Esperienza e rappresentazione
MATERIA E PROPRIETà NELLA SOCIETà INFORMATIZZATA
Mariano Mazzullo
1. Il materialismo dell’astrazione informatica
La società della
localizzazione satellitare – del wi-fi cui è impossibile
sfuggire, di tutte le app e devices che fanno impazzire
grandi e piccoli – appare così compiuta e radicata che sembra provenire
da un lontano passato. Eppure questa società, a dispetto della riuscita
integrazione con il “quotidiano”, non è più vecchia di un ventennio,
segnando un record assoluto nella rapidità del cambiamento storico
introdotto. In crescente escalation, mentre l’ultimo scorcio del
Novecento familiarizzava appena con una timida virtualità, fatta di
monitor monocolore verde acqua, telefonini giganteschi e qualche
migliaio di pixel in meno, gli anni duemila hanno siglato la
fatale trasformazione che lega l’uomo alla macchina. Non una macchina
industriale confinata in un ufficio, una fabbrica o un reparto di
ospedale, ma un insieme di mediazioni costanti a cui ogni evento è
inevitabilmente subordinato. Non si può non riconoscerlo. Questa svolta
ha plasmato le abitudini, i gusti, i desideri dell’uomo e le sue
relazioni, traghettandoci in una nuova fase dell’umanità.
Sostenere stizziti
l’argomento per cui, in fondo al cuore, l’uomo custodisce un’immutabile
natura di istinti e bisogni, un tabernacolo genetico che la tecnologia,
come fattore esterno, si limita poi a porre in luce ed ombra, mi pare
per lo meno irrealistico e antistorico. Forse ci può consolare l’idea di
essere sempre e comunque gli stessi animali razionali che costruirono il
Colosseo, combatterono le Crociate e scrissero l’Encyclopédie con
penna e calamaio, visto che oggi interagiamo più coi dispositivi che con
le cose. Ad ogni modo, che ci piaccia o no, pessimisti o
ottimisti per le sorti dell’umanità, la tecnologia ci ha cambiati,
almeno in certi aspetti essenziali dell’esistenza.
È possibile rinunciare ad un gadget, ad un optional,
a un di più che non ci cambia la vita, qualcosa che resta esterno a noi
e del tutto subordinato ad una scelta, una preferenza, uno stato
d’animo. Il necessario, invece, è irrinunciabile. Il punto è proprio che
la tecnologia non è più qualcosa di esterno, un oggetto da scegliere o
snobbare, un mezzo da utilizzare “per accrescere i profitti” o fare un
giro su Internet. Si tratta ormai di un Logos auto-sussistente,
una struttura vivente, un fondamento necessario, qualcosa senza
la quale affrontare un nuovo giorno sarebbe improponibile alla maggior
parte dell’umanità. Leviatano moderno, ciascuno appartiene
all’informatica, d’autorità o per contratto. Perciò, dandy dei
nostri tempi che sdegnano l’integrazione, tipi vintage e “gente
d’altri tempi” possono certo rifiutarsi di farne uso, pas mal, la
tecnologia farà tranquillamente uso di loro.
È comprensibile che alcuni di noi, svezzati dal vecchio secolo,
storcano un poco il naso a distinguere l’homo novus di questa
società, convinti si tratti di un atteggiamento alla moda, relativo e
passeggero. Ma mentre un po’ di scetticismo “fin de siécle” mette
forse in guardia da toni nostalgici, le nuove generazioni, nate e
cresciute dentro questa realtà, da sempre a contatto con social
network e touch screen, sono già lontane miglia dal vecchio
mondo. Quel mondo dove non si era ipnotizzati da monitor e telefonini
onnipotenti, dove si giocava in strada col pallone o a nascondino,
sbucciandosi gomiti e ginocchia.
Certo l’homo
tecnologicus non è una specie a sé né una patologia, la società
robotizzata di Asimov continua a restare fantascienza, e per fortuna.
