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11
Ottobre 2013

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IL GIAPPONE E IL CONSUMISMO CHE VERRà

Impressioni di viaggio

Rogerio Gonçalves de Freitas

 

1. Premessa

Il paese del Sol Levante è un interessante laboratorio sociologico. Tuttavia il mio racconto, così come tutte le impressioni di viaggio, è di per sé molto limitato dal punto di vista della categoria impressione. Le impressioni sono soltanto una ricerca circoscritta della realtà, hegelianamente parlando, un puro possibile. Essendo così, la situazione già mi procura qualche difficoltà, nella misura in cui si tratta di provare a raccontare quei fenomeni, politici o economici, che ho riscontrato durante il mio soggiorno in Giappone. Difficile è anche esprimersi in termini sociologici, soprattutto perché le categorie sociologiche, che spesso si utilizzano, sono delle categorie marcate di paradigmi centrati sulla nostra cultura individualizzata e occidentalizzata. Ecco allora un primo problema: come esprimersi effettivamente su un argomento relativo ad una cultura diversa della mia, ma utilizzando i miei propri riferimenti metodologici d’analisi?  

All’interno della suddetta contraddizione esistono però, per la nostra salvezza o delusione, alcune domande, che si possono porre ricercando una via d’uscita da questa problematica metodologica. Per chiarire meglio ci si può domandare: fino a che punto si può indagare un paese la cui tendenza trasformatrice presenta, nel piano del reale, somiglianze globali nelle sfere dell’economia e della cultura? Si potrebbe subito pensare alla filosofia dell’organizzazione del lavoro Just in Time (di fordiana memoria), adottata dai giapponesi nella seconda metà degli anni cinquanta del secolo scorso, con lo scopo di massimizzare la produzione. È allora nel contesto dell’organizzazione del lavoro e sulla quotidianità della cultura giapponese che farò delle considerazioni, in modo da sottolineare i vari limiti che ho incontrato nel descrivere le mie impressioni. Cercherò di raccontare situazioni che mi hanno fatto riflettere su un paese dove il cambiamento e l’habitus della cultura convivono contraddittoriamente nella medesima dimensione del reale.  

 

2. La cultura della storia e la storia della cultura di un popolo

Il Giappone è un paese che ha sofferto molto. Qui, il 6 agosto del 1945 alle ore 08:15, l’inferno scese sulla terra. Il possibile si è trasformato nel reale, il mondo ha constatato la dimostrazione della favolosa potenza creata dall’irrazionalità umana. Nelle prime settimane dopo che Hiroshima aveva conosciuto la Little Boy, incredibilmente il popolo giapponese scendeva in campo per la ricostruzione delle città devastate dalla guerra. Mi è stato possibile conoscere la vicenda in una visita al Museo della Pace a Hiroshima, che racconta come il bombardamento nucleare abbia totalmente distrutto un’intera città. È stato così che ho avuto modo di conoscere meglio come la parola disciplina sia centrale per questo popolo, sia per la riedificazione del paese che per una filosofia della vita quotidiana cristallizzata all’interno della cultura nipponica. La famosa disciplina dei giapponesi riguarda la cultura filosofica dei samurai: una specie di militare del Giappone feudale che risale al periodo Edo (1603-1868) e che comincia a declinare con la restaurazione Meiji, che ha cambiato la struttura politica e sociale del Giappone. Alcuni termini come: Mononofu (もののふ) oppure Tsuwamono () indicano il Samurai come un soldato e una persona valorosa, competente, uomo delle arti marziali. Esiste anche, come classico simbolo del Samurai, il fiore del ciliegio che rappresenta bellezza e grandiosità. Uno degli antichi versi più conosciuti racconta l’importanza del guerriero: «Come il fiore del ciliegio è il migliore tra i fiori, così, il guerriero è il migliore tra gli uomini». E’ nella tradizione culturale del Giappone che il contributo della storia diventa importante per la legittimazione di un habitus che accompagna la vita di questo popolo. E fu nell’epoca più drammatica della storia del Giappone che i suoi abitanti hanno dovuto adattarsi a situazioni che hanno richiesto molta disciplina e anche una certa sottomissione, dallo Shintoismo di Stato dell’era Meiji all’atteggiamento del governo dopo la Seconda Guerra Mondiale, che sottoponeva la popolazione ad un regime crudele di austerità. Il comportamento attivo delle persone per restaurare il paese è stato esemplare e ha comportato, ad esempio, la donazione di padelle allo Stato da parte della popolazione, per mancanza di metallo per la costruzione di un serbatoio militare, oppure l’adattamento a una dieta a base di patate nel dopoguerra. Questioni come quelle citate mi hanno fatto riflettere su alcuni aspetti del modo di vivere dei giapponesi che mi hanno profondamente colpito una volta che sono arrivato lì. Aspetti come la pulizia, la puntualità dei trasporti pubblici, i grattacieli, l’organizzazione, il comportamento delle persone, i saluti, che sembrano meccanici, e così via. Per fare un esempio banale, una semplice fetta di torta acquistata lì, fa subito emergere l’attenzione dei giapponesi riguardo il dettaglio, l’attenzione, l’organizzazione e il controllo. È incredibile come preparano i pacchi di consegna della torta. Sono belli e perfetti.  Il controllo totale della qualità di un prodotto pare non appartenere soltanto al mondo delle macchine, ma anche al mondo della pasticceria.

