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Ottobre 2014

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L'AMBIGUITà DELLA COMUNICAZIONE VIRTUALE.

Verso una dialettica della virtualità

NerioJamil Palumbo

 

Il testo riportato di seguito è l’intervento tenutosi il 10 giugno scorso all’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, nell’ambito dei seminari intitolati Anestesie del presente (9-11 giugno 2014).

 

1

In questo luogo pubblico ma non comune, in questa pubblica occasione – lontanissima dall’essere però un’occasione comune – vorrei partire da un’impressione comune, da un riconoscibilissimo ed immediato modo di sentire della nostra epoca.

Per quanto la questione riguardante la virtualità e il nostro rapporto con essa – e con i nuovi mezzi di comunicazione – possa esser resa complessa e rielaborata sulla base di prospettive specialistiche di vario tipo (cosa che in parte avverrà anche nel corso di questo intervento, se pur con qualche provocatoria anomalia), rimane possibile l’identificazione di una percezione media di essa, ed è proprio da alcuni tratti di questa percezione che vorrei partire.

Esiste un’evidenza della virtualità. Heidegger l’avrebbe definita uno «stato interpretativo medio» della virtualità.

Fin da subito vorrei mettere in evidenza che, sospeso tra chi – molto fondatamente e legittimamente – considera il vecchio professore del Reich come inservibile, e chi invece si rivolge con acribia spesso stolida, forse superflua, alle ultime e recondite pieghe del suo complesso discorso – convinto magari di trovarvi davvero il «senso dell’essere» o qualcosa del genere – io farò un uso del tutto irresponsabile ed a-filologico del suo grande scritto della giovinezza – Essere e Tempo – servendomi semplicemente di alcune delle sue intuizioni e di alcune sue sistemazioni concettuali per applicarle, sciolte dal loro contesto originario, all’oggetto di cui ci stiamo occupando.

Lo stato interpretativo medio, dunque. Quello che comunemente si dice attorno alla virtualità e ai suoi mezzi, quello che probabilmente la produzione fantascientifica – in costante sinergia con l’informatizzazione di molte operazioni fondamentali della nostra vita – ha prodotto e progressivamente arricchito.

Cosa dice questo stato interpretativo? La cosa che immediatamente sa riconoscere, e che infatti afferma senza dubbio alcuno, è che virtuale e reale non sono la stessa cosa: che il virtuale è inequivocabilmente non reale. Chiunque sa che parlare con una persona dal vivo non è come parlarci al telefono, e a maggior ragione non è come chattarci.

Siamo dunque di fronte a un qualcosa che ha uno statuto di verità ridotto. Non sono menzogne, non sono cose inesistenti, ma non sono neppure reali. Godono di una realtà e di una verità ridotta.

 

Accanto a ciò, però, non sono mancati negli ultimi anni tentativi di circonloquire questo mistero in altri modi più elaborati, nei cosiddetti Virtual studies … sociologi, antropologi, filosofi, semiologi, psicologi od anche solo studiosi di informatica e di hackering hanno fornito una serie di definizioni della virtualità, collezionare le quali potrebbe essere ad oggi, 2014, un lavoro davvero molto lungo. Nel mio piccolo vorrei fornire quindi la mia circonlocuzione, costruita intuitivamente sulla base di quello che ho potuto notare in molti anni di utilizzo e di riflessione su questi strumenti: la virtualità è un sistema iconico interattivo di rappresentazione del reale.

 

Conscio di non essere però completamente estraneo a quello che prima avevamo definito come «stato interpretativo medio» della virtualità, conscio che, anche rimanendo su Heidegger, nessun Esserci è in grado di sottrarsi del tutto a quel tipo di interpretazione – a quel tipo di apertura del Ci, per dirlo in heideggerese – vorrei fare una somma matematica delle due definizioni: sommando la mia e quella comune, otterremmo che la virtualità è un sistema iconico interattivo di rappresentazione del reale, inequivocabilmente non vero. E qui il primo problema.

Questo sistema, considerato in tutte le sue propaggini (in tutti i suoi rappresentanti, potremmo dire), richiede parte del nostro tempo. L’uomo deve dedicarsi alla virtualità, a quegli aspetti della sua vita che ha deciso di affidare a questo sistema iconico interattivo.

