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Gennaio 2014

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Recensioni

MICHEL HOUELLEBECQ, «LA POSSIBILITà DI UN'ISOLA»

Un invito alla lettura

Redazione

 

E noi, che pensiamo la felicità

 come un’ascesa,

ne avremmo l’emozione

quasi sconcertante

 di quando cosa ch’è felice, cade.

(Rainer M. Rilke, Elegie Duinesi, Decima Elegia)

 

«Chi, tra voi, merita la vita eterna?»

Suona quasi come una minaccia questa domanda con cui Michel Houellebecq apre il suo quarto romanzo, pubblicato in Francia nel 2005[1]. Sviluppando una traccia già presente ne Le particelle elementari, lo scrittore francese affronta il tema della clonazione, e ci fa intraprendere un viaggio nella vicenda esistenziale di Daniel, ambientata ai nostri giorni, e in quella di Daniel 24 e Daniel 25, suoi cloni, circa duemila anni dopo. Il romanzo si articola su una narrazione parallela in cui i neoumani Daniel 24 e 25 rileggono il racconto di vita di Daniel, loro antenato umano.

I neoumani vivono in solitudine all’interno di una zona di protezione, fisicamente separati tra loro, trascorrono il tempo scambiandosi messaggi virtuali e studiando il racconto di vita dei loro antenati. Lo spazio in cui vivono è situato in mezzo a ciò che resta del mondo “umano”: poche comunità sparpagliate di “selvaggi” (superstiti della specie umana), qualche traccia delle antiche città stravolte e quasi desertificate a causa di eventi naturali e non.

I neoumani sono i cloni di quegli umani che hanno aderito alla chiesa Elehomita, una sorta di setta New Age che riuscirà a conquistare un’umanità ormai allo stadio terminale, promettendole quello che in fondo essa chiede da sempre: l’immortalità e la felicità. Un “pacchetto-salvezza”, dunque, in cui però la clonazione dovrebbe essere una fase di passaggio ad una forma di vita nuova e non individualizzata, in cui sarà assente ogni traccia umana: i Futuri.

«Le gioie dell’essere umano ci restano insondabili; i suoi dolori, invece, non possono distruggerci; le nostre notti non vibrano più di terrore né di estasi. Però viviamo, attraversiamo la vita, senza gioia e senza mistero, il tempo ci pare breve».

Questa è, secondo Houellebecq, la felicità dei neoumani: assenza di desiderio e dolore, conseguenza di una riduzione al minimo di tutte le forze vitali, della loro stessa capacità di sentire. Dotati ancora di una forma di intelligenza senza posta in gioco e finalizzata alla “pura conoscenza”, liberi dalla procreazione, dal sesso, dall’amore e dalla morte, i neoumani attraversano l’infinita ripetizione delle loro vite, in attesa del grande sogno dei Futuri.

Non sappiamo se il progetto di edificazione dei Futuri si compirà, ma in esso c’è comunque un clamoroso fallimento. Come altri neoumani prima di lui, Daniel 25 deciderà infatti di interrompere il programma per la sua futura clonazione e di intraprendere un viaggio tra le rovine del mondo naturale ed umano. In questo viaggio, che diverrà sempre più itinerario senza meta, egli sentirà qualcosa che assomiglia all’essere felice, all’amore e alla sofferenza, non per un altro neoumano, ma per l’unico essere capace di amare, e l’unico che si possa veramente rendere felice: il suo cane Fox. Ciò non rappresenta comunque l’approdo ad una nuova speranza, bensì il progressivo crollo di un’illusione: la Salvezza non salva. Daniel 25 maturerà infatti una duplice consapevolezza: quella della crudeltà senza fine degli uomini-selvaggi, e quella dell’assurdità della condizione neo-umana. Le tracce umane in lui ancora presenti – che a tratti quasi gli fanno invidiare quello che Daniel 1, nonostante tutto, aveva conosciuto (in primis l’amore) – si intrecciano con il profondo disgusto verso la brutalità e la sofferenza degli uomini. Così, andando definitivamente verso la morte, realizzerà che l’umanità non merita la vita, finita o eterna che sia: «La felicità non è un orizzonte possibile».

Chiaramente, per Houellebecq, il non-senso della condizione neo-umana è solo un’esasperazione di quello del nostro mondo “umano”.

L’umano Daniel è un comico autore di sketch un po’ misogini, un po’ razzisti, vagamente provocatori; convinto che l’unica forma di piacere (e di felicità) per gli uomini sia il piacere sessuale e che esso sia fondamentalmente riservato ai giovani.

«È vero che la vita comincia a cinquant’anni. A parte che finisce a quaranta», questo pensa Daniel, uomo disilluso e contemporaneamente capace ancora di amare. Sposa Isabelle, caporedattrice della rivista Lolita, il cui fine è creare: «un’umanità artificiosa, frivola, che non sarà mai più toccata dalle cose serie né dall’umorismo, che vivrà fino alla morte in una ricerca sempre più disperata del fun e del sesso; una generazione di eterni kids».

La storia con Isabelle è destinata a finire e non basterà l’adozione del cane Fox a fronteggiare la fine irrimediabile dell’attrazione fisica. In seguito, Daniel incontra la giovanissima Esther, consapevole che quell’incontro da un lato restituirà la vita alla sua esistenza e dall’altro la farà naufragare definitivamente.

