Per uno studio del marxismo
L'ODIERNO SISTEMA DI SFRUTTAMENTO DEI MIGRANTI NELL'ITALIA MERIDIONALE
Vincenzo Fiano
Il seguente articolo è tratto
dai paragrafi 4 e 5 del iv capitolo della tesi in Filosofia
politica intitolata «L’officina delle migrazioni, movimenti
migratori e sviluppo capitalistico».
Definiamo la “Castel Volturno
Area” come un vasto quadrilatero tra le province di Caserta e
Napoli che sulla costa collega Napoli e Mondragone, mentre il
lato interno va da San Felice a Cancello fino al territorio a
nord di Capua. Comune denominatore del territorio è un’alta
concentrazione di forza lavoro immigrata di diverse nazionalità,
titolare di vari status giuridici, impiegata per lo più in
lavori giornalieri, prevalentemente nell’agricoltura,
nell’edilizia e, ultimamente, anche nei grandi centri di
stoccaggio e smistamento di ogni tipo di merci.
In questo articolo non
intendiamo riferirci alla presenza migratoria complessiva nel
meridione, ma a quel segmento particolare che si inserisce in
queste mansioni, tentando di delinearne con più precisione il
profilo, le condizioni e soprattutto i perché e le modalità
della loro concentrazione nella suddetta area.
Nel 2005 Medici Senza Frontiere
ha steso un puntuale rapporto intervistando ben 770 lavoratori
stagionali rintracciati nelle regioni della Campania, Puglia,
Basilicata, Calabria e Sicilia. Dato il tipo di mansione entro
cui si snoda l’indagine, la maggior parte degli intervistati
(91,40%) sono uomini e, in totale, il 67,1% proviene dall’Africa
sub-sahariana, il 20% dal Maghreb, dall’Europa dell’Est il 12,5%
e dal Medio Oriente solo lo 0,4%[1].
Nella seguente tabella, si
indicano le specifiche nazionalità più ricorrenti:
Grafico 1
– Paesi D’origine
Il Ghana e
Dal rapporto di
msf emerge che più
della metà degli immigrati implicati in questo circuito di
lavoro a “nero” è clandestina, il 23,4% ha un permesso di
soggiorno per richiesta di asilo, il 18,9% invece detiene il
pds per altri
motivi (lavoro, studio, cure mediche) e solo il 6,3% ha ottenuto
la protezione internazionale nelle forme che allora erano il
pds per “Motivi
Umanitari” e lo status di rifugiato politico, quindi
precedentemente alla definizione dello status “intermedio”
definito dalla protezione sussidiaria istituita dall’ue
e disciplinata dal D.Lgs 251/2007[3]. C’è da tener
presente, però, che il permesso di soggiorno per richiesta di
asilo, al mese di marzo del 2005, era ancora soggetto alla legge
39/90, comunemente Legge Martelli, che non lo considerava
“valido per lavoro”, quindi, di fatto, almeno il 75% degli
immigrati intervistati non era giuridicamente nelle condizioni
di stipulare un regolare contratto di lavoro. La situazione
cambiò poco dopo col Decreto Legislativo n.140/05 che attuò il
recepimento della direttiva europea 2003/9/CE sugli standard
minimi di accoglienza, rendendo il
pds per richiesta
di asilo valido per lavorare qualora entro i primi sei mesi
dalla presentazione della domanda il richiedente non fosse
ancora stato intervistato dall’allora Commissione Centrale per
il Riconoscimento dello Status di Rifugiato[4]. In ogni
caso, dei lavoratori intervistati, il 95% non aveva comunque un
regolare contratto.
Abbiamo quindi nel meridione
alcuni fulcri produttivi che specialmente nell’agricoltura,
possono disporre di una manodopera flessibile geograficamente e
socialmente, assolutamente vulnerabile dal punto di vista
sociale ed economico, sotto la pressione costante di un esercito
di riserva variabile. Ogni mattina questi immigrati si recano
sulle rotonde, agli incroci delle strade e nelle campagne
offrendosi “in vetrina” alla scelta dei caporali e dei datori di
lavoro che li portano con sé a lavorare per quella giornata.
