesis. Il problema non è più
infatti quanto i meme siano fedeli e simili alle espressioni
facciali umane, come era ad esempio per le emoticons, ma quanto
queste riescano ad essere fedeli ai meme. I meme sono il
discorso da «ripetere ritualmente» e l’enorme marasma della chiacchiera
virtuale è il dispositivo finalizzato a questo scopo. Presto ciò che ha
una provenienza virtuale sarà indistinguibile da ciò che non la ha, e,
nel giro di qualche generazione, questo equivoco potrebbe
assumere proporzioni per noi inimmaginabili.
Incredibile… al termine della nostra parabola sembriamo proiettati verso
un ritorno dell’equivoco, un ritorno che completerebbe la nostra
deiezione virtuale realizzando il paradosso per cui, in un completo
rovesciamento della nostra prospettiva di partenza, tutto ciò che è
virtuale è reale.
5
La
vera domanda è dunque questa, e con essa mi avvio a concludere … quanta
vita ha ancora davanti l’inequivocabilità della nostra
distinzione tra reale e virtuale? Quanta importanza perde per il genere
umano, anno dopo anno, questa distinzione?
Si è
parlato della pornografia, un sistema che a mio avviso funziona già come
un gigantesco sistema di meme: consulto in Internet l’archivio
delle modalità di accoppiamento – dei porno-meme – ne scelgo una
e provo a riprodurla nella mia vita nel modo più perfetto possibile. Se
il mio approccio alla sessualità nasce in questo modo, perché ad esempio
sono un bambino di sei anni che viene lasciato con un accesso ad
Internet in mano nella totale solitudine per giornate intere, cosa sarà
il mio primo bacio? Quanto potrà il mio piccolo partner dire che quel
bacio non viene dalla virtualità? Sono davvero necessari solo due corpi
affinché un bacio sia vero?
Io
non ho davvero una risposta a tutte queste domande, come non ho davvero
una soluzione a tutto ciò, e in questo posso tranquillamente riconoscere
la mia notevole ambiguità nel narrarvi il mio punto di vista
sull’ambiguità del virtuale. Solo, davvero non riesco a bearmi di
letture ottimistiche di questo processo né d’altra parte a credere
nell’oggettiva ed ineludibile necessità di esso, anche perché
i
dominatori stessi non credono a nessuna necessità oggettiva, anche se
dànno talvolta questo nome alle loro macchinazioni. Essi si presentano
come ingegneri della storia universale. Solo i dominati prendono come
necessaria e intoccabile l’evoluzione che, ad ogni aumento decretato del
loro tenore di vita, li rende di un grado più impotenti[14].
GIUGNO 2014
[1]
M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2010, p.
215.
[2]
Ibidem,
pp. 211-212.
[3]
Ibidem,
pp. 206-207.
[4]
Ibidem,
p. 207.
[5]
Ibidem, pp. 213-214.
[6]
Ibidem, p. 215.
[7]
T. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo,
Einaudi, Torino 1997, p. 8.
[8]
T. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino 2005, pp.
166-167.
[9]
Ibidem, pp. 241-242.
[10]
T. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo,
cit., p. 90.
[11]
T. Adorno, Minima moralia, cit., p. 167.
[12]
Ibidem.
[13]
Ibidem.
[14] T. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 45.