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Gennaio 2014

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Esperienza e rappresentazione

MATERIA E PROPRIETà NELLA SOCIETà INFORMATIZZATA

Mariano Mazzullo

 

1. Il materialismo dell’astrazione informatica

La società della localizzazione satellitare – del wi-fi cui è impossibile sfuggire, di tutte le app e devices che fanno impazzire grandi e piccoli – appare così compiuta e radicata che sembra provenire da un lontano passato. Eppure questa società, a dispetto della riuscita integrazione con il “quotidiano”, non è più vecchia di un ventennio, segnando un record assoluto nella rapidità del cambiamento storico introdotto. In crescente escalation, mentre l’ultimo scorcio del Novecento familiarizzava appena con una timida virtualità, fatta di monitor monocolore verde acqua, telefonini giganteschi e qualche migliaio di pixel in meno, gli anni duemila hanno siglato la fatale trasformazione che lega l’uomo alla macchina. Non una macchina industriale confinata in un ufficio, una fabbrica o un reparto di ospedale, ma un insieme di mediazioni costanti a cui ogni evento è inevitabilmente subordinato. Non si può non riconoscerlo. Questa svolta ha plasmato le abitudini, i gusti, i desideri dell’uomo e le sue relazioni, traghettandoci in una nuova fase dell’umanità.

Sostenere stizziti l’argomento per cui, in fondo al cuore, l’uomo custodisce un’immutabile natura di istinti e bisogni, un tabernacolo genetico che la tecnologia, come fattore esterno, si limita poi a porre in luce ed ombra, mi pare per lo meno irrealistico e antistorico. Forse ci può consolare l’idea di essere sempre e comunque gli stessi animali razionali che costruirono il Colosseo, combatterono le Crociate e scrissero l’Encyclopédie con penna e calamaio, visto che oggi interagiamo più coi dispositivi che con le cose. Ad ogni modo, che ci piaccia o no, pessimisti o ottimisti per le sorti dell’umanità, la tecnologia ci ha cambiati, almeno in certi aspetti essenziali dell’esistenza. È possibile rinunciare ad un gadget, ad un optional, a un di più che non ci cambia la vita, qualcosa che resta esterno a noi e del tutto subordinato ad una scelta, una preferenza, uno stato d’animo. Il necessario, invece, è irrinunciabile. Il punto è proprio che la tecnologia non è più qualcosa di esterno, un oggetto da scegliere o snobbare, un mezzo da utilizzare “per accrescere i profitti” o fare un giro su Internet. Si tratta ormai di un Logos auto-sussistente, una struttura vivente, un fondamento necessario, qualcosa senza la quale affrontare un nuovo giorno sarebbe improponibile alla maggior parte dell’umanità. Leviatano moderno, ciascuno appartiene all’informatica, d’autorità o per contratto. Perciò, dandy dei nostri tempi che sdegnano l’integrazione, tipi vintage e “gente d’altri tempi” possono certo rifiutarsi di farne uso, pas mal, la tecnologia farà tranquillamente uso di loro. È comprensibile che alcuni di noi, svezzati dal vecchio secolo, storcano un poco il naso a distinguere l’homo novus di questa società, convinti si tratti di un atteggiamento alla moda, relativo e passeggero. Ma mentre un po’ di scetticismo “fin de siécle” mette forse in guardia da toni nostalgici, le nuove generazioni, nate e cresciute dentro questa realtà, da sempre a contatto con social network e touch screen, sono già lontane miglia dal vecchio mondo. Quel mondo dove non si era ipnotizzati da monitor e telefonini onnipotenti, dove si giocava in strada col pallone o a nascondino, sbucciandosi gomiti e ginocchia.

Certo l’homo tecnologicus non è una specie a sé né una patologia, la società robotizzata di Asimov continua a restare fantascienza, e per fortuna. Passioni, sentimenti ed emozioni, oltretutto, sorgono sì in contesti inediti, ma tradiscono pur sempre un antico volto umano. Eppure ci sono cose irrimediabilmente lasciate indietro, perdute o barattate con il progresso; le cose cambiano, valori e bisogni si modificano, si superano o regrediscono. Il canone di bellezza di un greco antico non è quello inseguito dall’uomo moderno, ancor meno i nevrotici della Vienna freudiana ricorrevano alla psicanalisi come i personaggi di Woody Allen corrono dietro agli strizzacervelli. Un certo fissismo ottimista si rifiuta tuttavia di riconoscere la trasformazione avvenuta, e così le questioni che la tecnologia porta ogni giorno sui giornali vengono deferite alla famiglia, ai valori, all’esperienza, insomma ad un uso improprio dei “mezzi”. Dopo le cronache di baby prostitute, sexting, suicidi e false identità, giusto per fare qualche esempio, con grande aplomb tutti propinano vademecum sul buon uso di smartphone e tablet. Ma come? Gran parte dell’opinione pubblica crede dunque che l’uomo sia ancora quello di una volta, libero e indipendente dal legame con l’informatica, capace di imporre buon educazione e schemi di comportamento al mondo della rete o dei social network? Consolante visione astorica, certamente, quanto più distante dalla realtà. Ma prendiamo atto del cambiamento, non indugiamo oltre in moralismi da talk show e torniamo piuttosto al senso storico.