È il sistema dei kalifoo
ground, la piazza degli schiavi: kalifoo in Libia,
dove sono passati quasi tutti gli immigrati dell’Africa
sub-sahariana presenti in questi territorio, significa “schiavo
a giornata”. Qui non ci sono garanzie, spesso non si pattuisce
a priori il salario e talvolta il risultato della
contrattazione viene anche disatteso; l’orario medio di lavoro è
sulle 12 ore, mentre per quanto riguarda il salario, nella
“Castel Volturno Area” il 76% ha dichiarato di ricevere meno di
25 euro al giorno. Ritagliarsi un rapporto di lavoro più stabile
molto spesso significa riuscire ad assicurarsi di portare a
termine il lavoro specifico che si sta portando avanti,
ma è quasi impossibile che da questa forma di incontro tra
domanda ed offerta possano scaturire dei contratti.
La modalità lavorativa più
diffusa è quella a giornata da cui, secondo Marx,
fuoriesce «la forma di salario più insicura»[5]; in alcune
zone particolari rinveniamo anche il salario a cottimo:
nelle raccolte stagionali il lavoro viene ricompensato con pochi
spiccioli per ogni cassa di frutta, verdure, ortaggi, agrumi
raccolti. Questa forma particolare di salario
dà al
capitalista una esatta misura dell’intensità del lavoro.
Solo il tempo di lavoro che s’incorpora in una quantità di
prodotti precedentemente determinata e fissata in base
all’esperienza, viene considerato tempo di lavoro socialmente
necessario e come tale viene retribuito. […] Quando
l’operaio non esplica un certo rendimento medio, quando non è
capace di produrre un certo minimo di lavoro giornaliero,
viene licenziato[6].
A questo punto focalizziamo
ulteriormente il nostro sguardo sulla “Castel Volturno Area” per
due motivi: innanzitutto perché non perdiamo comunque il
contatto con gli altri centri di questo sfruttamento
meridionale, dato che molto spesso i migranti in esso
risucchiati seguono la produzione in base alle stagioni: «In
Campania come in Sicilia, a Palazzo San Gervasio in Basilicata
come a Foggia in Puglia, i migranti vivono la stessa condizione.
Anzi di più: sono proprio gli stessi volti, le stesse braccia»[7]; scegliamo di
focalizzarci sulla “Castel Volturno Area”, però, anche per il
motivo inverso, e cioè che mentre nelle altre aree e regioni del
Sud la presenza di questa forza lavoro immigrata conosce dei
picchi solamente in occasione delle “raccolte”, in Campania la
presenza resta stabile per tutto l’anno.
Grafico 2
– Tempo di permanenza nell’area di lavoro
Fonte: Medici
Senza Frontiere – Missione Italia,
I Frutti dell’ipocrisia.
Storie di chi l’agricoltura la fa. Di nascosto.
La “Castel Volturno Area” si
afferma, sotto questo aspetto, sia come un centro di
smistamento di una parte della manodopera impegnata del
lavoro stagionale, fermo restando che quest’ultimo si trova
anche nella stessa Campania, che al tempo stesso come un sistema
produttivo in grado di valorizzare il lavoro vivo degli
immigrati non solo per parziali frazioni temporali ma per
l’intero anno, grazie al loro impiego in altri tipi di mestieri
che vanno oltre l’agricoltura, come l’edilizia, lo stoccaggio e
distribuzione di merci, nonché in piccole fabbriche che vivono
di subappalti potendo offrire prezzi altamente vantaggiosi
proprio grazie agli immigrati.
Ebbene, la peculiarità di questi
ultimi nella “Castel Volturno Area” è una sorprendente
capacità di valorizzazione continua e generale, che li rende
detentori del leggendario potere di Re Mida, in grado di
trasformare in oro tutto ciò che tocca. L’applicazione di
tale capacità verso le cose che gli sono attorno è direttamente
proporzionale però all’impoverimento fisico, materiale e
spirituale a cui va incontro, e alla conseguente alienazione che
subisce.
