Inchieste
BONIFICHE ECO-COMPATIBILI A COSTI ACCESSIBILI: MISSION POSSIBLE
Il progetto "LIFE Ecoremed"
Ornella Esposito
Territori inquinati e bonifiche, questi i tarli dei cittadini
campani e non solo. Al bar, al supermercato, in palestra, in autobus,
tutti si pongono le stesse domande: cosa mangiamo? Cosa beviamo?
Soprattutto, come si farà a risanare i terreni agricoli inquinati dai
composti organici? Quanto costerà?
Nella nostra Regione sono stati identificati dal Ministero
dell’Ambiente, a partire dal ’98,
sei
siti di interesse prioritario nazionale (sin),
per una superficie totale di circa 200.000 ettari, con diverse fonti e
livelli di inquinamento (Napoli Orientale, Litorale Domizio-Agro
Aversano, Napoli-Bagnoli-Coroglio, Litorale Vesuviano, Bacino
idrografico del Sarno, Aree di Pianura).
L’Università di Napoli Federico II, in partenariato con la
Regione Campania, il Centro interdipartimentale di Ricerca Ambientale,
l’Arpac e Risorsa s.r.l., ha deciso di studiare e trovare soluzioni,
rispettose dell’ambiente, per il
sin del Litorale Domizio-Agro-Aversano, patria della «mozzarella
di bufala Campania» e, attraverso un finanziamento europeo, ha dato vita
lo scorso anno al progetto “LIFE-Ecoremed”.
Ben
sei
Facoltà
(Agraria,
Ingegneria, Scienze, Medicina, Architettura, Biotecnologia) per un
totale di
65 ricercatori,
tra cui molti giovani, coordinati dal professor associato di Agraria
presso l’Università Federico II, Massimo Fagnano, stanno mettendo a
punto modalità alternative alla bonifica chimico-fisica, nociva per il
paesaggio e la fertilità della terra.
Non solo, hanno ultimato (nella metà del mese di dicembre
2013), con 6 mesi di anticipo sulla tabella di marcia, una mappatura del
territorio, con duemila punti di prelievo (non esiste mappatura così
dettagliata in Italia ed in Europa), dalla quale è emerso che:
«L’inquinamento dell’intero agro aversano-litorale domizio è da
considerarsi perfettamente all’interno dei livelli di inquinamento,
purtroppo, tipici delle pianure urbanizzate».
Lo studio ha messo in evidenza, inoltre, che «la presenza di
alcuni metalli deriva sicuramente anche dalla matrice geologica dei
nostri suoli e quindi per valutarne con precisione i pericoli per
l’ambiente e per la salute, risulta necessario verificarne la
biodisponibilità, e quindi il rischio di dilavamento nelle acque di
falda o di assorbimento da parte delle radici e di accumulo nei prodotti
ortofrutticoli»[1].
Conclusa interamente la prima fase, quella che ha studiato
quali e quante sostanze inquinanti sono distribuite sui terreni
agricoli,
l’imponente esercito dei ricercatori passerà alla seconda, quella cioè
relativa alla bonifica dei suoli agricoli interessati dall’inquinamento.
Cosa faranno i ricercatori? E come lo faranno?
«In laboratorio – spiega il docente – abbiamo già selezionato
i batteri più potenti nella biodegradazione. L’idea è quella di
allevarli in fermentatori ossia moltiplicarli, e poi reinocularli nel
terreno in gran quantità, così da velocizzare la loro attività di
biodegradazione del composti organici[2].
Dopo aver biodegradato – continua Fagnano – si metteranno sul
suolo delle piante perenni, prevalentemente pioppi ed eucalipti, che
rendono impossibile la coltivazione di verdure e frutta.
Le piante svolgono due importanti funzioni, la prima è quella
di aiutare i batteri a crescere meglio, la seconda è di assorbire i
metalli pesanti.
Trascorso un congruo periodo di tempo (circa 5 anni), queste
piante verranno rimosse, e il terreno restituito al contadino per essere
nuovamente coltivato».