Se guardiamo al passato, neppure tanto lontano, l’informatica si pone all’apice di quello sforzo contro i limiti della natura e della materia con cui l’uomo è impegnato. Dalla notte dei tempi l’esistenza si lega strettamente all’emancipazione dalla materialità, dalla finitezza e corruttibilità della sua condizione. Come un fiero avversario, la materia pone sempre nuove barriere al desiderio, ai bisogni e alla libertà dell’uomo, colonne d’Ercole con cui la civilizzazione è in eterno conflitto. Elisir di lunga vita, macchine del tempo, tele-trasporti e smaterializzatori vari, rappresentano in realtà miti e desideri di tutti i tempi, non solo cult fantascientifici della modernità. Sin dal “primo giorno”, per così dire, l’uomo non si accontenta del proprio giardino fiorito, desiderando di superare il benessere materiale in cui Dio lo aveva posto. Lo stesso anelito adamitico si legge nella storia, dalle piramidi faraoniche, con la loro maestosa glorificazione dell’eternità, fino alla nostra moderna scienza baconiana, ispirata all’ideale di “trasformare e dominare la materia”. Ebbene, se la civiltà dipende dal superamento di limiti materiali, in questa lotta storica, per dirla con Freud, grazie alla tecnologia l’uomo è divenuto “quasi un Dio”, sebbene «nella sua somiglianza a Dio aggiunge lo psicologo austriaco egli non si senta felice»[1]. Questa disuguaglianza tra benessere materiale e felicità, dilemma antico e moderno, giunge fino ai nostri tempi, dilatata da una società che può tutto con un touch, mentre abbonda in ansiolitici e antidepressivi.

Conseguenza del progresso o debolezza strutturale dell’uomo? – Farne una colpa agli innocenti tablet e pc sarebbe ingenuo? – È presto per scrivere una considerazione sull’utilità e il danno dell’informatica per la vita?

Constatiamo solo che, ci renda più o meno entusiasti, nella “divinizzazione” tecnologica di cui parlava Freud, l’informatica ha certamente consegnato all’uomo lo scettro dell’Olimpo. È cioè un successo storico assoluto che la nuova tecnologia del silicio permetta di archiviare antichi e oppressivi condizionamenti fisici, conferendo all’uomo, ancor più del telefono, della ferrovia e dell’elettricità messe insieme, una capacità di controllo e gestione della propria vita inimmaginabile solo venti o trent'anni fa. La trasformazione è stata così radicale da far si che ogni tipo di qualità concreta, per aver accesso alla società dei nostri tempi, deve oggi necessariamente tradursi in contenuto informatico. Il reale deve convertirsi in virtuale, l’immediato in mediato, l’espressione in rappresentazione, secondo una logica di ostensione, abbreviazione e funzionalizzazione del messaggio. L’in-formatica, insomma, è un pedaggio caro da pagare per il regno delle cose, dove la forma dell’esistenza, prima ancora o addirittura senza mai essere materia, è innanzitutto quella della forma e rappresentazione.