Passioni, sentimenti ed emozioni, oltretutto, sorgono sì in contesti
inediti, ma tradiscono pur sempre un antico volto umano. Eppure ci sono
cose irrimediabilmente lasciate indietro, perdute o barattate con il
progresso; le cose cambiano, valori e bisogni si modificano, si superano
o regrediscono. Il canone di bellezza di un greco antico non è quello
inseguito dall’uomo moderno, ancor meno i nevrotici della Vienna
freudiana ricorrevano alla psicanalisi come i personaggi di Woody Allen
corrono dietro agli strizzacervelli. Un certo fissismo ottimista si
rifiuta tuttavia di riconoscere la trasformazione avvenuta, e così le
questioni che la tecnologia porta ogni giorno sui giornali vengono
deferite alla famiglia, ai valori, all’esperienza, insomma ad un uso
improprio dei “mezzi”. Dopo le cronache di baby prostitute,
sexting, suicidi e false identità, giusto per fare qualche esempio,
con grande aplomb tutti propinano vademecum sul buon uso
di smartphone e tablet. Ma come? Gran parte dell’opinione
pubblica crede dunque che l’uomo sia ancora quello di una volta, libero
e indipendente dal legame con l’informatica, capace di imporre buon
educazione e schemi di comportamento al mondo della rete o dei social
network? Consolante visione astorica, certamente, quanto più
distante dalla realtà. Ma prendiamo atto del cambiamento, non indugiamo
oltre in moralismi da talk show e torniamo piuttosto al senso
storico.
Se guardiamo al
passato, neppure tanto lontano, l’informatica si pone all’apice di
quello sforzo contro i limiti della natura e della materia con cui
l’uomo è impegnato. Dalla notte dei tempi l’esistenza si lega
strettamente all’emancipazione dalla materialità, dalla finitezza e
corruttibilità della sua condizione. Come un fiero avversario, la
materia pone sempre nuove barriere al desiderio, ai bisogni e alla
libertà dell’uomo, colonne d’Ercole con cui la civilizzazione è in
eterno conflitto. Elisir di lunga vita, macchine del tempo,
tele-trasporti e smaterializzatori vari, rappresentano in realtà miti e
desideri di tutti i tempi, non solo cult fantascientifici della
modernità. Sin dal “primo giorno”, per così dire, l’uomo non si
accontenta del proprio giardino fiorito, desiderando di superare il
benessere materiale in cui Dio lo aveva posto. Lo stesso anelito
adamitico si legge nella storia, dalle piramidi faraoniche, con la loro
maestosa glorificazione dell’eternità, fino alla nostra moderna scienza
baconiana, ispirata all’ideale di “trasformare e dominare la materia”.
Ebbene, se la civiltà dipende dal superamento di limiti materiali, in
questa lotta storica, per dirla con Freud, grazie alla tecnologia l’uomo
è divenuto “quasi un Dio”, sebbene «nella sua somiglianza a Dio
–
aggiunge lo psicologo austriaco – egli non si senta felice»[1].
Questa disuguaglianza tra benessere materiale e felicità, dilemma antico
e moderno, giunge fino ai nostri tempi, dilatata da una società che può
tutto con un touch, mentre abbonda in ansiolitici e
antidepressivi.
Conseguenza del
progresso o debolezza strutturale dell’uomo? – Farne una colpa agli
innocenti tablet e pc sarebbe ingenuo? –
È presto per scrivere
una considerazione sull’utilità e il danno dell’informatica per la
vita?
Constatiamo solo che,
ci renda più o meno entusiasti, nella “divinizzazione” tecnologica di
cui parlava Freud, l’informatica ha certamente consegnato all’uomo lo
scettro dell’Olimpo. È
cioè un successo storico assoluto che la nuova tecnologia del silicio
permetta di archiviare antichi e oppressivi condizionamenti fisici,
conferendo all’uomo, ancor più del telefono, della ferrovia e
dell’elettricità messe insieme, una capacità di controllo e gestione
della propria vita inimmaginabile solo venti o trent'anni fa. La
trasformazione è stata così radicale da far si che ogni tipo di qualità
concreta, per aver accesso alla società dei nostri tempi, deve oggi
necessariamente tradursi in contenuto informatico. Il reale deve
convertirsi in virtuale, l’immediato in mediato, l’espressione in
rappresentazione, secondo una logica di ostensione, abbreviazione e
funzionalizzazione del messaggio. L’in-formatica, insomma, è un
pedaggio caro da pagare per il regno delle cose, dove la forma
dell’esistenza, prima ancora o addirittura senza mai essere materia, è
innanzitutto quella della forma e rappresentazione.
