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Gennaio 2014

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Inchieste

BONIFICHE ECO-COMPATIBILI A COSTI ACCESSIBILI: MISSION POSSIBLE

Il progetto "LIFE Ecoremed"

Ornella Esposito

 

Territori inquinati e bonifiche, questi i tarli dei cittadini campani e non solo. Al bar, al supermercato, in palestra, in autobus, tutti si pongono le stesse domande: cosa mangiamo? Cosa beviamo? Soprattutto, come si farà a risanare i terreni agricoli inquinati dai composti organici? Quanto costerà?

Nella nostra Regione sono stati identificati dal Ministero dell’Ambiente, a partire dal ’98, sei siti di interesse prioritario nazionale (sin), per una superficie totale di circa 200.000 ettari, con diverse fonti e livelli di inquinamento (Napoli Orientale, Litorale Domizio-Agro Aversano, Napoli-Bagnoli-Coroglio, Litorale Vesuviano, Bacino idrografico del Sarno, Aree di Pianura).

L’Università di Napoli Federico II, in partenariato con la Regione Campania, il Centro interdipartimentale di Ricerca Ambientale, l’Arpac e Risorsa s.r.l., ha deciso di studiare e trovare soluzioni, rispettose dell’ambiente, per il sin del Litorale Domizio-Agro-Aversano, patria della «mozzarella di bufala Campania» e, attraverso un finanziamento europeo, ha dato vita lo scorso anno al progetto “LIFE-Ecoremed”.

Ben sei Facoltà (Agraria, Ingegneria, Scienze, Medicina, Architettura, Biotecnologia) per un totale di 65 ricercatori, tra cui molti giovani, coordinati dal professor associato di Agraria presso l’Università Federico II, Massimo Fagnano, stanno mettendo a punto modalità alternative alla bonifica chimico-fisica, nociva per il paesaggio e la fertilità della terra.

Non solo, hanno ultimato (nella metà del mese di dicembre 2013), con 6 mesi di anticipo sulla tabella di marcia, una mappatura del territorio, con duemila punti di prelievo (non esiste mappatura così dettagliata in Italia ed in Europa), dalla quale è emerso che: «L’inquinamento dell’intero agro aversano-litorale domizio è da considerarsi perfettamente all’interno dei livelli di inquinamento, purtroppo, tipici delle pianure urbanizzate».

Lo studio ha messo in evidenza, inoltre, che «la presenza di alcuni metalli deriva sicuramente anche dalla matrice geologica dei nostri suoli e quindi per valutarne con precisione i pericoli per l’ambiente e per la salute, risulta necessario verificarne la biodisponibilità, e quindi il rischio di dilavamento nelle acque di falda o di assorbimento da parte delle radici e di accumulo nei prodotti ortofrutticoli»[1].

Conclusa interamente la prima fase, quella che ha studiato quali e quante sostanze inquinanti sono distribuite sui terreni agricoli, l’imponente esercito dei ricercatori passerà alla seconda, quella cioè relativa alla bonifica dei suoli agricoli interessati dall’inquinamento. Cosa faranno i ricercatori? E come lo faranno?

«In laboratorio – spiega il docente – abbiamo già selezionato i batteri più potenti nella biodegradazione. L’idea è quella di allevarli in fermentatori ossia moltiplicarli, e poi reinocularli nel terreno in gran quantità, così da velocizzare la loro attività di biodegradazione del composti organici[2].

Dopo aver biodegradato – continua Fagnano – si metteranno sul suolo delle piante perenni, prevalentemente pioppi ed eucalipti, che rendono impossibile la coltivazione di verdure e frutta.

Le piante svolgono due importanti funzioni, la prima è quella di aiutare i batteri a crescere meglio, la seconda è di assorbire i metalli pesanti.

Trascorso un congruo periodo di tempo (circa 5 anni), queste piante verranno rimosse, e il terreno restituito al contadino per essere nuovamente coltivato».

Non ci vuole una particolare competenza scientifica per comprendere che questo metodo consente di risanare il terreno in un tempo breve, e con costi molto abbordabili rispetto a quelli delle bonifiche chimiche.

Giusto per fare un esempio, bonificare il suolo dove insistono le raffinerie della Q8 nel quartiere di S. Giovanni a Teduccio a Napoli costerebbe all’incirca 2 milioni di euro ad ettaro. Con le bonifiche chimiche circa 50 milioni.

«Naturalmente si sta parlando – tiene a precisare il professore – di bonifica per i terreni agricoli inquinati da agenti organici, non da rifiuti tossici interrati. In questo caso il problema è come impedire che i materiali inquinanti si disperdano nell’ambiente cioè ridurne la pericolosità ambientale».

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Il progetto “ECO-Remed” presenta però alcuni punti deboli che il suo coordinatore mi spiega.

«Anzitutto noi lavoriamo sul profilo esplorato dalle radici, cioè due o tre metri, pertanto, non si interviene oltre quella profondità.

Altro limite – prosegue – è che si raccoglieranno delle biomasse (legno del pioppo) inquinate, per esempio dal piombo. Cosa farne? Come ridurne la pericolosità? Stiamo valutando alcune ipotesi su cosa farne. La prima è la pirolisi cioè produrre carbone, anche carbone attivo, utilizzabile per filtrare le acque di pozza inquinate; la seconda è la gassificazione che consiste nel trasformare le biomasse, attraverso un processo termochimico, in idrogeno utilizzabile per produrre energia; terza ipotesi è la produzione di plastiche biodegradabili. In poche parole, utilizzare il legno di pioppo per produrre plastiche eco compatibili».

Ciò che i ricercatori stanno ancora studiando di queste tre tecnologie è dove “conservare” il piombo, come portarlo in discarica («insieme alle batterie de nostri telefonini» – aggiunge il ricercatore), e renderlo inoffensivo.

Ma, prima di lasciarci, il professor Fagnano, mi spiega un’altra fondamentale iniziativa dell’Università, nata di recente, sulla scorta del dramma della terra dei fuochi. Grazie ad un protocollo di intesa con i produttori agricoli, i ricercatori campioneranno tutti i prodotti vegetali provenienti dalle aziende agricole (certificate) della Campania.

I prodotti verranno passati al setaccio, non solo per riscontrare l’eventuale presenza oltre soglia di elementi stabiliti pericolosi dalla normativa (piombo e cadmio), ma anche per individuare l’eventuale presenza di altri elementi (esempio l’arsenico, cobalto, mercurio, etc) i cui valori soglia non sono fissati dalla legge.

La campionatura è iniziata nel dicembre scorso, e già sono disponibili i primi risultati.

«Finora sono state interessate 100 aziende e – afferma il professore associato – tutti i prodotti sono a norma, così come confermano tutti i nostri acquirenti stranieri».

«Si tenga presente – continua – che se solo una delle partite di ortofrutta esportata dalla Campania fosse risultata contaminata, sarebbe automaticamente scattato l’allarme sanitario europeo con la diretta conseguenza del blocco delle esportazioni. Ciò non è avvenuto».

I risultati delle campionature saranno resi disponibili su di un sito dedicato, gratuito ed accessibile a tutti[3].

In questo modo ogni cittadino campano potrà sapere dove acquistare in maniera sicura gli squisiti prodotti delle nostre terra, e poterli così gustare in assoluta serenità.

«Questa mappatura – conclude Massimo Fagnano con orgoglio – sarebbe la prima al mondo».

 

GENNAIO 2014

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[1] I dati sono disponibili sul sito: www.ecoremed.it.

[2] Quali per esempio idrocarburi, diossina, pcb, cioè gli scarti industriali [n.d.c.].

[3] Vedi nota 1.