Modifichiamo il naturale fluire della nostra vita, sacrifichiamo la nostra attenzione, la nostra emotività e in ogni caso parti anche “minime” del nostro corpo (gli occhi e le dita) a questa dimensione altra, a questa velocità altra … come se il corso di un fiume rallentasse improvvisamente, producendo quello che la scienza geologica ha definito come deiezione, un deposito di detriti dovuto al rallentamento di un corso d’acqua in un determinato punto.

La virtualità è così una deiezione della nostra esistenza e il nostro piccolo gioco architettonico delle definizioni può concludersi con quest’ultima: la virtualità è un’inequivocabile deiezione. Una deiezione senza equivoco.

 

2

Ora, deiezione è un termine con una storia filosofica importante: così infatti Pietro Chiodi, nella sua rinomata versione di Essere e tempo, tradusse il Verfallen heideggeriano, quella condizione esistenziale in cui

 

l’Esserci è innanzitutto e per lo più presso il «mondo» di cui si prende cura. Questa immedesimazione in … ha per lo più il carattere dello smarrimento nella pubblicità del Si[1].

 

Nella suggestiva descrizione heideggeriana, esisteva un vero e proprio modo di guardare e vivere il mondo (tecnicamente un’apertura dell’Esserci, Erschlossenheit), nel quale le dimensioni costitutive degli esseri umani (gli esistenziali co-originari dell’Esserci) – secondo Heidegger la comprensione, il discorso e la situazione emotiva – decadevano nelle loro forme inautentiche (o deiettive) – rispettivamente la curiosità, la chiacchiera e l’equivoco: forme in cui la «pubblicità del Si» (il modo in cui comunemente si dicono, si fanno e si pensano le cose) è unico ed inappellabile giudice della realtà e della verità delle cose stesse.

 

«Ad oculos enim videre proprie pertinet. Il vedere è proprio degli occhi». Una volta chiarito l’importante ruolo del vedere nel fenomeno del comprendere occidentale in generale, Heidegger descrive la curiosità, un vero e proprio modo di guardare il mondo in cui

 

l’Esserci cerca ciò che è lontano unicamente per portarselo vicino nel suo aspetto. L’Esserci è interessato solo all’aspetto del mondo; in questo modo di essere egli tende a liberarsi da se stesso quale essere-nel-mondo, a liberarsi dall’essere presso l’utilizzabile quotidiano più vicino. La curiosità, ormai liberata, non si prende cura di vedere per comprendere ciò che vede, per «essere-per» esso, ma si prende cura solamente di vedere. Essa cerca il nuovo esclusivamente come trampolino verso un altro nuovo. Ciò che preme a questo tipo di visione non è la comprensione o il rapporto genuino con la verità, ma unicamente la possibilità di abbandonarsi al mondo. La curiosità è perciò caratterizzata da una tipica incapacità di soffermarsi su ciò che si presenta. (…) In questa agitazione permanente la curiosità cerca di continuo la possibilità della distrazione. La curiosità non ha nulla a che fare con la considerazione dell’ente piena di meraviglia, col thaumazein, non la interessa lo stupore davanti a ciò che non si comprende, perché essa cerca, sì, di sapere, ma unicamente per poter aver saputo[2].

 

Discorso tutto sommato simile, e similmente profetico, per quanto riguarda la forma deiettiva (o potremmo già dire virtuale?!) del discorso – o meglio della originaria, naturale discorsività del reale – ovvero la chiacchiera. In essa,

 

il discorso comunicato può essere in gran parte compreso anche senza che colui che ascolta arrivi ad essere in una comprensione originaria di ciò sopra cui il discorso discorre. Più che di comprendere l’ente di cui si discorre, ci si preoccupa di ascoltare ciò che il discorso dice come tale. Ciò che è compreso è il discorso, il sopra-che-cosa lo è solo approssimativamente e superficialmente. Si intendono le medesime cose, perché ciò che è detto è compreso da tutti nella medesima medietà[3].

 

Ma le inquietanti analogie di questa descrizione heideggeriana ai modi di rapportarsi alla realtà generati dalla virtualità non sono finite:

 

poiché il discorso ha perso, o non ha mai raggiunto, il rapporto ontologico originario con l’ente di cui si discorre, ciò che esso comunica non è l’appropriazione originaria di questo ente, ma la diffusione e la ripetizione del discorso. Ciò-che-è-stato detto come tale si diffonde in cerchie sempre più larghe e ne trae autorità. Le cose stanno così perché così si dice. (…) L’infondatezza della chiacchiera non è un impedimento per la sua diffusione pubblica, bensì un fattore che la favorisce. La chiacchiera è la possibilità di comprendere tutto senza alcuna appropriazione preliminare della cosa da comprendere. La chiacchiera garantisce già in partenza dal pericolo di fallire in questa appropriazione. La chiacchiera, che è alla portata di tutti, non solo esime dal compito di una comprensione genuina, ma diffonde una comprensione indifferente, per la quale non esiste più nulla di inaccessibile[4].