Non ci vuole una particolare competenza scientifica per
comprendere che questo metodo consente di risanare il terreno in un
tempo breve, e con costi molto abbordabili rispetto a quelli delle
bonifiche chimiche.
Giusto per fare un esempio, bonificare il suolo dove
insistono le raffinerie della Q8 nel quartiere di S. Giovanni a Teduccio
a Napoli costerebbe all’incirca 2 milioni di euro ad ettaro. Con le
bonifiche chimiche circa 50 milioni.
«Naturalmente si sta parlando – tiene a precisare il
professore – di bonifica per i terreni agricoli inquinati da agenti
organici, non da rifiuti tossici interrati. In questo caso il problema è
come impedire che i materiali inquinanti si disperdano nell’ambiente
cioè ridurne la pericolosità ambientale».
Il progetto “ECO-Remed” presenta però alcuni punti deboli che
il suo coordinatore mi spiega.
«Anzitutto noi lavoriamo sul profilo esplorato dalle radici,
cioè due o tre metri, pertanto, non si interviene oltre quella
profondità.
Altro limite – prosegue – è che si raccoglieranno delle
biomasse (legno del pioppo) inquinate, per esempio dal piombo. Cosa
farne? Come ridurne la pericolosità? Stiamo valutando alcune ipotesi su
cosa farne. La prima è la pirolisi cioè produrre carbone, anche carbone
attivo, utilizzabile per filtrare le acque di pozza inquinate; la
seconda è la gassificazione che consiste nel trasformare le biomasse,
attraverso un processo termochimico, in idrogeno utilizzabile per
produrre energia; terza ipotesi è la produzione di plastiche
biodegradabili. In poche parole, utilizzare il legno di pioppo per
produrre plastiche eco compatibili».
Ciò che i ricercatori stanno ancora studiando di queste tre
tecnologie è dove “conservare” il piombo, come portarlo in discarica
(«insieme alle batterie de nostri telefonini» – aggiunge il
ricercatore), e renderlo inoffensivo.
Ma, prima di lasciarci, il professor Fagnano, mi spiega
un’altra fondamentale iniziativa dell’Università, nata di recente, sulla
scorta del dramma della terra dei fuochi.
Grazie ad un protocollo di intesa con i produttori agricoli, i
ricercatori campioneranno tutti i prodotti vegetali provenienti dalle
aziende agricole (certificate) della Campania.
I prodotti verranno passati al setaccio, non solo per
riscontrare l’eventuale presenza oltre soglia di elementi stabiliti
pericolosi dalla normativa (piombo e cadmio), ma anche per individuare
l’eventuale presenza di altri elementi (esempio l’arsenico, cobalto,
mercurio, etc) i cui valori soglia non sono fissati dalla legge.
La campionatura è iniziata nel dicembre scorso, e già sono
disponibili i primi risultati.
«Finora sono state interessate 100 aziende e – afferma il
professore associato –
tutti i prodotti sono a norma, così come confermano tutti i nostri
acquirenti stranieri».
«Si tenga presente –
continua – che se solo una delle partite di ortofrutta esportata dalla
Campania fosse risultata contaminata, sarebbe automaticamente scattato
l’allarme sanitario europeo con la diretta conseguenza del blocco delle
esportazioni. Ciò non è avvenuto».
I risultati delle campionature saranno resi disponibili su di
un sito dedicato, gratuito ed accessibile a tutti[3].
In questo modo ogni cittadino campano potrà sapere dove
acquistare in maniera sicura gli squisiti prodotti delle nostre terra, e
poterli così gustare in assoluta serenità.
«Questa mappatura – conclude Massimo Fagnano con orgoglio –
sarebbe la prima al mondo».
GENNAIO 2014
[1]
I dati
sono disponibili sul sito:
www.ecoremed.it.
[2]
Quali
per esempio idrocarburi, diossina,
pcb, cioè gli
scarti industriali [n.d.c.].
[3] Vedi nota 1.