IL GIAPPONE E IL CONSUMISMO CHE VERRà
Impressioni di viaggio
Rogerio
Gonçalves de Freitas
1. Premessa
Il paese del Sol Levante è un interessante laboratorio
sociologico. Tuttavia il mio racconto, così come tutte le
impressioni di viaggio, è di per sé molto limitato dal punto di
vista della categoria impressione. Le impressioni sono
soltanto una ricerca circoscritta della realtà,
hegelianamente
parlando, un puro possibile. Essendo così, la
situazione
già mi procura qualche difficoltà, nella misura in cui si tratta
di provare a raccontare quei fenomeni, politici o economici, che
ho riscontrato durante il mio soggiorno in Giappone. Difficile è
anche esprimersi in termini sociologici, soprattutto perché le
categorie sociologiche, che spesso si utilizzano, sono delle
categorie marcate di paradigmi centrati sulla nostra cultura
individualizzata e occidentalizzata. Ecco allora un primo
problema: come esprimersi effettivamente su un argomento
relativo ad una cultura diversa della mia, ma utilizzando i miei
propri riferimenti metodologici d’analisi?
All’interno della suddetta contraddizione esistono però, per la
nostra salvezza o delusione, alcune domande, che si possono
porre ricercando una via d’uscita da questa problematica
metodologica. Per chiarire meglio ci si può domandare: fino a
che punto si può indagare un paese la cui tendenza
trasformatrice presenta, nel piano del reale, somiglianze
globali nelle sfere dell’economia e della cultura? Si potrebbe
subito pensare alla filosofia dell’organizzazione del lavoro
Just in Time (di fordiana memoria), adottata dai giapponesi
nella seconda metà degli anni cinquanta del secolo scorso, con
lo scopo di massimizzare la produzione. È allora nel contesto
dell’organizzazione del lavoro e sulla quotidianità della
cultura giapponese che farò delle considerazioni, in modo da
sottolineare i vari limiti che ho incontrato nel descrivere le
mie impressioni. Cercherò di raccontare situazioni che mi hanno
fatto riflettere su un paese dove il cambiamento e l’habitus
della cultura convivono contraddittoriamente nella medesima
dimensione del reale.
2. La cultura della storia e la storia della cultura di un
popolo
Il Giappone è un paese che ha sofferto molto. Qui, il 6 agosto
del 1945 alle ore 08:15, l’inferno scese sulla terra. Il
possibile si è trasformato nel reale, il mondo ha constatato la
dimostrazione della favolosa potenza creata dall’irrazionalità
umana. Nelle prime settimane dopo che Hiroshima aveva conosciuto
Dal controllo all’organizzazione, continuando a parlare di cibo.
Sapevo quanto la cucina orientale fosse deliziosa: sushi,
sashimi, tamagoyaki, udon e così via… ma
non mi ero ancora accorto di un suo aspetto particolare:
l’organizzazione dei piatti. Tutto ordinato in modo che il cibo
possa essere perfettamente presentato. Un’organizzazione
perfetta. Si dice che in Giappone prima di ingerire un cibo, si
deve mangiarlo con gli occhi, ossia, è bene apprezzare prima la
bellezza del cibo e soltanto dopo mangiare. La domanda che mi
sono fatto è stata: esiste una relazione stretta tra il cibo e
l’organizzazione della vita quotidiana? Ho cominciato allora a
fare attenzione al funzionamento delle cose. Dalle persone che
facevano la pulizia in cucina, nelle vie, nelle fermate (in
quasi tutte) dei treni ad alta velocità (Shinkansen),
alla puntualità degli altri mezzi di trasporto. Un’altra
situazione interessante mi è capitata quando, appena arrivato a
Tokyo, sono salito sull’auto-bus: la prima cosa che mi ha
consigliato l’autista è stata di indossare la cintura di
sicurezza. In vita mia, non avevo mai indossato la cintura di
sicurezza viaggiando su un autobus. Sembrava un suggerimento
senza necessità, considerata l’organizzazione del traffico in
quel paese.
Dopo queste prime impressioni
mi è stato veramente difficile
capire determinati comportamenti dei nipponici. Racconto,
adesso, il loro atteggiamento educato nei confronti dell’altro.