L’umanità de La possibilità di un’isola è dunque incamminata verso una deriva, obbediente all’imperativo del benessere (psichico e fisico, oltre che economico), completamente concentrata su di sé, sulle proprie prestazioni, tanto da essere ormai incapace di rapportarsi ad una qualche forma di alterità. La modificazione e crisi profonda della socialità umana è terreno fertile per l’elehomitismo che, inneggiando al culto della salute, del corpo e della gioventù, si integra molto bene con il modello di vita capitalista. Del resto, secondo i principi della Sorella Suprema, è solo la sofferenza e l’incompiutezza che porta l’uomo a cercare l’altro, con i Futuri la socialità dovrà essere definitivamente superata dalla “libertà dell’indifferenza”.

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Dal culto del corpo e del sesso come consumo, dalle derive salvifiche e individualiste delle soluzioni New Age, al carattere inevitabilmente schizofrenico delle relazioni sociali, Houellebecq osserva lucidamente questa umanità di “eterni Kids” che noi stessi siamo, registrando il fallimento di quasi tutte le forme di “liberazione” nate negli ultimi decenni. E al di là di qualche limite, questa storia credo metta a nudo un aspetto evidente delle nostra società, ossia la diffusa incapacità di rapportarsi a quello che nella vita è irreversibile, sia esso la persistenza di un legame, le trasformazioni del proprio corpo, la fedeltà ad una passione, la cura di un figlio, la singolarità della morte.

Proprio sul tema della morte, così scrive Houellebecq ne Le particelle elementari, parlando dei due personaggi protagonisti, Bruno e Michel:

 

avevano vent’anni e si sentivano già vecchi. Era una sensazione destinata a continuare: si sarebbero sentiti sempre più vecchi, e ne avrebbero provato vergogna. Ben presto la loro epoca sarebbe riuscita a escogitare la seguente inedita trasformazione: annegare il sentimento tragico della morte nella sensazione più generale e apatica dell’invecchiamento. Vent’anni dopo, Bruno non aveva ancora mai, di fatto, pensato alla morte; […] Fino all’ultimo istante avrebbe chiesto una piccola proroga, un piccolo supplemento di esistenza. Fino all’ultimo istante, in particolare, sarebbe andato in cerca di un ultimo momento di godimento, di una piccola chicca supplementare.

 

Il non volere e non saper morire si situa chiaramente tra i più antichi tormenti umani.

«Ma perché, evitando il destino, struggerci per il destino?» si chiedeva Rilke nella Nona Elegia, cogliendo splendidamente una delle più atroci contraddizioni dell’uomo: voler avere un’esperienza totale della vita ma evitando il destino di esseri finiti, che muoiono e si dileguano qualsiasi cosa facciano. Incapace di pensare la morte come una dimensione della vita, l’uomo vuole evitarla in qualsiasi modo si presenti, col risultato di avercela però sempre davanti, come scadenza.

La possibilità di un’isola è allora uno sguardo sulla profonda tristezza, infelicità, e disperazione di questa umanità anestetizzata, incapace di struggersi per un ‘destino’, a cui anche l’immortalità deve essere proposta tranquillamente, come recita uno slogan elehomita. Come criceti impazziti sulla ruota delle esperienze, ma fondamentalmente stanchi anche di questo, sembriamo dover provare sempre di più a noi stessi di essere vivi. Perché è questa la prova che forse cerchiamo, in fondo alla moltiplicazione dei desideri, delle esperienze o sull’altare della gioventù. Provare che si è ancora in grado di provare.

Houellebecq sembra riprendere una suggestione di Jean Baudrillard che legge – in questa volontà di scongiurare ad ogni costo la morte e la vecchiaia, nella ricerca di ogni esperienza per non perdersi in nessuna, in questo valore assoluto che attribuiamo alla vita – qualcosa che ha a che fare con un istinto di auto-distruzione. Da tempo, dice Baudrillard, si sta compiendo un’operazione chirurgica del negativo, sui nostri corpi tanto quanto sul nostro pensiero, che ci rende sempre più incapaci di far fronte alla nostra complessità. E vorremmo quindi porre fine ad ogni complessità e contraddizione, ma questo significa tagliare i ponti con l’umano, di qui il neoumano:

 

la disumanità di questa prospettiva è comprensibile a partire dall’abolizione di tutto ciò che è ‘umano, troppo umano’ in noi: i nostri desideri, i nostri fallimenti, le nostre nevrosi, i nostri sogni, i nostri handicap, i nostri virus, le nostre frenesie, il nostro inconscio, e persino la nostra sessualità. […] lo spettro che guida la manipolazione genetica è l’ideale genetico, un modello perfetto ottenuto attraverso l’eliminazione di tutti i tratti negativi[2].

 

Bisognerebbe forse guardare più a fondo in questa operazione colossale dell’Occidente, finalizzata a rimuovere le tracce dei nostri aspetti troppo umani, il negativo, il destino, la vecchiaia, la morte.

D’altronde, essere al riparo dalla morte significherà sempre essere al riparo dalla vita. E credo che Houellebecq questo riesca a descriverlo. In ogni caso, ci regala un gran bel libro.

 

DICEMBRE 2013

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[1] M. Houellebecq, La possibilitè d’une île, Fayard, Paris 2005. Prima ed. italiana per RCS Libri, Milano 2005.

[2] J. Baudrillard, L’illusione dell’immortalità, Armando, Roma 2007, pp. 33-34.