Precedentemente[8] abbiamo fatto
riferimento alla crescente alienazione nella totalizzazione del
rapporto di capitale teorizzata da Officina, che
approfondisce la teorizzazione dell’Individuo Sociale
Produttivo come il grande pilastro della produzione e della
ricchezza e la perdita della concretezza del lavoro, risucchiata
nel capitale costante in favore di un’astrazione sempre
maggiore. Ebbene, questo processo non interessa solamente la
forza lavoro a contatto col sistema macchinino, coi computer e
con gli altri strumenti ad alta tecnologia, ma conquista anche
quei settori dell’economia, come l’agricoltura o l’edilizia,
dove, nella sua applicazione, il lavoro concreto sembra ancora
egemonizzare quello astratto. Invece, non è così: gli
africani della “Castel Volturno Area” sono la punta più
avanzata dell’estensione in profondità del rapporto
di capitale applicata a questo tipo di settori: essi quando
raggiungono le rotonde non sono contadini, piastrellisti,
muratori, carpentieri ecc., ma barattoli di forza lavoro
congelata che quotidianamente il capitale decide dove svuotare.
È il trionfo del lavoro astratto su quello concreto, la
sconfitta delle determinazioni e delle abilità particolari del
lavoratore in favore del valore-lavoro che va ad alimentare la
potenza dell’Individuo Produttivo Sociale, che a sua
volta si adopera, come sistema complessivo, per impoverire
sempre di più questi proletari. Per questo, qualunque sia il
tipo di lavoro che l’immigrato compie, egli vi scioglie il suo
enorme valore lavoro congelato e lo trasforma in oro non
avendo la possibilità di denunciare il suo datore di lavoro
senza rischiare di essere a sua volta denunciato per
clandestinità, né di pretendere soldi o di contrattare sulle
condizioni e sugli orari, non andando in ospedale in caso di
incidente sul lavoro, non usufruendo dell’assistenza sanitaria:
dal Rapporto di msf
emerge che il 90,1% degli intervistati ne è privo.
Ma non finisce qui: il suo
potere simile a quello di re Mida si estende anche ad altri
livelli, come quello degli alloggi.
La situazione edilizia sul
litorale domitio è molto complessa: dopo
L’abusivismo edilizio avviatosi
verso la fine degli anni ’50 ha prodotto innumerevoli palazzi,
poi rimasti vuoti, che furono utilizzati per ospitare le vittime
del terremoto del 1980 e quelle del fenomeno del bradisismo di
Pozzuoli; poi «molti di questi sono rimasti, altri se ne sono
andati portandosi via tutto quello che potevano: water, porte,
termosifoni»[11].
Sono questi gli alloggi in cui
oggi risiedono gli immigrati. La vocazione turistica del
litorale, negli anni ’60 e ’70 fu molto sviluppata, ma dopo
queste tristi parentesi della storia campana la valutazione
turistica complessiva scese parecchio, le condizioni delle case
rimaste vuote erano pietose e difficilmente sarebbero potute
essere nuovamente abitate senza seri lavori di ristrutturazione.
Qui entrano in ballo gli
immigrati: la loro valorizzazione del “patrimonio” edilizio è
talmente alta che ristrutturando le abitazioni, farne palazzi
lussuosi e fittarli a prezzi esorbitanti non sarebbe mai
ugualmente redditizio. Essi abitano in queste catapecchie
sovraffollate, spesso senza luce, acqua o gas, pagando un fitto
mensile a persona che mediamente è sopra i 50 euro: anche
Re Mida si dovrebbe inchinare di fronte questa straordinaria
capacità di trasformazione dei ruderi in oro! Infatti in case di
pochi mq si affollano cinque, otto, dieci e più persone che
versano la quota mensile per l’affitto ad un padrone di casa
senza che quest’ultimo abbia mai stipulato un contratto e pagato
dovute le tasse. Perciò, aldilà della retorica e dei messaggi
razzisti, se gli africani lasciassero Castel Volturno sarebbe un
disastro economico e sociale senza precedenti, forse anche
peggio di quello causato dai bombardamenti subiti nella guerra.