Dal controllo all’organizzazione, continuando a parlare di cibo. Sapevo quanto la cucina orientale fosse deliziosa: sushi, sashimi, tamagoyaki, udon e così via… ma non mi ero ancora accorto di un suo aspetto particolare: l’organizzazione dei piatti. Tutto ordinato in modo che il cibo possa essere perfettamente presentato. Un’organizzazione perfetta. Si dice che in Giappone prima di ingerire un cibo, si deve mangiarlo con gli occhi, ossia, è bene apprezzare prima la bellezza del cibo e soltanto dopo mangiare. La domanda che mi sono fatto è stata: esiste una relazione stretta tra il cibo e l’organizzazione della vita quotidiana? Ho cominciato allora a fare attenzione al funzionamento delle cose. Dalle persone che facevano la pulizia in cucina, nelle vie, nelle fermate (in quasi tutte) dei treni ad alta velocità (Shinkansen), alla puntualità degli altri mezzi di trasporto. Un’altra situazione interessante mi è capitata quando, appena arrivato a Tokyo, sono salito sull’auto-bus: la prima cosa che mi ha consigliato l’autista è stata di indossare la cintura di sicurezza. In vita mia, non avevo mai indossato la cintura di sicurezza viaggiando su un autobus. Sembrava un suggerimento senza necessità, considerata l’organizzazione del traffico in quel paese.

Dopo queste prime impressioni mi è stato veramente difficile capire determinati comportamenti dei nipponici. Racconto, adesso, il loro atteggiamento educato nei confronti dell’altro. Il modo in cui rivolgono una critica, esprimono contrarietà su un determinato argomento o la semplice esposizione di una determinata idea. Nel parlare, i giapponesi non dimostrano mai che ci stanno criticando. Prima di tutto viene l’ascolto assoluto del contenuto e, solo in seguito, la critica, che in realtà sembra più una mediazione. Ho avuto l’opportunità di parlare con alcune persone di temi delicati come la religione, la politica, la questione dell’energia nucleare e il disastro ambientale. In generale, la risposta di un giapponese arriva dopo una pausa cechoviana. Alla fine, sono giunto a pensare che il linguaggio è, per i giapponesi, la categoria centrale della ragione comunicativa habermasiana e che, nonostante le rappresentazioni che si danno dei giapponesi – spesso etichettati come chiusi, freddi e di poche parole – il loro modo di comunicare è molto più ampio di quanto si pensi. Considero, allora, come l’elemento del linguaggio non possa cadere in riduzionismi, ma anche come la sua componente non verbale, ricca di segni e di significati, sia sicuramente un elemento da privilegiare quando si tratta di capire i giapponesi.