 

I corsivi sono tutti suoi. Heidegger sembra delineare in queste pagine un colossale inganno gnoseologico-metafisico. Eppure ogni inganno deve fondarsi su un equivoco, e la chiacchiera e la curiosità trovano proprio nell’equivoco, in un senso kantiano che lui forse non avrebbe approvato, la loro condizione di possibilità.

 

L’equivocità che caratterizza lo stato interpretativo pubblico accredita il parlare-prima e il presentimento curioso come l’autentica realtà, screditando l’esecuzione e l’azione come qualcosa di secondario e privo di interesse. La comprensione dell’Esserci fondata nel Si si inganna quindi costantemente quando si tratta di progettare le proprie possibilità di essere genuine. Nell’equivoco, l’Esserci è sempre nel «Ci», cioè nell’apertura pubblica dell’essere-assieme, in cui la chiacchiera più diffusa e la curiosità più sfrenata creano l’«animazione» nella quale tutto accade quotidianamente in modo tale che in fondo non accade mai nulla. L’equivoco offre costantemente alla curiosità ciò che essa va cercando e dà alla chiacchiera l’illusione che tutto sia deciso da essa[5].

 

L’equivoco è il cardine della deiezione, proprio perché consente ad essa ed alle altre due forme di cui essa si compone (chiacchiera e curiosità) di non essere percepite come inautentiche.

Da questo punto di vista, possiamo dunque essere tranquilli nel nostro dedicarci alle numerose chiacchiere e curiosità della deiezione virtuale: proprio perché sappiamo riconoscerla come priva d’equivoco, inequivocabilmente non vera, essa non rischia di apparirci come più reale di ciò che è e, probabilmente, giammai riuscirà ad assurgere – come era per l’originale deiezione heideggeriana – ad una condizione esistenziale e basilare dell’essere umano, ad una «determinazione esistenziale dell’Esserci stesso». In Heidegger, per rimanere un attimo ancora con lui,

 

inautentico e non autentico non debbono affatto essere intesi come «autenticamente non», quasi che, in questo modo di essere, L’Esserci perdesse il suo essere. L’inautenticità significa così poco qualcosa come un non-essere-più-nel-mondo che essa costituisce, al contrario, un modo eminente di essere-nel-mondo, (…). Il non-essere-se-stesso funge come una possibilità positiva (...). Questo non-essere deve essere inteso come il modo di essere più prossimo dell’Esserci, in cui esso si mantiene per lo più. (…) La deiezione è una determinazione esistenziale dell’Esserci stesso[6].

 

Una precisazione che ci tornerà molto utile.

 

3

Eppure qualcosa sta cambiando – o meglio, probabilmente qualcosa ha compromesso fin dall’inizio la linearità rassicurante della nostra distinzione inequivocabile tra reale e virtuale.

Lungo il corso della mia collaborazione al gruppo di lavoro Esperienza e rappresentazione, ho provato ad insistere più volte e in vari modi sulla necessità di illuminare la natura più intima della virtualità grazie ad una sua ricostruzione storico-genealogica. Introducendo l’aggettivo “iconico” nella mia definizione, ho voluto sintetizzare la rilevanza che – a mio avviso – l’uso e l’elaborazione di immagini di vario tipo hanno avuto nella genesi e nella storia di ciò che è oggi la virtualità.

La parte di storia del virtuale che riguarda le immagini e che ci riguarda molto da vicino, ho voluto provocare qualche volta in quelle sedi, è proprio la storia di quel Libro di figure senza figure, di quella «nuova iconografia, muta e prigioniera» con cui Adorno seppe sintetizzare l’imago mundi derivante dalla vittoria finale dell’Illuminismo, una vittoria che era allo stesso tempo l’avvento dell’industria culturale.

Si dovrebbe ritornare sempre e comunque sul funzionamento di quest’ultima poiché

 

il suo richiamarsi al proprio carattere commerciale, la sua professione di verità ridotta, è divenuta da tempo una scusa per sottrarsi alla responsabilità della menzogna[7].