Società informatizzata
vuol dire dunque crescente formalizzazione delle cose: processi
economici, affetti, gusti personali e collettivi. Tutto va incontro a un
percorso di astrazione e inversione rispetto alla materia, i concetti di
identità e collettività, di cultura, sapere, scienza e via dicendo.
Acquisita cittadinanza informatica, il contenuto viene destinato ad una
forma, spesso e volentieri iconografica, figurando nel modo più
auto-evidente ed immediato possibile. Al bruto mondo della materia,
spodestato del suo prius temporale sul vissuto concreto, non
resta che riflettere a posteriori gli schemi della tecnologia,
giocando da mera riproduzione. Quest’improbabile adaequatio ad
informatica, in sostanza, colloca il mondo della materia in
posizione di ricevente, non solo sottraendogli l’antica priorità
sull’astrazione, ma privandolo della sua stessa indipendenza. Vuol dire
forse che la pietra non è più la stessa? Certo che no, la cosa è sempre
cosa, specie se è un realismo ingenuo a definirla. Ma il modo di
descriverla, di utilizzarla, di concepirla e rappresentarla non è solo
diverso, si tratta di un modo completamente e radicalmente diverso. Per
chiarirci: chiunque e dovunque, scampagnata fuori porta o lavoro
d’ufficio, per quanto amante della natura-materia, attaccato agli
oggetti antichi o patito della tecnologia, è ormai filtrato nel suo modo
di essere e pensare da categorie totalmente acquisite dalle applicazioni
informatiche. All’interno dello stesso movimento di formalizzazione,
perciò, è la mente stessa dell’uomo ad informatizzarsi, mentre il mondo
delle cose si smaterializza. Pensiamo a un concetto cruciale come la
memoria, dimensione che notoriamente scindiamo con difficoltà da cose e
circostanze determinate. Ebbene, grazie ai processi di memorizzazione
informatica, non solo immagini, testi, musica, video e quant’altro
vengono già da tempo digitalizzati e resi indipendenti da un supporto
materiale ma, grazie allo spazio on-line, interi archivi, per
milioni e milioni di volumi, fascicoli e video, possono venire
trasferiti in rete, privi di qualsiasi supporto fisico, impressi in
uno “spazio” che non c’è. Per ascoltare un disco dei
Beatles già da
tempo non c’era più bisogno di un cd, oggi non c’è neppure più
bisogno di un hard disk. Trattati scientifici, documenti,
fotografie personali, sinfonie d’orchestra, compressi e salvati in pochi
bit, sopravvivranno alla corruzione della materia, senza che una
copertina in pelle, un album patinato o un disco rigido li racchiuda.
Forse, come nel grande
romanzo di Bradbury, rimarranno soltanto onnipresenti monitor ed
immagini a circondarci? – Magari rimarrà qualche perfetto ologramma a
ricordarci com’era il mondo della materia, mentre il regno delle cose si
“smaterializzerà” sempre di più in un Fahrenheit gigantesco?
Niente paura, è
un’utopia lontana, ma è ancor prima la stessa cultura dell’informatica a
scongiurarla. Vediamo perché.
Grazie a computer
e software potentissimi, la scienza ha guadagnato incredibili
risorse, è cosa nota. Meno evidente è l’opportunità offerta all’uomo
comune. Si tratta della possibilità di superare la limitatezza dei
propri giudizi e la particolarità del suo punto di vista, sconfiggere la
storica alienazione con cui viene attribuito valore a singole cose
determinate, tralasciando di riconoscere le qualità astratte e generali.
