Recensioni
SALVATORE PRINZI, «SUL BUON USO DELL'IMPAZIENZA»
Annelise D'Egidio
La Storia è un lungo, spesso controverso
e comunque sempre un tortuosissimo cammino. A renderla così avvincente:
l’impazienza, connotazione caratteriale – cioè difetto – divenuta oggi
vero e proprio modo d’essere. Ma perché allora ragionarvi, dedicandovi
addirittura un libro intero? Quali i benefici sperati? Quella che, di
primo acchito, appare una contraddizione logica, risulterà essere
invece, a fine lettura, un articolato tentativo di districarsi tra
«crisi, movimenti e organizzazione» – come recita il sottotitolo di
questo primo libro di Salvatore Prinzi, giovane ricercatore (manco a
dirlo) precario. Mentre Marx si prende la sua piena rivincita ed è il
convitato di pietra di ogni talk show politico che la televisione ci propina,
Sul buon uso dell’impazienza
prova ad intrecciare teoria e realtà, politica e memoria, passato e
futuro, senza smarrire la concretezza. I tre capitoli in cui si articola
hanno un filo comune, che è l’impazienza, o, per meglio dire, le sue
celebri disavventure: il fallimento inappellabile del ’68, la scarsa
incisività del successivo altermondismo, la Primavera araba e gli
strascichi della crisi finanziaria del 2008. Ma non solo: alla storia
dell’impazienza o, se si preferisce, alle storie (ordinarie) di
straordinaria impazienza, si associa, nell’ultimo capitolo, una disamina
dei suoi esiti peggiori – e qui ritorna di prepotenza l’attualità.
Dietro coloro che senza conoscerlo affatto, danno ragione a Marx, si
cela l’uso indiscriminato della sentenza, cioè la frase a effetto, la
parola che fa audience e che
dietro di sé non ha alcun ragionamento. Il marketing della politica,
dove spadroneggiano lifting, parrucchini e paillettes, è negazione
totale del senso di appartenenza ad una comunità, della sua identità,
della sua storia e della sua memoria. In definitiva, per dirla con
Gramsci, di «ogni buon senso». E quest’ultimo annega indifeso tra uno
spot pubblicitario e un altro, surclassato dai tempi tecnici di messa in
onda, che sono, in senso assoluto, l’epifania televisiva del tempo
reale, ovvero l’architrave del nostro esistere “liquido”. Sono possibili
vie d’uscita (ma si badi non cure definitivamente efficaci, piuttosto
utili accorgimenti, rimedi in forma di correttivi minimi) per
l’impazienza, la quale, è bene ricordarlo, avendo provocato la cacciata
dei progenitori dall’Eden, è la vera origine della storia umana?
Per cominciare un’annotazione
preliminare (e forse anche ovvia): se l’impazienza apprendesse la fine
arte della pazienza, se ne carpisse l’antico segreto – ossia, il metodo,
la costanza, l’organizzazione – allora potrebbe farsi strada e andare
lontano. Il che non significa però necessariamente vincere, anzi non
coincide mai con la vittoria. D’altronde, se oltre alle vittorie epiche
(Maratona, Canne, Farsalo, Filippi..), la Storia ammettesse anche le
«sentenze irrevocabili», noi non saremmo mai potuti diventare così
diversi dai nostri antenati! Ciò significa, in altri termini, che oggi
la pazienza regnerebbe sovrana, perché tutto sarebbe calmo, senza la
frenesia del traffico, lo strombazzare dei clacson, lo stress della
velocità. Chiaramente, un mondo soffocato dalla cappa delle
breaking news e distratto dal
luccichio delle vetrine, pensa per attimi, s’informa coi
flash, parla per
slogan. In perenne bilico tra collasso ed esplosione, s’inebria di
questo rischio e ne dipende come il cocainomane dalla cocaina. C’è
sballo solo se la posta in gioco cresce, dunque il divertimento coincide
col rischio e questo aumenta più il tempo è frazionato. È risaputo: il
tempo è denaro, come recita l’unico comandamento su cui si regge la più
diffusa delle religioni – il capitalismo. Ma se il tempo è scambiabile
come la più triviale delle merci, allora ecco che diventa riproducibile
ed incrementabile: ingannevole e falso; cioè
spettacolare. Nel vortice
dello spettacolo, il tempo è centrifugato fino a polverizzarsi in atomi
di «tempo reale», che di reale, peraltro, non hanno nulla, semmai sono
iper-reali. È qui, proprio qui, che entra in gioco l’impazienza
paziente, quell’instancabile tormento cui Zeus condannò Sisifo – rifare
ogni giorno, giorno dopo giorno, per tutta l’eternità, la solita,
inutile fatica. Vegliare, vigilare, sbagliando e ri-sbagliando: se è il
negativo a muovere la Storia, allora chi sbaglia, lo sconfitto, ne è