 

e così la nostra analisi – come fu per quella di Adorno ed Horkeimer nella appena citata Dialettica dell’Illuminismo – dovrebbe provare ad attenersi «alla pretesa insita oggettivamente nei prodotti, di essere creazioni estetiche e quindi verità rappresentata», cercando di cogliere i risvolti di questa «verità ridotta» della virtualità, e quindi la pericolosità di questa strutturale quanto furba de-responsabilizzazione.

Un’analisi storico-genealogica della virtualità, nella quale tenderemo a prenderla un po’ sul serio ... proprio come fu per i due francofortesi, la prenderemo «più sul serio di quanto essa stessa non vorrebbe».

 

4

Come abbiamo accennato, la nostra serietà sarà storica, e nella sua storicità sarà quindi responsabile. In questo senso è bene precisare subito che tutta la nostra ricostruzione non sarà che un’ipotesi: intuitiva, particolare nella scelta dei suoi riferimenti e quindi perpetuamente rivedibile.

In linea con quanto detto riguardo alle immagini e al loro ruolo – in linea anche con quanto detto poc’anzi da Alessandro su quel particolare e delicato settore di immagini che è il porno-graphein – la nostra storia sarà una storia del graphein. Se la virtualità è infatti un sistema iconico interattivo, bisogna capire la natura intima delle modalità d’elaborazione di queste icone, di queste immagini, e allo stesso tempo provare a monitorare passo dopo passo le modalità d’interazione che gli esseri umani hanno avuto con esse. Se ci concederemo qualche acrobazia, fosse anche qualche acrobazia illecita, sarà invero in buona coscienza, dato che già da un bel po’ sappiamo che le più incredibili acrobazie di pensiero non possono essere in realtà al passo con quelle fatte dai mille demoni di quel mondo che il pensiero prova a spiegarsi e vivere.

La virtualità è arte, ma l’arte (o almeno un certo modo di fruirne) è sempre stata virtualità in nuce.

«L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità», leggiamo in Minima Moralia, una definizione che ci è vicina, che ci somiglia, in quanto è in grado di rendere splendidamente l’intrecciarsi dell’arte con la magia e con la conoscenza, quindi con la verità e la menzogna.

Così la nostra storia comincia con lo stravolgimento totale dei mezzi dell’arte figurativa avvenuto nell’ultimo secolo e mezzo, comincia con quella piccola ma grandiosa rivoluzione che si chiama fotografia, e soprattutto con quella grande ma pericolosissima rivoluzione che si chiama cinema.

Quando fu creato un meccanismo atto a far riprodurre un sight – una visione – ad una macchina, senza il bisogno di passare per il fallibile disegno, l’importante e antica parola realismo conobbe il suo tramonto e, allo stesso tempo, la sua nuova, strana, importantissima alba.

La parola mimesis indicava in Grecia l’imitazione, e l’imitazione fu subito collegata dalla sapienza greca alla finzione. Le danze corali imitavano, mimavano le falangi di guerra e i loro movimenti, ma c’era la danza e quindi non c’era davvero la guerra. Dalla celeberrima condanna platonica della Repubblica in poi, mimesis divenne l’atto, l’intento originario dell’artista, il quale doveva riprodurre la natura, la physis – attraverso la natura, dia physeos – creando prodotti che ne imitassero il funzionamento e che insinuassero però magicamente la bellezza tra le pieghe di questa riproduzione.

Tutta la storia dell’arte è in fondo un semplice avvicendarsi di approcci alla mimesis: tra questi, spicca da sempre quello realistico, in base al quale l’efficacia artistica di una produzione è direttamente proporzionale alla sua capacità di riprodurre la natura senza lacune ed imperfezioni.

Nella letteratura, nella scultura e nella pittura realistica abbiamo sognato per millenni l’avvento in qualche angolo del mondo delle mani divine, quelle capaci di quella seconda creazione – quella che gli indemoniati esteti tedeschi chiamavano zweite Schöpfung – in grado di dare una riproduzione della natura impossibile da distinguere dal suo oggetto ispiratore di provenienza: nel frattempo abbiamo inventato le proporzioni, la prospettiva, la lente di ingrandimento e quant’altro, nel tentativo di aiutare le mille umanissime mani di artisti nel loro difficile e appassionante compito mimetico. Queste mille mani del passato sono la preistoria artistica del virtuale, proprio e semplicemente in quanto, come la virtualità e prima di essa, riproducevano il reale. La loro massima, potremmo dire parafrasando Hegel, era che tutto ciò che è reale è virtualizzabile.