L’antico e nobile
ideale di avvicinare il singolo all’“essenza del genere umano”, al
valore universale dell’essere uomo, sembra farsi possibilità concreta in
una società informatizzata. Con un qualsiasi dispositivo informatico,
infatti, in qualsiasi luogo, chiunque può sottrarsi alla condizione
materiale che lo limita, mettersi in contatto con il mondo intero,
conoscere qualsiasi cosa, acquistare, vendere e intrattenersi con
chiunque. Il dispositivo gli consente di astrarre dalla relatività della
sua condizione, dalla sua storia personale, dalla sua situazione
economica, sociale e familiare, dalle distanze fisiche che lo separano
dal resto dell’umanità, avvicinandosi al senso di una vita più simile a
quella di ogni altro uomo. Ma di fronte a questa grandiosa offerta, che
in un colpo solo potrebbe illuminare più del secolo dei Lumi, per uno
strano paradosso della cultura, il mondo delle cose, tutt’altro che
passato e screditato, viene rivestito di nuovi e profondi valori. Mentre
esce fuori scena fisicamente, la materia acquista maggior peso e
importanza a livello valoriale. Le possibilità di conoscere, attraverso
le Enciclopedie e i dizionari on line, aumentano a dismisura,
mentre il fenomeno della disinformazione non sembra decrescere,
soprattutto tra i giovani, quelli che usano maggiormente i mezzi
informatici[2].
Attraverso il digitale
e le fotocamere incorporate, veri prodigi della tecnica, l’arte e la
scienza farebbero numerosi proseliti, mentre la Me-Generation
fotografa sempre più se stessa, focalizzando l’attenzione sul Sé e sulla
propria rappresentazione. A volte «noi siamo posseduti dalle nostre
immagini, soffriamo delle nostre proprie immagini»[3],
talmente tanto da suicidarci per aver fatto brutta figura in un
social network. Fa un certo effetto, inoltre, sentire che anche al
di là della crisi economica e della sfiducia, mentre la società si
informatizza e tecnologizza, più del 50 % dei giovani italiani (18-35
anni) preferirebbe gestire un agriturismo piuttosto che lavorare in
banca o in azienda. Insomma, mentre con una semplice connessione
Internet possiamo guardare la terra in diretta dal satellite in tutto il
suo siderale splendore, i giovani vogliono zappare più di prima, anziché
studiare ingegneria informatica. C’è qualcosa che non torna in questo
progresso al silicio, quasi ci fosse un paradosso interno, una frattura
e una decelerazione umana. La stessa cultura dell’immagine non è forse
un’incoerenza per una società che ha la capacità di astrarre così tanto
dalla finitezza?[4]
Nonostante l’entusiasmo
di alcuni per un futuro completamente computerizzato, la funzione
edificante e istruttiva del web sembra non aver molta presa sul
desiderio di svago, passatempo e reificazione generalizzata. Mentre la
lotta per i diritti umani, il rispetto per il sesso opposto o per un
diverso orientamento vengono amplificati dal web, crescono di
pari passo la reificazione della donna, l’intolleranza e la violenza,
fino a divenire emergenza sociale. Ma allora chiediamoci: l’astrazione
dal particolare attraverso l’informatica ci conduce davvero alla
condivisione e comprensione di valori comuni, o non ci risospinge invece
verso un individualismo ancor più radicato e ottuso? Senza luddismo
alcuno né futurismo, chiediamoci ancora: è un caso che i paesi più
indietro nel processo di informatizzazione, siano quelli in cui
sopravvive una cultura dei simboli, degli ideali, non importa se
bellicosi, tribali o retrivi?
È in atto una
controtendenza interna alla società dell’informatica, un feedback
culturale che la riavvolge sulle proprie basi materiali, la risospinge
verso un approccio alle cose e alle persone più rigido e predeterminato.