L’ultimo aspetto su cui ci
soffermiamo è quello generale del duplice movimento che da un
lato questi migranti percorrono dal loro Paese fino alla “Castel
Volturno Area”, dall’altro sulle rimesse che fanno il
percorso a ritroso: quasi la totalità di questi immigrati,
infatti, rappresenta un investimento compiuto dalla
famiglia che aspetta fiduciosa i proventi.
L’immigrato quando era nel suo
Paese era inserito in uno scarso contesto produttivo, pertanto
il suo valore corrispondeva ad un’alta quota del valore-lavoro
complessivo del proprio paese; le sue erano ore povere,
esattamente come il sistema che alimentavano. Perciò, la
migrazione che lo porta nella “Castel Volturno Area” corrisponde
a una sua maturazione che ne rende possibile una
spremitura più fruttuosa dal punto di vista del capitale
attraverso la perdita della sua caratterizzazione umana, con la
clandestinità, e lavorativa, perché in Italia quest’immigrato
non ha più il suo lavoro che lo caratterizzava in Africa,
ma un giorno sarà carpentiere, l’altro falegname, l’altro ancora
muratore e poi raccoglierà pomodori. In sostanza, egli diventa
puro valore-lavoro, e poco importa dove e come andrà a
realizzarsi.
L’evoluzione della sua capacità
di valorizzazione è direttamente proporzionale anche al
peggioramento del suo stato di salute: «Tra tutti gli stranieri
visitati da msf»
soltanto «il 5,6% è risultato sano, cioè con diagnosi di “buon
stato di salute”»; esiste un luogo comune razzista che ritiene
che questi immigrati «si portino dall’Africa le malattie», ma i
dati di msf
smentiscono anche questa ipotesi:
Grafico 3
– Diagnosi di malattia infettiva/non infettiva in relazione al
tempo di permanenza in Italia
Grafico 4
– Numero di sospetti diagnostici acuti, cronici e totali in
relazione al tempo di permanenza in Italia
Più l’immigrato dedica i suoi
sforzi alla vita del capitale e alla sua riproduzione, più volta
le spalle alla sua vita e alla sua riproduzione:
anche la sua voce va ad unirsi a quella dell’operaio che
accusava il capitale: «la cosa che tu rappresenti davanti a me
non ha cuore nel petto che le palpiti. Quel che sembra vi
palpiti è il battito del mio proprio cuore»[12]. Riteniamo
importante sottolineare, oltre alle innovazioni che si esprimono
in questo segmento del proletariato nell’attuale stadio di
sviluppo capitalistico, anche le continuità con le fasi
precedenti, segnali inequivocabili di una battaglia sul valore
che ancora non si spegne:
Al capitale non
interessa nulla quanto duri la vita della forza lavorativa.
Quel che gli sta esclusivamente a cuore è il massimo di forza
lavorativa che può rendere fluida in una giornata di lavoro.
Raggiunge il suo scopo accorciando la durata della forza
lavorativa, al pari di un avido agricoltore che ottiene
dalla sua terra una rendita maggiore rapinandone la fertilità[13]
Il valore prodotto
dall’immigrato, alla fine, si divide in due parti, una, quella
maggiore, che passa per il coefficiente rappresentato dall’ips e si concretizza infine nelle merci prodotte; una che tiene
per sé e per la sua riproduzione, a volte completamente
insufficiente: secondo il Rapporto di
msf
molti stranieri
hanno dichiarato di non avere denaro sufficiente per comprare
cibo regolarmente […] l’apporto calorico” nella normalità “è
gravemente inferiore alle 2100 kcal al giorno indicate come
fabbisogno giornaliero dell’intervistato-tipo incontrato in
Campania: maschio, giovane e impiegato in agricoltura[14]
L’ultima parte del valore viene
indirizzata alla propria famiglia, nel proprio paese d’origine,
il cui sistema produttivo e nettamente più arretrato e meno
abile a sfruttarlo: è così che questo valore, sotto forma di
denaro, subisce la stessa metamorfosi destinata alla merce
coinvolta nello scambio diseguale tra i diversi paesi; con ciò
non si vuol sostenere l’inutilità di questo denaro per le
famiglie che lo ricevono, ma esse, così come il loro paese,
rispetto al valore prodotto in Italia e alla sua moltiplicazione
ad opera dell’
ips italiano, hanno ceduto molta più ricchezza di quanta ne
abbiano avuta in cambio.