 

A partire da ciò, possiamo riconoscere e ricostruire alcune fasi del progressivo potenziamento di questa volontà di realismo, partendo appunto da quelle grandi e connesse rivoluzioni tecnologiche che segnarono il passaggio dalla riproduzione realistica puramente umana al «naturalismo radicale» di quella macchinica: la fotografia e il cinema.

In questo viaggio, ci serviremo ovviamente di una guida d’eccezione.

La produzione degli anni ‘30 e ‘40 della Scuola di Francoforte è caratterizzata da una costante e per noi preziosissima attenzione alle linee d’evoluzione più tortuose e nascoste dell’arte contemporanea: Adorno sapeva osservare e maneggiare straordinariamente nella stessa pagina tutte le epoche dell’umano creare, da Omero a Walt Disney.

Nelle numerosissime pagine dedicate a questo tema, spicca un argomento un po’ tortuoso ma molto importante, riguardante l’evolversi e il mutare dei meccanismi di narrazione a partire dall’introduzione di nuovi mezzi tecnici di riproduzione del reale, uno fra tutti – già “caro” al Benjamin dell’Opera d’arte – il montaggio cinematografico.

La possibilità del montaggio come atto creativo fu il motivo per il quale il parlare di naturalismo e di realismo – come se n’era parlato fino ad allora – non ebbe più un senso, il motivo per cui, ancora oggi, può esistere solo uno «pseudorealismo, che è lo stile dell’industria culturale».

 

Se il film, secondo le esigenze di Zola, si abbandonasse ciecamente alla rappresentazione della vita quotidiana, come – coi mezzi della fotografia mobile e della ripresa sonora – sarebbe certamente in grado di fare, ne risulterebbe un quadro insolito, estraneo alle abitudini visive del pubblico, diffuso e inarticolato verso l’esterno. Il naturalismo radicale che la tecnica cinematografica rende possibile, dissolverebbe alla superficie ogni contesto significativo ed entrerebbe in violento contrasto col realismo familiare. Il film trapasserebbe nella corrente associativa delle immagini, e la sua forma sarebbe solo la loro costruzione pura e immanente. Quando invece, in base a considerazioni commerciali, o anche in nome di un’intenzione oggettiva, seleziona le parole e i gesti in rapporto a un’idea destinata a conferir loro un senso, questo tentativo, forse inevitabile, entra in contraddizione altrettanto inevitabile con la premessa naturalistica. Nella letteratura naturalistica, la minor compattezza della riproduzione lasciava ancora un certo spazio alle intenzioni: ma la duplicazione della realtà, compatta e senza lacune, che è propria della tecnica cinematografica, trasforma ogni intenzione – e fosse anche la verità – in menzogna. La parola, che deve imprimere nell’ascoltatore il carattere di chi parla o addirittura il significato del tutto, suona, rispetto alla fedeltà letterale dei fotogrammi, «innaturale»[8].

 

Queste poche righe – solo la prima parte dell’impagabile aforisma 93 di Minima Moralia, scritto nel 1945 – ci illuminano sulla situazione storica da cui probabilmente partì la virtualità propriamente detta, ma allo stesso tempo ci testimoniano di un momento di sviluppo di essa in cui tutti i suoi problemi erano già non solo avvertibili, ma anche ampiamente delineabili. Uno fra tutti la trasformazione di «ogni intenzione – e fosse anche la verità – in menzogna».

La «duplicazione della realtà, compatta e senza lacune» è già quella della riproduzione video, quella che per noi è oggi ovvia, e che per Adorno era visibilmente un “salto” di importanza storica unica. Ma andiamo con calma. Dal ‘45 ad oggi, la compattezza delle riproduzioni ha fatto passi notevoli.

Dalla riproduzione video passammo alla riproduzione video live, alla diretta audiovisiva … dal cinema passammo alla televisione.

In questo stadio, l’industria tecnologica risolse molto rapidamente i paradossi davanti a cui fu messa dalle critiche sociali più intransigenti. Lo stesso Pasolini riconobbe in quell’imposizione generalizzata di immagini un meccanismo autoritario, nel quale il livello d’interazione del pubblico doveva limitarsi alla semplice fruizione passiva, o tuttalpiù alla scelta tra alternative prestabilite.

Dalla diretta televisiva si passò dunque all’utilizzo delle linee telefoniche e il televoto generò nel grande pubblico l’illusione di poter interagire – e persino di contribuire alla creazione dei contenuti di cui avrebbe fruito.