Società informatizzata vuol dire dunque crescente formalizzazione delle cose: processi economici, affetti, gusti personali e collettivi. Tutto va incontro a un percorso di astrazione e inversione rispetto alla materia, i concetti di identità e collettività, di cultura, sapere, scienza e via dicendo. Acquisita cittadinanza informatica, il contenuto viene destinato ad una forma, spesso e volentieri iconografica, figurando nel modo più auto-evidente ed immediato possibile. Al bruto mondo della materia, spodestato del suo prius temporale sul vissuto concreto, non resta che riflettere a posteriori gli schemi della tecnologia, giocando da mera riproduzione. Quest’improbabile adaequatio ad informatica, in sostanza, colloca il mondo della materia in posizione di ricevente, non solo sottraendogli l’antica priorità sull’astrazione, ma privandolo della sua stessa indipendenza. Vuol dire forse che la pietra non è più la stessa? Certo che no, la cosa è sempre cosa, specie se è un realismo ingenuo a definirla. Ma il modo di descriverla, di utilizzarla, di concepirla e rappresentarla non è solo diverso, si tratta di un modo completamente e radicalmente diverso. Per chiarirci: chiunque e dovunque, scampagnata fuori porta o lavoro d’ufficio, per quanto amante della natura-materia, attaccato agli oggetti antichi o patito della tecnologia, è ormai filtrato nel suo modo di essere e pensare da categorie totalmente acquisite dalle applicazioni informatiche. All’interno dello stesso movimento di formalizzazione, perciò, è la mente stessa dell’uomo ad informatizzarsi, mentre il mondo delle cose si smaterializza. Pensiamo a un concetto cruciale come la memoria, dimensione che notoriamente scindiamo con difficoltà da cose e circostanze determinate. Ebbene, grazie ai processi di memorizzazione informatica, non solo immagini, testi, musica, video e quant’altro vengono già da tempo digitalizzati e resi indipendenti da un supporto materiale ma, grazie allo spazio on-line, interi archivi, per milioni e milioni di volumi, fascicoli e video, possono venire trasferiti in rete, privi di qualsiasi supporto fisico, impressi in uno “spazio” che non c’è. Per ascoltare un disco dei Beatles già da tempo non c’era più bisogno di un cd, oggi non c’è neppure più bisogno di un hard disk. Trattati scientifici, documenti, fotografie personali, sinfonie d’orchestra, compressi e salvati in pochi bit, sopravvivranno alla corruzione della materia, senza che una copertina in pelle, un album patinato o un disco rigido li racchiuda.

Forse, come nel grande romanzo di Bradbury, rimarranno soltanto onnipresenti monitor ed immagini a circondarci? – Magari rimarrà qualche perfetto ologramma a ricordarci com’era il mondo della materia, mentre il regno delle cose si “smaterializzerà” sempre di più in un Fahrenheit gigantesco?

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Niente paura, è un’utopia lontana, ma è ancor prima la stessa cultura dell’informatica a scongiurarla. Vediamo perché.

Grazie a computer e software potentissimi, la scienza ha guadagnato incredibili risorse, è cosa nota. Meno evidente è l’opportunità offerta all’uomo comune. Si tratta della possibilità di superare la limitatezza dei propri giudizi e la particolarità del suo punto di vista, sconfiggere la storica alienazione con cui viene attribuito valore a singole cose determinate, tralasciando di riconoscere le qualità astratte e generali.

L’antico e nobile ideale di avvicinare il singolo all’“essenza del genere umano”, al valore universale dell’essere uomo, sembra farsi possibilità concreta in una società informatizzata. Con un qualsiasi dispositivo informatico, infatti, in qualsiasi luogo, chiunque può sottrarsi alla condizione materiale che lo limita, mettersi in contatto con il mondo intero, conoscere qualsiasi cosa, acquistare, vendere e intrattenersi con chiunque. Il dispositivo gli consente di astrarre dalla relatività della sua condizione, dalla sua storia personale, dalla sua situazione economica, sociale e familiare, dalle distanze fisiche che lo separano dal resto dell’umanità, avvicinandosi al senso di una vita più simile a quella di ogni altro uomo. Ma di fronte a questa grandiosa offerta, che in un colpo solo potrebbe illuminare più del secolo dei Lumi, per uno strano paradosso della cultura, il mondo delle cose, tutt’altro che passato e screditato, viene rivestito di nuovi e profondi valori. Mentre esce fuori scena fisicamente, la materia acquista maggior peso e importanza a livello valoriale. Le possibilità di conoscere, attraverso le Enciclopedie e i dizionari on line, aumentano a dismisura, mentre il fenomeno della disinformazione non sembra decrescere, soprattutto tra i giovani, quelli che usano maggiormente i mezzi informatici[2].

Attraverso il digitale e le fotocamere incorporate, veri prodigi della tecnica, l’arte e la scienza farebbero numerosi proseliti, mentre la Me-Generation fotografa sempre più se stessa, focalizzando l’attenzione sul Sé e sulla propria rappresentazione. A volte «noi siamo posseduti dalle nostre immagini, soffriamo delle nostre proprie immagini»[3], talmente tanto da suicidarci per aver fatto brutta figura in un social network. Fa un certo effetto, inoltre, sentire che anche al di là della crisi economica e della sfiducia, mentre la società si informatizza e tecnologizza, più del 50 % dei giovani italiani (18-35 anni) preferirebbe gestire un agriturismo piuttosto che lavorare in banca o in azienda. Insomma, mentre con una semplice connessione Internet possiamo guardare la terra in diretta dal satellite in tutto il suo siderale splendore, i giovani vogliono zappare più di prima, anziché studiare ingegneria informatica. C’è qualcosa che non torna in questo progresso al silicio, quasi ci fosse un paradosso interno, una frattura e una decelerazione umana. La stessa cultura dell’immagine non è forse un’incoerenza per una società che ha la capacità di astrarre così tanto dalla finitezza?[4]