L’astrazione promessa dalla cultura digitale, verso un Io più aperto e
libero, anziché sgravarci della materia non ci porta forse a darle nuova
e più profonda importanza nel quotidiano?
Nel tentativo di
liberarsi di lei, la materia ci imbriglia più stretti di prima, trovando
una via tutta nuova di esprimere la propria cultura. Questa sorta di
“anima di creta” del mondo digitale, di “materialismo dell’astrazione”,
si riscontra in generale nei rapporti umani, ma è soprattutto evidente
nel modo di concepire la relazione al benessere economico, alla
ricchezza, alla proprietà.
2. Lavoro, proprietà e valore
Principale punto di
appoggio della tecnologia è l’incremento produttivo che consente di
attuare. Essa non è solo indice di differenza economica tra nazioni con
dotazioni informatiche diverse, ma è a sua volta causa di queste
differenze, capace cioè di accrescerle maggiormente. Non è sbagliato
perciò parlare di una rivoluzione capitalistica della tecnologia; il
digital divide non è tanto un welfare divide quanto un
political divide tra stati che sfruttano il lavoro e stati che lo
sostengono. La tecnologia e l’informazione servono per crescere, gli
economisti di tutti i tempi lo affermano, tranne fisiocrazie illuministe
del tutto passate di moda. La lentezza della crescita europea in paesi
come Italia e Spagna, ad esempio, secondo un studio di settore, «è
dovuta anche al ritardo nell’adozione delle nuove tecnologie»[5].
Il guadagno della
tecnologia però si misura sulla diminuzione del lavoro operaio, sulla
estromissione dell’uomo da lavori tradizionalmente manuali. Così, mentre
«fabbrica e ufficio si somigliano sempre di più»[6], il
lavoro diminuisce, toccando vette di disoccupazione clamorose, fino al
50% in Spagna. Mentre si moltiplicano le aperture al qualitativo,
l’individuo, formalizzato nelle sue relazioni, più funzionali e dirette,
quasi a difendersi dalla perdita di identità e dal sistema di gestione
razionale che lo ingloba, tende ad una ricostituzione dei vecchi confini
del “proprio”, ritornando a quel mondo da cui la tecnologia lo distanzia
sempre di più. La società informatizzata è dunque il luogo della perdita
di materia – con la diminuzione del lavoro manuale – ma è allo stesso
tempo mondo del consumo, dell’accumulazione, dell’accrescimento di
proprietà. Per un reazione opposta all’espropriazione formale che l’uomo
subisce – nell’apertura alle differenze e alla comunità globale con la
sua simbolizzazione e astrazione generale – ci si dà all’accumulazione
di beni inutili, come se appropriandosi di più cose si guadagnasse
qualche immunità dal controllo e dalla canalizzazione tecnologica del
desiderio.
Dal valore astratto
delle cose, dal loro prezzo, dal loro contenuto equivalente,
dall’'anima' delle merci, la società informatizzata spinge così verso
quello che Marx chiamava “il corpo delle merci”, la loro materialità
appunto. Certo i tempi sono cambiati da quando per arricchirsi si doveva
mangiare pane e cipolla come Gesualdo Motta, nascondendo le banconote
sotto il cuscino. Siamo nell’era della finanza, con un click si
possono spostare enormi capitali, e non c’è praticamente limite alle
transazioni bancarie, tranne quelli legali, naturalmente, che vengono
comunque aggirate più facilmente con le tecnologie informatiche.
Eppure l’estraniazione
dal dolore e dalla finitezza attraverso la tecnologia, anziché condurci
all’anima delle cose, alla loro forma astratta, spinge paradossalmente
ad appropriarci del loro essere fisico, ad una cultura del consumo,
dell’eccesso, del superfluo, molto più irrazionale di quella di don
Gesualdo. Come una valvola di sfogo, l’economia del mondo informatico si
muove in direzione dell’astrazione, ma spinge verso l’opposta direzione
del consumo. È forse un caso che il partito politico che in Italia ha fatto di
Internet e computer il suo principale programma politico
rivendichi un “reddito di cittadinanza”? –
È un caso che l’economia politica degli stati moderni, tranne
alcuni casi coraggiosi, abbia una vocazione mercantilistica, calcoli
cioè il potenziale economico di una nazione in base ad una rispondenza
materiale della ricchezza?