Anche questo, però, uno “stratagemma” ampiamente prevedibile già al termine del secondo grande conflitto mondiale, e già insito, secondo Adorno, nei meccanismi stessi della cultura di massa.

 

L’industria culturale pretende ipocritamente di regolarsi sui consumatori e di fornire loro ciò che desiderano. Ma mentre si studia di respingere ogni idea di autonomia ed erige a giudici le sue vittime, la sua autarchia e sovranità effettiva – che essa cerca invano di nascondere – supera tutti gli eccessi dell’arte più «autonoma». L’industria culturale, anziché adattarsi alle reazioni dei clienti, le crea o le inventa. (…) «La musica ascolta per l’ascoltatore», e il film pratica sulla scala del trust l’odioso trucco degli adulti che, quando vogliono affibbiare qualcosa a un bambino, lo stordiscono col linguaggio che vorrebbero che quello adoperasse, e gli presentano il regalo più discutibile con l’espressione di schioccante rapimento che intendono evocare in lui. L’industria culturale è modellata sulla regressione mimetica, sulla manipolazione degli istinti mimetici repressi: essa si serve del metodo di anticipare la propria imitazione da parte dello spettatore e di fare apparire come già esistente l’intesa che mira a creare. E ci riesce tanto meglio in quanto – in un sistema stabile – può effettivamente contare su quell’intesa: intesa che, perciò, non si tratta tanto di produrre, quanto di ripetere ritualmente. Il suo prodotto non è uno stimolo, ma un modello per reazioni e stimoli inesistenti[9].

 

Regressione mimetica del vivaio umano. Falsa quanto tattica riverenza dell’unico adulto rimasto in vita, ovvero la grande macchina industriale delle immagini.

Questo è un punto delicato della nostra storia, perché in un certo senso essa smette di essere storia per diventare cronaca. Almeno un tentativo di cronaca.

L’industria culturale è mai come oggi un artista prepotente, autonomo e autarchico fino all’eccesso, un artista autoritario nascosto dietro una maschera di plasmabilità, di permeabilità, di affabile disponibilità alle interazioni e perfino alle personalizzazioni di ogni tipo.

Il suo segreto però, il segreto del suo autoritarismo ormai invisibile, è nel fatto che questa autorità non si applica davvero sulla selezione dei contenuti, delle immagini, quindi degli stimoli che fornisce – cosa che apparirebbe a chiunque come una censura diretta – ma si applica invece alle modalità di esposizione e quindi di ricezione di esse. Il problema non è il cosa, ma il come … il mezzo non è assolutamente neutrale.

 

Non a caso, nella Dialettica dell’Illuminismo sarà tracciato un ardito e suggestivo parallelismo tra questo meccanismo e quello di sussunzione dei dati appercepiti da parte dell’intelletto nella (secondo il ragionamento dei francofortesi) autoritaria e logocentrica gnoseologia kantiana.

 

Kant ha anticipato intuitivamente ciò che è stato realizzato consapevolmente solo da Hollywood: le immagini sono censurate in anticipo, all’atto stesso della loro produzione, secondo i moduli dell’intelletto conforme al quale dovranno essere contemplate. La percezione, da cui il giudizio pubblico esce confermato, era già apprestata da esso prima ancora di sorgere[10].

 

Come un gigantesco Io kantiano, l’industria culturale censura preventivamente tutto non censurando nulla, poiché imprime il suo marchio fondamentale sul modo di ricevere le immagini in generale più che sulle singole immagini. Allo stesso tempo, l’istinto mimetico viene represso perché viene reso innocuo tramite la ormai radicale uniformità delle sue modalità d’espressione. Mi piace, non mi piace, ti voto, non ti voto … ti amo, non ti amo.

Dall’atto percettivo e mimetico preso singolarmente (ad esempio il singolo feedback, anche se autorevole, sulla singola immagine prodotta), l’industria delle immagini ne esce sistematicamente confermata. Dalla scelta della religione di riferimento a quella delle scarpe è tutto perfettamente equivalente.

Quando decidiamo di assorbire o non assorbire, di condividere o non condividere qualche contenuto specifico, il nostro giudizio sarà indifferente, perché ciò che conta è che, in un caso come nell’altro, il nostro modo di esprimerlo sarà perfettamente in linea con le intenzioni e le modalità di chi ce l’ha prodotto.

Quando e se la guardiamo, la grande maschera dell’artista autoritario ci sorriderà in ogni caso.

