Recensioni
MICHEL HOUELLEBECQ, «LA POSSIBILITà DI UN'ISOLA»
Un invito alla lettura
Redazione
E noi, che pensiamo la
felicità
come
un’ascesa,
ne avremmo l’emozione
quasi sconcertante
di quando cosa ch’è felice,
cade.
(Rainer M. Rilke,
Elegie Duinesi, Decima Elegia)
«Chi, tra voi, merita la vita eterna?»
Suona quasi come una minaccia questa
domanda con cui Michel Houellebecq apre il suo quarto romanzo,
pubblicato in Francia nel 2005[1]. Sviluppando
una traccia già presente ne Le
particelle elementari, lo scrittore francese affronta il tema della
clonazione, e ci fa intraprendere un viaggio nella vicenda esistenziale
di Daniel, ambientata ai nostri giorni, e in quella di Daniel 24 e
Daniel 25, suoi cloni, circa duemila anni dopo. Il romanzo si articola
su una narrazione parallela in cui i
neoumani Daniel 24 e 25
rileggono il racconto di vita di Daniel, loro antenato umano.
I neoumani vivono in solitudine
all’interno di una zona di protezione, fisicamente separati tra loro,
trascorrono il tempo scambiandosi messaggi virtuali e studiando il
racconto di vita dei loro antenati. Lo spazio in cui vivono è situato in
mezzo a ciò che resta del mondo “umano”: poche comunità sparpagliate di
“selvaggi” (superstiti della specie umana), qualche traccia delle
antiche città stravolte e quasi desertificate a causa di eventi naturali
e non.
I neoumani sono i cloni di quegli umani
che hanno aderito alla chiesa Elehomita, una sorta di setta New Age che
riuscirà a conquistare un’umanità ormai allo stadio terminale,
promettendole quello che in fondo essa chiede da sempre: l’immortalità e
la felicità. Un “pacchetto-salvezza”, dunque, in cui però la clonazione
dovrebbe essere una fase di passaggio ad una forma di vita nuova e non
individualizzata, in cui sarà assente ogni traccia umana: i Futuri.
«Le gioie dell’essere umano ci restano
insondabili; i suoi dolori, invece, non possono distruggerci; le nostre
notti non vibrano più di terrore né di estasi. Però viviamo,
attraversiamo la vita, senza gioia e senza mistero, il tempo ci pare
breve».
Questa è, secondo Houellebecq, la
felicità dei neoumani: assenza di desiderio e dolore, conseguenza di una
riduzione al minimo di tutte le forze vitali, della loro stessa capacità
di sentire. Dotati ancora di una forma di intelligenza
senza posta in gioco e
finalizzata alla “pura conoscenza”, liberi dalla procreazione, dal
sesso, dall’amore e dalla morte, i neoumani attraversano l’infinita
ripetizione delle loro vite, in attesa del grande sogno dei Futuri.
Non sappiamo se il progetto di
edificazione dei Futuri si compirà, ma in esso c’è comunque un clamoroso
fallimento. Come altri neoumani prima di lui, Daniel 25 deciderà infatti
di interrompere il programma per la sua futura clonazione e di
intraprendere un viaggio tra le rovine del mondo naturale ed umano. In
questo viaggio, che diverrà sempre più itinerario senza meta, egli
sentirà qualcosa che assomiglia all’essere felice, all’amore e alla
sofferenza, non per un altro neoumano, ma per l’unico essere capace di
amare, e l’unico che si possa veramente rendere felice: il suo cane Fox.
Ciò non rappresenta comunque l’approdo ad una nuova speranza, bensì il
progressivo crollo di un’illusione: la Salvezza non salva. Daniel 25
maturerà infatti una duplice consapevolezza: quella della crudeltà senza
fine degli uomini-selvaggi, e quella dell’assurdità della condizione
neo-umana. Le tracce umane in lui ancora presenti – che a tratti quasi
gli fanno invidiare quello che Daniel 1, nonostante tutto, aveva
conosciuto (in primis l’amore) – si intrecciano con il profondo disgusto
verso la brutalità e la sofferenza degli uomini. Così, andando
definitivamente verso la morte, realizzerà che l’umanità non merita la
vita, finita o eterna che sia: «La felicità non è un orizzonte
possibile».
Chiaramente, per Houellebecq, il
non-senso della condizione neo-umana è solo un’esasperazione di quello
del nostro mondo “umano”.
L’umano Daniel è un comico autore di
sketch un po’ misogini, un po’ razzisti, vagamente provocatori;
convinto che l’unica forma di piacere (e di felicità) per gli uomini sia
il piacere sessuale e che esso sia fondamentalmente riservato ai
giovani.
«È
vero che la vita comincia a cinquant’anni. A parte che finisce a
quaranta», questo pensa Daniel, uomo disilluso e contemporaneamente capace
ancora di amare. Sposa Isabelle, caporedattrice della rivista Lolita, il
cui fine è creare: «un’umanità artificiosa, frivola, che non sarà mai
più toccata dalle cose serie né dall’umorismo, che vivrà fino alla morte
in una ricerca sempre più disperata del
fun e del sesso; una
generazione di eterni kids».
La storia con Isabelle è destinata a
finire e non basterà l’adozione del cane Fox a fronteggiare la fine
irrimediabile dell’attrazione fisica. In seguito, Daniel incontra la
giovanissima Esther, consapevole che quell’incontro da un lato
restituirà la vita alla sua esistenza e dall’altro la farà naufragare
definitivamente.