assoluto protagonista. Caccia sterile più che pesca abbondante,
quest’epopea dei Don Chisciotte del passato riporta alla mente il
supplizio del povero Tantalo. Un «quasi aver vinto» che sfuma ogni volta
a causa di un dettaglio piccolo, piccolissimo, di una variabile non
prevista o non calcolata bene, di quell’attimo non colto, di quel varco
inafferrabile, di un ostacolo che si materializza all’improvviso, di una
resistenza venuta da-non-si-sa-dove e che non si pensava potesse farsi
trovare lì. Più ci si avvicina, più la meta sfugge: è la legge –
inesorabile – che Paul Valery scopre grazie ad un fiammifero
resistente. Perdere, saper
perdere, il patire della patientia,
appunto. Ma non si rischierà piuttosto di illudersi, con magre,
magrissime consolazioni? La risposta è implicita nella storia dei
movimenti dello scorso secolo, scorrevolmente attraversati nel primo
capitolo del libro: «ceder un peu c’est capituler beaucoup», la profezia
che da Nantes ’68 in poi non ha smesso
ancora di essere vera e che
tiene, tutt’insieme, tranquilli, oppressi ed oppressori, sotto una
nuvola di odio cortese – secondo la spiazzante e quanto mai attuale
“istantanea” di Franco Fortini. Come in una guerra di trincea, lo
schieramento che mantiene la posizione e serra i ranghi certo non
arretra e non perde (uomini), eppure questa strategia non ha nulla a che
fare con la vittoria. Occorre un guizzo, una soluzione, un colpo da
maestro: basterà? Soprattutto, basterà se le forze scemano, se il nemico
è più potente che mai e nonostante gli errori commessi (come già si
chiedeva Brecht)? Azzardare risposte o, peggio, previsioni è proprio
dell’impazienza e non aiuta quando lo scontro si consuma fra le trincee.
Più che di guizzi, c’è bisogno di progetti, di idee, di rapporti, di
parole, non per forza ricercate, di mediazione, di organizzazione. C’è
bisogno di (im)pazienza! Soprattutto dinnanzi all’indolenza di chi
dovrebbe avere risposte e soluzioni che non è neppure in grado di
ipotizzare. Ecco perché Sul buon
uso dell’impazienza, più che fare il peana degli sconfitti ed il
panegirico delle utopie, pone sul tappeto questioni cruciali del nostro
tempo, della storia nostra.
Quant’altro mondo si nasconde dietro il mondo che ci si presenta? Quanto
mondo abbiamo lasciato sprofondare per pigrizia? Cosa indicano le
resistenze degli oggetti, di cosa sono il segno? Perché quella realtà
che non si piega al disegno precostituito è subito rimossa? È un caso o
piuttosto una tara? E se fosse, la rimozione stessa, pienamente
funzionale al disegno? A chi o a cosa appartiene il disegno? Chi
rappresenta? Di quali interessi è espressione? Ha senso lavorare alla
ricerca di risposte per tali domande, considerando i tempi che stiamo
vivendo? Vale la pena pazientare, «imparare alla dura scuola della
pazienza» come si esprime Bensaïd, ciò che l’impazienza sempre
dimentica: la differenza la fanno le domande e non le risposte. Anche,
soprattutto, in tempi di crisi. Perché una domanda apre, squarcia,
semina, muta gli equilibri in campo, mentre una risposta sta già lì,
preconfezionata, facile da maneggiare, pronta per l’uso. È il parere del
tecnico, dello scienziato, di chi ha un’autorità sufficientemente
riconosciuta per cimentarsi col pensiero. È la voce ammessa, il discorso
consentito e tautologico (si badi bene: consentito perché tautologico)
su cui si regge l’istantaneità fulminea della società spettacolare, un
enorme cloud che sospende
oggetti e persone, astraendoli in una dimensione surreale di attesa.
Rispetto a quest’attesa, che è già
rassegnazione, l’impazienza – il lato negativo, la parte di campo in cui
giocano gli sconfitti – ha argomenti estremamente più interessanti da
far valere. Se crisi è anche opportunità e se la storia umana non è che
un eterno arrancare, c’è una bella notizia. Non tutto è perduto, perché
c’è ancora del tempo. Chi non ci sta ha tempo per battersi, passo dopo
passo, casamatta dopo casamatta. La tattica, l’arma dei deboli secondo
il gesuita M. de Certeau, si arricchisce del coraggio dei «veri
individui del nostro tempo», «quegli eroi che nessuno ha cantato», «i
martiri anonimi» – come li definiva più di quarant’anni fa Max
Horkheimer. Il quale auspicava che di quest’epica lotta (che è alle
porte, che sta sempre per ri-cominciare), la filosofia fosse testimone,
traducendo in parole udibili quelle «voci mortali», quelle voci
sconfitte ridotte al silenzio della tirannia.
DICEMBRE 2013