 

Il grande problema, da Adorno in poi, e da questo punto della nostra storia in poi, è però quello del progressivo perfezionamento ed arricchimento di questa maschera, perfezionamento che, ovviamente, è andato di pari passo e in perfetta sinergia con il perfezionamento della mimesis di cui ci stiamo occupando. Più la mimesis è fedele – più riesce a trasformare il suo montaggio, e quindi il suo ritmo, il suo come nel più normale e ovvio fluire delle immagini … a trasformare il suo pseudorealismo in canone di realismo – più ha gli strumenti per «anticipare la propria imitazione da parte dello spettatore», e così non importerà più quale immagine specifica egli sceglierà di imitare. L’istinto mimetico, una volta represso, può ubriacarsi ora dell’infinita varietà messagli a disposizione fino alla morte. La sua gabbia invisibile di fantasie indotte proteggerà il sistema da ogni anomalia.

Al nostro artista non interessa più di creare l’intesa, essa va piuttosto «ripetuta ritualmente» … guarda un po’, proprio come la chiacchiera cui abbiamo accennato all’inizio del nostro discorso.

 

A questo punto della nostra storia, mentre varchiamo le soglie di Internet e della virtualità vera e propria, devo chiedervi perdono per la leggerezza con cui vi parlerò, per l’ambiguità con cui vi parlerò dell’ambiguità del virtuale.

Come ho avuto modo di scrivere ultimamente, non so quanto manchi ancora a che Matrix diventi un documento di denuncia, anche perché probabilmente allo stato attuale delle cose non m’interessa nemmeno più di tanto. Non so quanto manchi a che la lunga parabola del graphein che stiamo delineando trovi la sua fine, o meglio il suo telos (parola che indica allo stesso tempo la fine, la morte e la massima realizzazione di qualcosa). La stessa riproduzione artificiale di sensazioni fisiche sta facendo passi da gigante … e quindi davvero non so quanto tempo ci separa ancora dal momento in cui, ri-parafrasando Hegel, tutto ciò che è reale è virtuale.

Non ho alcun dubbio sul fatto che la mimesis dell’arte virtuale risulterà a un certo punto perfetta ma non mi interessa poiché, proseguendo nella lettura del già citato aforisma 93 di Minima Moralia, mi sono convinto del fatto che questa perfezione sarà tanto più illusoria e pericolosa quanto più risulterà tale agli occhi dei più. Anche e soprattutto perché, come abbiamo già letto, trasforma «ogni intenzione – e fosse anche la verità – in menzogna».

Mi sono convinto che «siamo in una trappola» perché

 

il conformismo è operato a priori dall’atto di significare in sé, indipendentemente dal significato concreto mentre, d’altra parte, solo lo sforzo di significare potrebbe scuotere il conformismo, la rispettosa ripetizione del fatto. (…) Che intenzione e realismo siano inconciliabili, e che la sintesi sia diventata menzogna, è implicito nel concetto di chiarezza o di univocità. Il concetto di univocità è equivoco, in quanto si riferisce contemporaneamente e simultaneamente all’organizzazione della cosa in se stessa e alla sua trasmissione al pubblico[11].

 

Il problema di questa maniacale ripetizione planetaria di schemi concettuali e di contenuti tramite la rete non è nella sua immoralità strutturale o nella sua inutilità per la rivoluzione proletaria o per il bene del genere umano. Qui non si fa del moralismo, né tanto meno del moralismo politico demodè.

L’attualissima lezione di Adorno è nel fatto che, in questo processo di progressiva linearizzazione e semplificazione dei contenuti al fine della loro trasmissione, i contenuti non restano intatti. L’intenzione – che è in estrema sintesi il significato più genuino e più genuinamente umano di qualcosa –  viene sacrificata nella sua esposizione ai canoni di realismo (quindi di pseudorealismo!) che l’industria culturale (quindi l’industria virtuale) ha imposto a questa esposizione stessa. Questi canoni infatti, mentre sembrano riferirsi unicamente alla trasmissione al pubblico ed alle sue modalità ed esigenze, vanno ad operare anche e soprattutto nella «organizzazione della cosa in se stessa», mutilandola irreversibilmente della sua originalità, quindi della sua natura.

 

Ma questa ambiguità è tutt’altro che casuale. La chiarezza indica il punto di indifferenza di ragione obbiettiva e comunicazione[12].