Il modo in cui rivolgono una critica, esprimono contrarietà su
un determinato argomento o la semplice esposizione di una
determinata idea. Nel parlare, i giapponesi non dimostrano mai
che ci stanno criticando. Prima di tutto viene l’ascolto
assoluto del contenuto e, solo in seguito, la critica, che in
realtà sembra più una mediazione. Ho avuto l’opportunità di
parlare con alcune persone di temi delicati come la religione,
la politica, la questione dell’energia nucleare e il disastro
ambientale. In generale, la risposta di un giapponese arriva
dopo una pausa cechoviana. Alla fine, sono giunto a pensare che
il linguaggio è, per i giapponesi, la categoria centrale della
ragione comunicativa habermasiana e che, nonostante le
rappresentazioni che si danno dei giapponesi – spesso
etichettati come chiusi, freddi e di poche parole – il loro modo
di comunicare è molto più ampio di quanto si pensi. Considero,
allora, come l’elemento del linguaggio non possa cadere in
riduzionismi, ma anche come la sua componente non verbale, ricca
di segni e di significati, sia sicuramente un elemento da
privilegiare quando si tratta di capire i giapponesi.
Perduto in una cultura abbastanza diversa della mia, continuavo
a interessarmi al diverso e allo sconosciuto. Accadeva che,
durante i miei viaggi all’interno del Giappone, il controllore
del treno s’inchinasse verso i passeggeri ogni volta che entrava
o usciva del vagone. Intendeva dire, a mio avviso: “con
permesso!”. Mi sembrava veramente una cosa assurda. Irrazionale.
Senza senso.
Innanzitutto perché era un gesto meccanico, poi perché quasi
nessun passeggero lo guardava. Per una persona come me, non
abituata a un tale comportamento, si trattava certamente di un
gesto strano, difficile da comprendere. Sembra che i nipponici
ricorrano ad una razionalità comunicativa invece che ad una
razionalità puramente strumentale. Anche se spesso può sembrare
l’estremo opposto.
3. L’insolita lezione di sociologia del lavoro
Continuavo ad interrogarmi sul quotidiano di quel paese, finché
non mi sono interessato a capire meglio la situazione del mondo
del lavoro giapponese, ed ecco uno dei momenti più importanti
del mio viaggio nella terra del Sol Levante. Ho conosciuto un
lavoratore che, pur non avendo una laurea in sociologia o in
economia, mi ha spiegato benissimo il modello toyotista.
Il suo modo di spiegarsi era perfettamente chiaro. Mi rendeva
comprensibile come il quotidiano, la vita privata delle persone,
si sia radicalmente adeguata alla filosofia dei nuovi rapporti
di produzione, intensificati soprattutto a partire della crisi
degli anni settanta. Rapporti di produzione in cui
l’utilizzazione di diverse macchine allo stesso tempo, con il
proposito di massimizzare la produzione e ridurre le spese (in
questo caso il capitale variabile) si collega con i cambiamenti
nelle relazioni di lavoro. Questo lavoratore mi spiegava che le
occupazioni che si trovano oggi in Giappone sono nella maggior
parte dei casi a tempo determinato e senza diritti, cioè
precarie. Per essere ammesso nelle fabbriche o in un’azienda, il
lavoratore è obbligato a fare una serie di colloqui. Essere
polivalente, qualificato e adatto a lavorare in più di una
funzione è la regola del gioco. La mia testimone privilegiata
lavora in una fabbrica di produzione di pezzi per computer. Mi
diceva che il ritmo del lavoro in quella fabbrica è orribile.
Agli operai sono imposti turni di lavoro estenuanti, che possono
arrivare fino a ventiquattro ore al giorno. In quella fabbrica,
non sono pochi i casi di follia sul luogo di lavoro. Quel giorno
ho assistito ad una bellissima lezione di sociologia da parte di
un lavoratore con pochi anni di studio.
La chiacchierata con questo operaio mi ha fatto riflettere su
come storicamente, a partire dalla metà dagli anni ’70 – grazie
alla cattura della soggettività dei lavoratori da parte
delle imprese, da un lato, e al collaborazionismo di un
sindacalismo di tipo aziendale dall’altro – l’uso sempre
maggiore di lavoratori
irregolari e part time sia diventato la regola in
quel paese. Secondo
Makoto Itoh, docente di economia presso l’Università Kokugakuin
di Tokyo,
in quell’epoca si è verificato un forte attacco ai diritti dei
lavoratori. I salari sono stati congelati per una parte
importante della classe lavoratrice. Con la crisi asiatica del
1997-98, e poi con le politiche di Junichiro Koizumi (primo
ministro tra il 2001 e il 2006) che ha provato a contenere il
crescente debito pubblico, si è avuto l’avanzare del
processo di deregulation e lo tsunami delle
privatizzazioni. Secondo lo Statistics Bureau[1],
organo ufficiale
del governo giapponese, il luglio del 2013 ha registrato circa
2.55 milioni di disoccupati (anche se pare che il numero
complessivo sia diminuito rispetto allo scorso anno), mentre il
numero di lavoratori irregolari copre ormai il 40% della forza
lavoro.