Perduto in una cultura abbastanza diversa della mia, continuavo a interessarmi al diverso e allo sconosciuto. Accadeva che, durante i miei viaggi all’interno del Giappone, il controllore del treno s’inchinasse verso i passeggeri ogni volta che entrava o usciva del vagone. Intendeva dire, a mio avviso: “con permesso!”. Mi sembrava veramente una cosa assurda. Irrazionale. Senza senso.  Innanzitutto perché era un gesto meccanico, poi perché quasi nessun passeggero lo guardava. Per una persona come me, non abituata a un tale comportamento, si trattava certamente di un gesto strano, difficile da comprendere. Sembra che i nipponici ricorrano ad una razionalità comunicativa invece che ad una razionalità puramente strumentale. Anche se spesso può sembrare l’estremo opposto.  

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3. L’insolita lezione di sociologia del lavoro

Continuavo ad interrogarmi sul quotidiano di quel paese, finché non mi sono interessato a capire meglio la situazione del mondo del lavoro giapponese, ed ecco uno dei momenti più importanti del mio viaggio nella terra del Sol Levante. Ho conosciuto un lavoratore che, pur non avendo una laurea in sociologia o in economia, mi ha spiegato benissimo il modello toyotista. Il suo modo di spiegarsi era perfettamente chiaro. Mi rendeva comprensibile come il quotidiano, la vita privata delle persone, si sia radicalmente adeguata alla filosofia dei nuovi rapporti di produzione, intensificati soprattutto a partire della crisi degli anni settanta. Rapporti di produzione in cui l’utilizzazione di diverse macchine allo stesso tempo, con il proposito di massimizzare la produzione e ridurre le spese (in questo caso il capitale variabile) si collega con i cambiamenti nelle relazioni di lavoro. Questo lavoratore mi spiegava che le occupazioni che si trovano oggi in Giappone sono nella maggior parte dei casi a tempo determinato e senza diritti, cioè precarie. Per essere ammesso nelle fabbriche o in un’azienda, il lavoratore è obbligato a fare una serie di colloqui. Essere polivalente, qualificato e adatto a lavorare in più di una funzione è la regola del gioco. La mia testimone privilegiata lavora in una fabbrica di produzione di pezzi per computer. Mi diceva che il ritmo del lavoro in quella fabbrica è orribile. Agli operai sono imposti turni di lavoro estenuanti, che possono arrivare fino a ventiquattro ore al giorno. In quella fabbrica, non sono pochi i casi di follia sul luogo di lavoro. Quel giorno ho assistito ad una bellissima lezione di sociologia da parte di un lavoratore con pochi anni di studio.

La chiacchierata con questo operaio mi ha fatto riflettere su come storicamente, a partire dalla metà dagli anni ’70 – grazie alla cattura della soggettività dei lavoratori da parte delle imprese, da un lato, e al collaborazionismo di un sindacalismo di tipo aziendale dall’altro – l’uso sempre maggiore di lavoratori  irregolari e part time sia diventato la regola in quel paese. Secondo Makoto Itoh, docente di economia presso l’Università Kokugakuin di Tokyo, in quell’epoca si è verificato un forte attacco ai diritti dei lavoratori. I salari sono stati congelati per una parte importante della classe lavoratrice. Con la crisi asiatica del 1997-98, e poi con le politiche di Junichiro Koizumi (primo ministro tra il 2001 e il 2006) che ha provato a contenere il crescente debito pubblico, si è avuto l’avanzare del processo di deregulation e lo tsunami delle privatizzazioni. Secondo lo Statistics Bureau[1], organo ufficiale del governo giapponese, il luglio del 2013 ha registrato circa 2.55 milioni di disoccupati (anche se pare che il numero complessivo sia diminuito rispetto allo scorso anno), mentre il numero di lavoratori irregolari copre ormai il 40% della forza lavoro. Riflettendo sui dati del mercato del lavoro giapponese e su quella lunga conversazione, in una notte fredda nella città di Shiga (nel sud del Giappone) – città conosciuta soprattutto per il suo “ospitare” molti migranti brasiliani, conosciuti come dekasegui (che per i discendenti dei giapponesi significa letteralmente lavorare lontano di casa) mi sono ricordato di un testo del 1997 di Bourdieu[2], dove egli affermava che la precarietà è dappertutto.