Da una parte si specula
in borsa, dall’altra si invoca il pareggio di bilancio ad una minima
oscillazione del pil,
mentre l’oro è ritornato ad essere unica garanzia di ricchezza.
Dietro questa visione
materiale delle risorse si nasconde evidentemente la paura della
perdita, germe strisciante della crisi, la svalutazione del lavoro e del
guadagno, nutrimento perfetto per la logica dell’appropriazione.
È questa logica l’anima del “mercantilismo” dei nostri tempi,
dove ciò che conta è la pura produttività, il reddito e la posizione,
senza alcuna esaltazione dell’esperienza, della formazione e del
guadagno. Insomma, un “si salvi chi può” dell’accumulazione illogica,
come durante la guerra fredda ciascuno accumulava beni nel suo personale
rifugio antiatomico. Mutatis mutandis, in questa strana
dialettica di movimenti contrapposti, dove l’elevazione verso il
cielo-tecnologia cela una discesa verso la materialità della terra,
sembra avverarsi l’antico schema di divisione e disuguaglianza economica
che si regge sull’alienazione del lavoro. Nella società tecnologica,
sembra più che mai vero il detto di Marx per cui «l’estraniazione si
mostra come appropriazione»[7].
È cioè cercando di
sfuggire alla materia che si è indotti ad appropriarsene. Più ci si
avvicina alla forma delle cose, tanto meno le si possiede, e allora via
ad accaparrarsi cose che garantiscano l’uomo dalla perdita di sé che
percepisce nell’apertura dell’informatica[8]. La
relazione causale che lega l’informatizzazione, la perdita di lavoro e
l’accumulazione materiale, possiede naturalmente un’antica spiegazione
hegelo-psicologica nel mancato differimento della soddisfazione
attraverso il lavoro. Meno lavoro, infatti, non vuol dire solo meno
valore del prodotto, ma soprattutto pervertimento del desiderio e
frustrazione di fronte alle merci, quindi consumo illogico, possesso,
svalutazione.
DICEMBRE 2013
[1]
S. Freud, Il disagio della civiltà, Newton Compton
Editori, Roma 2010, p.115.
[2]
Ad usare il PC e Internet, per il 50% della popolazione, sono
solo i giovanissimi (11-25 anni). Vedi
www.istat.it,
utilizzo del
PC e di Internet negli ultimi 12 mesi. A proposito dell’abuso di alcool,
droga e disinformazione, interessante è il parere di Andrea
Lanzi, direttore di Fisiopatologia ed Endocrinologia della
Sapienza, il quale mette direttamente in relazione
disinformazione, culto del corpo ed abusi. Vedi «La Repubblica»
del 19/11/2013, p.31.
[3]
H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1999, p.253.
[4]
«Stiamo assistendo al ritorno dell’epistemologia visiva così
cara ai filosofi greci. Vedere è capire e il digitale si sforza
di ricreare il reale passando per la riproduzione analogica». L.
Floridi, L’estensione dell’intelligenza, guida
all’informatica per filosofi, Armando Editore, Roma 1996,
p.18.
[5]
Cfr. A. Gambardella, S. Torrisi, Nuova industria o nuova
economia? L’impatto dell’informatica sulla produttività dei
settori manifatturieri in Italia, in «Moneta e Credito», n.
213, Marzo 2001.
[6]
H. A. Simon, Informatica, direzione aziendale e
organizzazione del lavoro. La nuova scienza delle
decisioni manageriali, FrancoAngeli, Milano 19881a,
p. 8.
[7]
K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, in K. Marx, F.
Engels, Scritti raccolti, Einaudi, Torino 1968, p.126.
[8]
T. Maldonado, Critica della ragione informatica,
Feltrinelli, Milano 1987, p.67.