L’umanità de
La possibilità di un’isola è
dunque incamminata verso una deriva, obbediente all’imperativo del
benessere (psichico e fisico, oltre che economico), completamente
concentrata su di sé, sulle proprie prestazioni, tanto da essere ormai
incapace di rapportarsi ad una qualche forma di alterità. La
modificazione e crisi profonda della socialità umana è terreno fertile
per l’elehomitismo che, inneggiando al culto della salute, del corpo e
della gioventù, si integra molto bene con il modello di vita
capitalista. Del resto, secondo i principi della Sorella Suprema, è solo
la sofferenza e l’incompiutezza che porta l’uomo a cercare l’altro, con
i Futuri la socialità dovrà essere definitivamente superata dalla
“libertà dell’indifferenza”.
Dal culto del corpo e del sesso come
consumo, dalle derive salvifiche e individualiste delle soluzioni New
Age, al carattere inevitabilmente schizofrenico delle relazioni sociali,
Houellebecq osserva lucidamente questa umanità di “eterni Kids”
che noi stessi siamo, registrando il fallimento di quasi tutte le forme
di “liberazione” nate negli ultimi decenni. E al di là di qualche
limite, questa storia credo metta a nudo un aspetto evidente delle
nostra società, ossia la diffusa incapacità di rapportarsi a quello che
nella vita è irreversibile, sia esso la persistenza di un legame, le
trasformazioni del proprio corpo, la fedeltà ad una passione, la cura di
un figlio, la singolarità della morte.
Proprio sul tema della morte, così
scrive Houellebecq ne Le particelle elementari, parlando dei due personaggi protagonisti,
Bruno e Michel:
avevano vent’anni e si
sentivano già vecchi. Era una sensazione destinata a continuare: si
sarebbero sentiti sempre più vecchi, e ne avrebbero provato vergogna.
Ben presto la loro epoca sarebbe riuscita a escogitare la seguente
inedita trasformazione: annegare il sentimento tragico della morte nella
sensazione più generale e apatica dell’invecchiamento. Vent’anni dopo,
Bruno non aveva ancora mai, di fatto, pensato alla morte; […] Fino
all’ultimo istante avrebbe chiesto una piccola proroga, un piccolo
supplemento di esistenza. Fino all’ultimo istante, in particolare,
sarebbe andato in cerca di un ultimo momento di godimento, di una
piccola chicca supplementare.
Il non volere e non saper morire si
situa chiaramente tra i più antichi tormenti umani.
«Ma perché, evitando il destino,
struggerci per il destino?» si chiedeva Rilke nella Nona
Elegia, cogliendo splendidamente una delle più atroci contraddizioni
dell’uomo: voler avere un’esperienza totale della vita ma evitando il
destino di esseri finiti, che muoiono e si dileguano qualsiasi cosa
facciano. Incapace di pensare la morte come una dimensione della vita,
l’uomo vuole evitarla in qualsiasi modo si presenti, col risultato di
avercela però sempre davanti, come scadenza.
La possibilità di un’isola
è allora uno sguardo sulla profonda tristezza, infelicità, e
disperazione di questa umanità anestetizzata, incapace di struggersi per
un ‘destino’, a cui anche l’immortalità deve essere proposta
tranquillamente, come recita
uno slogan elehomita. Come criceti impazziti sulla ruota delle
esperienze, ma fondamentalmente stanchi anche di questo, sembriamo dover
provare sempre di più a noi stessi di essere vivi. Perché è questa la
prova che forse cerchiamo, in fondo alla moltiplicazione dei desideri,
delle esperienze o sull’altare della gioventù. Provare che si è ancora
in grado di provare.
Houellebecq sembra riprendere una
suggestione di Jean Baudrillard che legge – in questa volontà di
scongiurare ad ogni costo la morte e la vecchiaia, nella ricerca di ogni
esperienza per non perdersi in nessuna, in questo valore assoluto che
attribuiamo alla vita – qualcosa che ha a che fare con un istinto di
auto-distruzione. Da tempo, dice Baudrillard, si sta compiendo un’operazione
chirurgica del negativo, sui nostri corpi tanto quanto sul nostro
pensiero, che ci rende sempre più incapaci di far fronte alla nostra
complessità. E vorremmo quindi porre fine ad ogni complessità e
contraddizione, ma questo significa tagliare i ponti con l’umano, di qui
il neoumano:
la disumanità di questa
prospettiva è comprensibile a partire dall’abolizione di tutto ciò che è
‘umano, troppo umano’ in noi: i nostri desideri, i nostri fallimenti, le
nostre nevrosi, i nostri sogni, i nostri handicap, i nostri virus, le
nostre frenesie, il nostro inconscio, e persino la nostra sessualità.
[…] lo spettro che guida la manipolazione genetica è l’ideale genetico,
un modello perfetto ottenuto attraverso l’eliminazione di tutti i tratti
negativi[2].
Bisognerebbe forse guardare più a fondo
in questa operazione colossale dell’Occidente, finalizzata a rimuovere
le tracce dei nostri aspetti troppo umani, il negativo, il destino, la
vecchiaia, la morte.
D’altronde, essere al riparo dalla morte
significherà sempre essere al riparo dalla vita. E credo che Houellebecq
questo riesca a descriverlo. In ogni caso, ci regala un gran bel libro.
DICEMBRE 2013