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4. Il consumismo come caratteristica dello svuotamento umano

Non potevo non parlare di un aspetto che è stato centrale in questo mio viaggio attraverso il Giappone, cioè del rapporto tra vita quotidiana e consumo. Se la disciplina e l’abnegazione compongono la regola della struttura burocratica e formativa del Giappone, e se in alcuni casi i giapponesi sono disposti o costretti a lavorare 24 ore al giorno e 7 giorni alla settimana, nel paese del Sol Levante il feticcio della forma merce che movimenta la dimensione del consumismo avanza in maniera sorprendente. Questo sviluppo a mio parere dovrebbe essere analizzato sul piano della morale e, a questo proposito, mi ricordo di come Kosik[3] affermi, in una sua opera sulla crisi dei tempi moderni, che esiste un’antinomia tra la legge della storia e l’attività umana e che il processo storico è stato disumanizzato. Egli parla di una crisi dei nostri tempi che si attua solamente nel complesso delle manifestazioni del capitalismo  contemporaneo. Crisi che scende nel piano della moralità, perché il sistema stesso del capitale conserva ancora il fondamento ontologico della contraddizione tra il capitale e lavoro, tra le forze produttive e i rapporti di produzione, tra la merce e le sue riproduzioni socio-metaboliche. Le conseguenze di un consumismo senza freni (anche se il Giappone ancora oggi è in recessione) come, per esempio, l’ossessione per le ultime novità tecnologiche, cellulari d’ultima generazione e così via, sembrano affermare ancora di più l’imperativo categorico del consumo, segno dello spirito del nostro tempo.

La cultura del consumo, vuota di significati, pare trasformare spesso le abitudini producendo sensazioni costanti di malessere. Un caso particolarmente rilevante, che riprende il tema del tempo libero della solitudine, è la copertina di una rivista quindicinale fatta specialmente per gli immigranti brasiliani. Si trattava dell’edizione di dicembre. Sulla copertina erano stampati temi relativi alle commemorazioni natalizie di fine anno. L’interessante è che in Giappone non si commemora ufficialmente il Natale. Ha richiamato la mia attenzione una testimonianza via internet d’una ragazza brasiliana dekasegi che parlava sulla stessa copertina della rivista, raccontando la sua esperienza  come lavoratrice precaria in una fabbrica giapponese e il suo stato d’animo nel periodo natalizio.  Raccontava cosa significa stare lontano da casa, la sua giornata lavorativa e la solitudine.

La giovane lavoratrice piangeva davanti alla telecamera guardando la rivista. Diceva che non aveva senso commemorare quel giorno, soprattutto da sola. Diceva che per compensare lo stato di solitudine non solo degli immigranti ma dei giapponesi in generale, il sotterfugio è quello del consumismo. Una via contro la disperazione.

In tutte le città che ho visitato ho potuto vedere degli annunci dei saldi di fine anno. Ad esempio, paghi 5000 yen – circa 38 euro – e poi puoi prendere una busta piena di vestiti, però non puoi scegliere tutti i vestiti che ti piacciono, devi comprare la busta già confezionata. Un altro tipo di follia consumistica è quella della busta di calzini. Si tratta di pagare 1000 yen e portare la quantità massima di calzini che riesci a mettere nella tua busta in un tempo di circa 10 minuti. Le persone che partecipano alla “gara dei calzini” devono arrivare ai negozi alle 5 di mattino. È possibile vedere, prima dell’apertura dei negozi, centinaia di persone in attesa fuori ai templi del consumo. Ho saputo che, a seconda della grandezza della busta, si possono acquistare fino a circa 400 paia di calzini di diversi colori e misure. Non ho capito una cosa: perché una corsa per acquisire così tanti calzini in un solo giorno?