Riflettendo sui dati del mercato del
lavoro giapponese e su
quella lunga conversazione, in una
notte fredda nella città di Shiga (nel sud del Giappone) – città
conosciuta soprattutto per il suo “ospitare” molti migranti
brasiliani, conosciuti come dekasegui (che per i
discendenti dei giapponesi significa letteralmente lavorare
lontano di casa)
– mi sono
ricordato di un testo del 1997 di Bourdieu[2],
dove egli affermava che la precarietà è dappertutto.
4. Il consumismo come caratteristica dello svuotamento umano
Non potevo non parlare di un aspetto che è stato centrale in
questo mio viaggio attraverso il Giappone, cioè del rapporto tra
vita quotidiana e consumo. Se la disciplina e l’abnegazione
compongono la regola della struttura burocratica e formativa del
Giappone, e se in alcuni casi i giapponesi sono disposti o
costretti a lavorare 24 ore al giorno e 7 giorni alla settimana,
nel paese del Sol Levante il feticcio della forma merce che
movimenta la dimensione del consumismo avanza in maniera
sorprendente. Questo sviluppo a mio parere dovrebbe essere
analizzato sul piano della morale e, a questo proposito, mi
ricordo di come Kosik[3]
affermi, in una sua opera sulla crisi dei tempi moderni, che
esiste un’antinomia tra
la legge della storia e l’attività umana e che il processo
storico è stato disumanizzato.
Egli parla di una crisi dei nostri tempi che si attua solamente
nel complesso delle manifestazioni del capitalismo
contemporaneo. Crisi che scende nel piano della moralità,
perché il sistema stesso del capitale conserva ancora il
fondamento ontologico della contraddizione tra il capitale e
lavoro, tra le forze produttive e i rapporti di produzione, tra
la merce e le sue riproduzioni socio-metaboliche. Le conseguenze
di un consumismo senza freni (anche se il Giappone ancora oggi è
in recessione) come, per esempio, l’ossessione per le ultime
novità tecnologiche, cellulari d’ultima generazione e così via,
sembrano affermare ancora di più l’imperativo categorico del
consumo, segno dello spirito del nostro tempo.
La cultura del consumo, vuota di
significati, pare trasformare spesso le abitudini producendo
sensazioni costanti di malessere.
Un
caso particolarmente rilevante, che riprende il tema del tempo
libero della solitudine, è la copertina di una rivista
quindicinale fatta specialmente per gli immigranti brasiliani.
Si trattava dell’edizione di dicembre. Sulla copertina erano
stampati temi relativi alle commemorazioni natalizie di fine
anno. L’interessante è che in Giappone non si commemora
ufficialmente il Natale. Ha richiamato la mia attenzione una
testimonianza via internet d’una ragazza brasiliana
dekasegi
che parlava sulla stessa copertina della rivista, raccontando la
sua esperienza come
lavoratrice precaria in una fabbrica giapponese e il suo stato
d’animo nel periodo natalizio.
Raccontava cosa significa stare lontano da casa, la sua
giornata lavorativa e la solitudine.
La giovane lavoratrice piangeva davanti alla telecamera
guardando la rivista. Diceva che non aveva senso commemorare
quel giorno, soprattutto da sola. Diceva che per compensare lo
stato di solitudine non solo degli immigranti ma dei giapponesi
in generale, il sotterfugio è quello del consumismo. Una via
contro la disperazione.
In tutte le città che ho visitato ho potuto vedere degli annunci
dei saldi di fine anno. Ad esempio, paghi 5000 yen –
circa 38 euro – e poi puoi prendere una busta piena di vestiti,
però non puoi scegliere tutti i vestiti che ti piacciono, devi
comprare la busta già confezionata. Un altro tipo di follia
consumistica è quella della busta di calzini. Si tratta di
pagare 1000 yen e portare la quantità massima di calzini che
riesci a mettere nella tua busta in un tempo di circa 10 minuti.
Le persone che partecipano alla “gara dei calzini” devono
arrivare ai negozi alle 5 di mattino. È possibile vedere, prima
dell’apertura dei negozi, centinaia di persone in attesa fuori
ai templi del consumo. Ho saputo che, a seconda della grandezza
della busta, si possono acquistare fino a circa 400 paia di
calzini di diversi colori e misure. Non ho capito una cosa:
perché una corsa per acquisire così tanti calzini in un solo
giorno?