Nonostante l’entusiasmo di alcuni per un futuro completamente computerizzato, la funzione edificante e istruttiva del web sembra non aver molta presa sul desiderio di svago, passatempo e reificazione generalizzata. Mentre la lotta per i diritti umani, il rispetto per il sesso opposto o per un diverso orientamento vengono amplificati dal web, crescono di pari passo la reificazione della donna, l’intolleranza e la violenza, fino a divenire emergenza sociale. Ma allora chiediamoci: l’astrazione dal particolare attraverso l’informatica ci conduce davvero alla condivisione e comprensione di valori comuni, o non ci risospinge invece verso un individualismo ancor più radicato e ottuso? Senza luddismo alcuno né futurismo, chiediamoci ancora: è un caso che i paesi più indietro nel processo di informatizzazione, siano quelli in cui sopravvive una cultura dei simboli, degli ideali, non importa se bellicosi, tribali o retrivi?

È in atto una controtendenza interna alla società dell’informatica, un feedback culturale che la riavvolge sulle proprie basi materiali, la risospinge verso un approccio alle cose e alle persone più rigido e predeterminato. L’astrazione promessa dalla cultura digitale, verso un Io più aperto e libero, anziché sgravarci della materia non ci porta forse a darle nuova e più profonda importanza nel quotidiano?

Nel tentativo di liberarsi di lei, la materia ci imbriglia più stretti di prima, trovando una via tutta nuova di esprimere la propria cultura. Questa sorta di “anima di creta” del mondo digitale, di “materialismo dell’astrazione”, si riscontra in generale nei rapporti umani, ma è soprattutto evidente nel modo di concepire la relazione al benessere economico, alla ricchezza, alla proprietà.

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2. Lavoro, proprietà e valore

Principale punto di appoggio della tecnologia è l’incremento produttivo che consente di attuare. Essa non è solo indice di differenza economica tra nazioni con dotazioni informatiche diverse, ma è a sua volta causa di queste differenze, capace cioè di accrescerle maggiormente. Non è sbagliato perciò parlare di una rivoluzione capitalistica della tecnologia; il digital divide non è tanto un welfare divide quanto un political divide tra stati che sfruttano il lavoro e stati che lo sostengono. La tecnologia e l’informazione servono per crescere, gli economisti di tutti i tempi lo affermano, tranne fisiocrazie illuministe del tutto passate di moda. La lentezza della crescita europea in paesi come Italia e Spagna, ad esempio, secondo un studio di settore, «è dovuta anche al ritardo nell’adozione delle nuove tecnologie»[5].

Il guadagno della tecnologia però si misura sulla diminuzione del lavoro operaio, sulla estromissione dell’uomo da lavori tradizionalmente manuali. Così, mentre «fabbrica e ufficio si somigliano sempre di più»[6], il lavoro diminuisce, toccando vette di disoccupazione clamorose, fino al 50% in Spagna. Mentre si moltiplicano le aperture al qualitativo, l’individuo, formalizzato nelle sue relazioni, più funzionali e dirette, quasi a difendersi dalla perdita di identità e dal sistema di gestione razionale che lo ingloba, tende ad una ricostituzione dei vecchi confini del “proprio”, ritornando a quel mondo da cui la tecnologia lo distanzia sempre di più. La società informatizzata è dunque il luogo della perdita di materia – con la diminuzione del lavoro manuale – ma è allo stesso tempo mondo del consumo, dell’accumulazione, dell’accrescimento di proprietà. Per un reazione opposta all’espropriazione formale che l’uomo subisce – nell’apertura alle differenze e alla comunità globale con la sua simbolizzazione e astrazione generale – ci si dà all’accumulazione di beni inutili, come se appropriandosi di più cose si guadagnasse qualche immunità dal controllo e dalla canalizzazione tecnologica del desiderio.

Dal valore astratto delle cose, dal loro prezzo, dal loro contenuto equivalente, dall’'anima' delle merci, la società informatizzata spinge così verso quello che Marx chiamava “il corpo delle merci”, la loro materialità appunto. Certo i tempi sono cambiati da quando per arricchirsi si doveva mangiare pane e cipolla come Gesualdo Motta, nascondendo le banconote sotto il cuscino. Siamo nell’era della finanza, con un click si possono spostare enormi capitali, e non c’è praticamente limite alle transazioni bancarie, tranne quelli legali, naturalmente, che vengono comunque aggirate più facilmente con le tecnologie informatiche.