La ricerca e l’urgenza del consumo immediato minaccia il genuino valore del pensiero. Quando la compulsione diventa un vizio, già non è più una compulsione, è una normalità. E quest’apparente normalità colpisce patologicamente migliaia di persone in tutto il mondo, attraverso la sindrome dell’acquisito compulsivo, più conosciuta come “oniomania”. Non è difficile vedere questo fenomeno in Giappone. Il movimento di persone, nelle vie di Tokyo e di altre grandi città del Giappone, sembra quello delle grandi processioni di fedeli alla ricerca di templi del consumo, per praticare la preghiera giornaliera del comprare, acquisire e ottenere. Gli spazi del consumo sono pieni di persone, l’apparenza del fenomeno ci fa pensare che esista una collettività, una socialità tra le persone, ma, come dice Bauman[4], in questi spazi non esiste mai il collettivo, l’individuo è chiamato a sospendere i rapporti e a scartare le lealtà. Gli incontri occasionali devono essere superficiali e brevi e, in generale, questi templi sono sempre protetti con la massima sicurezza da coloro che vogliono fermare il grande rituale, come per esempio i barboni, i disoccupati, i ladri e le altre categorie di “indifesi” della nostra contemporaneità.

Alla fine della riflessione sulla questione del consumismo, sono arrivato al punto di chiedermi se c’e qualcosa in Giappone che resiste alla logica del prestabilito. La risposta è stata che il partito che governa il paese (Partito Liberale Democratico – PLD), razzista e conservatore, insieme al sindacalismo aziendale, frenano frequentemente la possibilità di protesta anti-egemonica. L’unico movimento di resistenza al sistema che ho visto è stato il movimento ambientale che lotta contro gli impianti nucleari. Era un pomeriggio e, mentre stavo visitando i grattacieli nel centro di Tokyo, non mi ero accorto di stare di fronte al palazzo centrale dell’energia nucleare, quando a un tratto ho visto una dozzina di persone con uno striscione in un sit-in permanente che diceva: NO NUKES. Una settimana prima e due settimane dopo la mia visita in Giappone si sono tenute due grandissime manifestazioni contro il funzionamento delle installazioni nucleari in tutto il territorio nazionale. Sono circa il 79,6% i giapponesi che si oppongono agli impianti nucleari, secondo il Japan Association for Public Opinion Research, e purtroppo il governo neoliberista giapponese continua a sottoporre gli interessi dei cittadini ad un’ideologia fallita di sviluppo industriale ed economico che sta portando alla rovina l’ambiente, la salute e il benessere di una grande parte della popolazione.

 

5. L’ultima immagine

L’ultima immagine del viaggio che è rimasta nella mia testa, e che mi è sembrata anche un gesto di resistenza individuale e culturale, è stata quella di un signore vestito da Samurai . L’aspetto di quel vecchio samurai non era del periodo Edo, e nemmeno dei samurai che conoscevano l’arte della spada (kenjutsu) o della manipolazione dell’arco. A differenza dei guerrieri giapponesi, vedevo un uomo in età abbastanza avanzata, sembrava essere un ultra-settantenne. Invece di portare la sua bella spada, possedeva soltanto un piccolo barattolo di porcellana, in cui si sentiva ogni tanto il suono delle monetine di yen che cadevano, senza provocare nessuna espressione di allegria in quell’uomo.  Indossava un vecchio cappello di samurai e aveva uno sguardo di stanchezza infinita. Il suo indebolimento fisico non era solo della sua condizione di mendicante, ma si sentiva così perché nello sguardo di chi passava non si trovava compassione e neanche nostalgia dei vecchi tempi. L’uomo chiedeva spiccioli vicino al Parco Ueno, dove si trova il Museo Nazionale d’Arte ed Archeologia nel centro commerciale di Tokyo. Quell’immagine del signore che indossava il vestito di Samurai rappresenta per me la sintesi di tutte le contraddizioni di un Giappone che molte volte, sotto il segno della modernità, si dimentica della vita e dell’ambiente, ma che sempre ricorda la poesia del passato: «Come il fiore del ciliegio è il migliore tra i fiori, così il guerriero è il migliore tra gli uomini».

 

SETTEMBRE 2013

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[1] Statistics Bureau. Ministry of Internal Affairs and Communications. 2013, http://www.stat.go.jp/english/data/roudou/results/month/index.htm

[2] P. Bourdieu, La précarité est aujourd'hui partout, Intervention lors des Rencontres européennes contre la précarité, Grenoble, 12-13 décembre 1997.

[3] K. Kosik, La crise des temps modernes: dialectique de la morale, Les Editions De La Passion, Paris 2003. 

[4] Z. Bauman, Modernidade Líquida, Jorge Zahar, Rio de Janeiro 2001.