La ricerca e l’urgenza del consumo immediato minaccia il genuino
valore del pensiero. Quando la compulsione diventa un vizio, già
non è più una compulsione, è una normalità. E quest’apparente
normalità colpisce patologicamente migliaia di persone in tutto
il mondo, attraverso la sindrome dell’acquisito compulsivo, più
conosciuta come “oniomania”. Non è difficile vedere questo
fenomeno in Giappone. Il movimento di persone, nelle vie di
Tokyo e di altre grandi città del Giappone, sembra quello delle
grandi processioni di fedeli alla ricerca di templi del consumo,
per praticare la preghiera giornaliera del comprare,
acquisire e ottenere. Gli spazi del consumo sono
pieni di persone, l’apparenza del fenomeno ci fa pensare che
esista una collettività, una socialità tra le persone, ma, come
dice Bauman[4],
in questi spazi non esiste mai il collettivo, l’individuo è
chiamato a sospendere i rapporti e a scartare le lealtà. Gli
incontri occasionali devono essere superficiali e brevi e, in
generale, questi templi sono sempre protetti con la massima
sicurezza da coloro che vogliono fermare il grande rituale, come
per esempio i barboni, i disoccupati, i ladri e le altre
categorie di “indifesi” della nostra contemporaneità.
Alla fine della riflessione sulla questione del consumismo, sono
arrivato al punto di chiedermi se c’e qualcosa in Giappone che
resiste alla logica del prestabilito. La risposta è stata che il
partito che governa il paese (Partito Liberale Democratico –
PLD), razzista e conservatore, insieme al sindacalismo
aziendale, frenano frequentemente la possibilità di protesta
anti-egemonica. L’unico movimento di resistenza al sistema che
ho visto è stato il movimento ambientale che lotta contro gli
impianti nucleari. Era un pomeriggio e, mentre stavo visitando i
grattacieli nel centro di Tokyo, non mi ero accorto di stare di
fronte al palazzo centrale dell’energia nucleare, quando a un
tratto ho visto una dozzina di persone con uno striscione in un
sit-in permanente che diceva: NO NUKES. Una settimana
prima e due settimane dopo la mia visita in Giappone si sono
tenute due grandissime manifestazioni contro il funzionamento
delle installazioni nucleari in tutto il territorio nazionale.
Sono circa il 79,6% i giapponesi che si oppongono agli impianti
nucleari, secondo il
Japan
Association for Public Opinion Research, e purtroppo il governo neoliberista giapponese continua a sottoporre
gli interessi dei cittadini ad un’ideologia fallita di sviluppo
industriale ed economico che sta portando alla rovina
l’ambiente, la salute e il benessere di una grande parte della
popolazione.
5. L’ultima immagine
L’ultima immagine del viaggio che è rimasta nella mia testa, e
che mi è sembrata anche un gesto di resistenza individuale e
culturale, è stata quella di un signore vestito da Samurai
侍.
L’aspetto di quel vecchio samurai non era del periodo Edo, e
nemmeno dei samurai che conoscevano l’arte della spada (kenjutsu)
o della manipolazione dell’arco. A differenza dei guerrieri
giapponesi, vedevo un uomo in età abbastanza avanzata, sembrava
essere un ultra-settantenne. Invece di portare la sua bella
spada, possedeva soltanto un piccolo barattolo di porcellana, in
cui si sentiva ogni tanto il suono delle monetine di yen
che cadevano, senza provocare nessuna espressione di allegria in
quell’uomo.
Indossava un vecchio cappello di samurai e aveva uno sguardo di
stanchezza infinita. Il suo indebolimento fisico non era solo
della sua condizione di mendicante, ma si sentiva così perché
nello sguardo di chi passava non si trovava compassione e
neanche nostalgia dei vecchi tempi. L’uomo chiedeva spiccioli
vicino al Parco Ueno, dove si trova il Museo Nazionale d’Arte ed
Archeologia nel centro commerciale di Tokyo. Quell’immagine del
signore che indossava il vestito di Samurai rappresenta per me
la sintesi di tutte le contraddizioni di un Giappone che molte
volte, sotto il segno della modernità, si dimentica della vita e
dell’ambiente, ma che sempre ricorda la poesia del passato:
«Come
il fiore del ciliegio è il migliore tra i fiori, così il
guerriero è il migliore tra gli uomini».
SETTEMBRE 2013
[1]
Statistics Bureau. Ministry of Internal Affairs and
Communications. 2013,
http://www.stat.go.jp/english/data/roudou/results/month/index.htm
[2] P. Bourdieu,
La précarité est aujourd'hui partout, Intervention lors des Rencontres européennes contre la précarité,
[3]
K.
Kosik, La crise
des temps modernes:
dialectique de la morale, Les Editions De
[4]
Z.
Bauman, Modernidade Líquida, Jorge Zahar, Rio de Janeiro 2001.