 

Che è esattamente il punto in cui la presunta professione di verità ridotta dei prodotti virtuali, che volevamo indagare, diventa poco credibile ed estremamente pericolosa: la loro verità ridotta di oggi sarà probabilmente l’unico canone di verità domani, quindi bisogna stare attenti a quegli aspetti che, lasciati progressivamente indietro e abbandonati come non chiari e non fungibili, celano magari in sé la natura più intima di ciò che viene virtualizzato, natura che perciò non potrà mai comparire nella sua raffigurazione virtuale.

La formulazione chiara, la nettezza che, nelle quindici righe di un link, è in grado di fornirci le risposte ai nostri interrogativi di ogni tipo, non è veramente interessata a risponderci né all’integrità (che non è la fedeltà) di quello che sta trasmettendo.

 

La formulazione chiara indulge al consumo[13].

 

E basta.

 

Un altro motivo per cui non mi interessa se riusciranno davvero a creare una second life perfettamente sostituibile alla vita vera (cosa che per altro con il dispositivo Ingress di Google giunge a una sua plausibilità), è che intanto è stato trovato un modo per invertire i termini della nostra questione. Attualmente, per continuare ancora nella nostra parafrasi hegeliana, tutto ciò che è virtuale è realizzabile.

Osservando il fenomeno dei meme mi sono reso conto che oggi siamo passati dalla mimesis alla memesis. Il problema non è più infatti quanto i meme siano fedeli e simili alle espressioni facciali umane, come era ad esempio per le emoticons, ma quanto queste riescano ad essere fedeli ai meme. I meme sono il discorso da «ripetere ritualmente» e l’enorme marasma della chiacchiera virtuale è il dispositivo finalizzato a questo scopo. Presto ciò che ha una provenienza virtuale sarà indistinguibile da ciò che non la ha, e, nel giro di qualche generazione, questo equivoco potrebbe assumere proporzioni per noi inimmaginabili.

Incredibile… al termine della nostra parabola sembriamo proiettati verso un ritorno dell’equivoco, un ritorno che completerebbe la nostra deiezione virtuale realizzando il paradosso per cui, in un completo rovesciamento della nostra prospettiva di partenza, tutto ciò che è virtuale è reale.

 

5

La vera domanda è dunque questa, e con essa mi avvio a concludere … quanta vita ha ancora davanti l’inequivocabilità della nostra distinzione tra reale e virtuale? Quanta importanza perde per il genere umano, anno dopo anno, questa distinzione?

Si è parlato della pornografia, un sistema che a mio avviso funziona già come un gigantesco sistema di meme: consulto in Internet l’archivio delle modalità di accoppiamento – dei porno-meme – ne scelgo una e provo a riprodurla nella mia vita nel modo più perfetto possibile. Se il mio approccio alla sessualità nasce in questo modo, perché ad esempio sono un bambino di sei anni che viene lasciato con un accesso ad Internet in mano nella totale solitudine per giornate intere, cosa sarà il mio primo bacio? Quanto potrà il mio piccolo partner dire che quel bacio non viene dalla virtualità? Sono davvero necessari solo due corpi affinché un bacio sia vero?

 

Io non ho davvero una risposta a tutte queste domande, come non ho davvero una soluzione a tutto ciò, e in questo posso tranquillamente riconoscere la mia notevole ambiguità nel narrarvi il mio punto di vista sull’ambiguità del virtuale. Solo, davvero non riesco a bearmi di letture ottimistiche di questo processo né d’altra parte a credere nell’oggettiva ed ineludibile necessità di esso, anche perché

 

i dominatori stessi non credono a nessuna necessità oggettiva, anche se dànno talvolta questo nome alle loro macchinazioni. Essi si presentano come ingegneri della storia universale. Solo i dominati prendono come necessaria e intoccabile l’evoluzione che, ad ogni aumento decretato del loro tenore di vita, li rende di un grado più impotenti[14].

 

GIUGNO 2014


[1] M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 2010, p. 215.

[2] Ibidem, pp. 211-212.

[3] Ibidem, pp. 206-207.

[4] Ibidem, p. 207.

[5] Ibidem, pp. 213-214.

[6] Ibidem, p. 215.

[7] T. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 1997, p. 8.

[8] T. Adorno, Minima moralia, Einaudi, Torino 2005, pp. 166-167.

[9] Ibidem, pp. 241-242.

[10] T. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 90.

[11] T. Adorno, Minima moralia, cit., p. 167.

[12] Ibidem.

[13] Ibidem.

[14] T. Adorno, M. Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 45.