Eppure l’estraniazione dal dolore e dalla finitezza attraverso la tecnologia, anziché condurci all’anima delle cose, alla loro forma astratta, spinge paradossalmente ad appropriarci del loro essere fisico, ad una cultura del consumo, dell’eccesso, del superfluo, molto più irrazionale di quella di don Gesualdo. Come una valvola di sfogo, l’economia del mondo informatico si muove in direzione dell’astrazione, ma spinge verso l’opposta direzione del consumo. È forse un caso che il partito politico che in Italia ha fatto di Internet e computer il suo principale programma politico rivendichi un “reddito di cittadinanza”? – È un caso che l’economia politica degli stati moderni, tranne alcuni casi coraggiosi, abbia una vocazione mercantilistica, calcoli cioè il potenziale economico di una nazione in base ad una rispondenza materiale della ricchezza?

Da una parte si specula in borsa, dall’altra si invoca il pareggio di bilancio ad una minima oscillazione del pil, mentre l’oro è ritornato ad essere unica garanzia di ricchezza.

Dietro questa visione materiale delle risorse si nasconde evidentemente la paura della perdita, germe strisciante della crisi, la svalutazione del lavoro e del guadagno, nutrimento perfetto per la logica dell’appropriazione. È questa logica l’anima del “mercantilismo” dei nostri tempi, dove ciò che conta è la pura produttività, il reddito e la posizione, senza alcuna esaltazione dell’esperienza, della formazione e del guadagno. Insomma, un “si salvi chi può” dell’accumulazione illogica, come durante la guerra fredda ciascuno accumulava beni nel suo personale rifugio antiatomico. Mutatis mutandis, in questa strana dialettica di movimenti contrapposti, dove l’elevazione verso il cielo-tecnologia cela una discesa verso la materialità della terra, sembra avverarsi l’antico schema di divisione e disuguaglianza economica che si regge sull’alienazione del lavoro. Nella società tecnologica, sembra più che mai vero il detto di Marx per cui «l’estraniazione si mostra come appropriazione»[7]. È cioè cercando di sfuggire alla materia che si è indotti ad appropriarsene. Più ci si avvicina alla forma delle cose, tanto meno le si possiede, e allora via ad accaparrarsi cose che garantiscano l’uomo dalla perdita di sé che percepisce nell’apertura dell’informatica[8]. La relazione causale che lega l’informatizzazione, la perdita di lavoro e l’accumulazione materiale, possiede naturalmente un’antica spiegazione hegelo-psicologica nel mancato differimento della soddisfazione attraverso il lavoro. Meno lavoro, infatti, non vuol dire solo meno valore del prodotto, ma soprattutto pervertimento del desiderio e frustrazione di fronte alle merci, quindi consumo illogico, possesso, svalutazione.

 

DICEMBRE 2013

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[1] S. Freud, Il disagio della civiltà, Newton Compton Editori, Roma 2010, p.115.

[2] Ad usare il PC e Internet, per il 50% della popolazione, sono solo i giovanissimi (11-25 anni). Vedi www.istat.it, utilizzo del PC e di Internet negli ultimi 12 mesi. A proposito dell’abuso di alcool, droga e disinformazione, interessante è il parere di Andrea Lanzi, direttore di Fisiopatologia ed Endocrinologia della Sapienza, il quale mette direttamente in relazione disinformazione, culto del corpo ed abusi. Vedi «La Repubblica» del 19/11/2013, p.31.

[3] H. Marcuse, L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino 1999, p.253.

[4] «Stiamo assistendo al ritorno dell’epistemologia visiva così cara ai filosofi greci. Vedere è capire e il digitale si sforza di ricreare il reale passando per la riproduzione analogica». L. Floridi, L’estensione dell’intelligenza, guida all’informatica per filosofi, Armando Editore, Roma 1996, p.18.

[5] Cfr. A. Gambardella, S. Torrisi, Nuova industria o nuova economia? L’impatto dell’informatica sulla produttività dei settori manifatturieri in Italia, in «Moneta e Credito», n. 213, Marzo 2001.

[6] H. A. Simon, Informatica, direzione aziendale e organizzazione del lavoro. La nuova scienza delle decisioni manageriali, FrancoAngeli, Milano 19881a, p. 8.

[7] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici, in K. Marx, F. Engels, Scritti raccolti, Einaudi, Torino 1968, p.126.

[8] T. Maldonado, Critica della ragione informatica, Feltrinelli, Milano 1987, p.67.