Conclusioni
La conclusione che possiamo
delineare è il superamento della fase suprema del capitalismo
teorizzata da Lenin e al tempo stesso la permanenza, seppure in
forme innovative e sempre più sofisticate, dello sfruttamento
capitalistico e dello scontro sul valore. Ritenendo
quest’ultimo ormai superato, molti movimenti, associazioni ed
organizzazione antirazziste si spendono sulla questione della
cittadinanza; non a caso, tra le battaglie maggiormente
diffuse in Italia negli ultimi anni c’è stata quella sui
cpt e,
successivamente, sui cie.
Queste stesse organizzazioni sono solite deridere pubblicamente
l’importanza del permesso di soggiorno, considerato se non un
limite quantomeno un “pezzo di carta inutile”; in realtà, più
che un cittadino non ancora riconosciuto, ci piace
pensare l’immigrato ancora come un soggetto di classe, e
precisamente come uno degli spezzoni del proletariato
maggiormente vittime dell’odierno sfruttamento capitalistico.
Il permesso di soggiorno, per i migranti della “Castel Volturno
Area”, così come per tutti gli altri, è un argine alle pretese
sempre più massacranti e alienanti del capitale e quindi uno
strumento di contrattazione sul lavoro che può riflettersi
positivamente sulle condizioni dell’intera classe lavoratrice.
Nella fase della totalizzazione del rapporto di capitale,
in cui i confini della produzione si dissolvono nell’intera vita
sociale e viceversa, non ha più senso tener alti gli steccati
che hanno separato la lotta economica da quella
politica; ciò non per un anacronismo della prima che sposta
tutto lo scontro nella dimensione della seconda, ma perché
c’è un tenersi
insieme delle due cose. […] la lotta politica è null’altro che
la lotta economica del proletariato, condotta però
coerentemente, in tutta la sua estensione; così come la lotta
economica è null’altro che la lotta politica nel suo nocciolo
fondamentale, ovvero quando parte dalla materialità stessa della
contraddizione[15].
In quest’ottica il permesso di
soggiorno è sicuramente una rivendicazione economica, strumento
di contrattazione e di miglioramento delle condizioni dei
migranti e dell’intera classe, ma al tempo stesso esprime una
capacità di ricomposizione di quest’ultima che, nella fase in
cui stiamo, può sembrare difficile ricondurre ad una lotta
per il potere, ma va comunque nella direzione della crescita
anche politica del proletariato e della difficile conquista
della legittimazione del per sé:
se si considera
l’insieme delle lotte economiche storicamente prodottesi e il
processo generale dell’auto-difesa dell’in
sé operaio, allora non sarà difficile rinvenire in questo
movimento storico il formarsi faticoso di quel
per sé che corrisponde
al “porsi della classe e dello schieramento di classe, della
lotta di classe e più su della teoria rivoluzionaria, delle
rotture rivoluzionarie, del comunismo”[16].
Siamo dunque su una linea ben
lontana sia dal ritenere vinta la battaglia sul valore che
dall’esaltazione della soggettività migrante di Negri ed Hardt;
per certi aspetti si ritengono molto più attuali le parole con
cui Marx nei Manoscritti economico filosofici del 1844
descrive l’alienazione, che scegliamo di riportare qui in buona
parte:
«Quanto più l’operaio si consuma nel lavoro, tanto più potente
diventa il mondo estraneo, oggettivo, che egli si crea dinanzi
[…]. L’operaio ripone la sua vita nell’oggetto; ma d’ora in poi
la sua vita non appartiene più a lui, ma all’oggetto»
che
«diventa di fronte a lui una potenza per se stante; significa che la
vita che egli ha dato all’oggetto, gli si contrappone ostile ed
estranea […] quanto più l’operaio produce, tanto meno ha da
consumare; quanto maggior valore produce, tanto minor valore e
minore dignità egli possiede». Tale lavoro
«produce palazzi, ma
per l’operaio spelonche. Produce bellezza, ma per l’operaio
deformità. Sostituisce il lavoro con macchine, ma ricaccia una
parte degli operai in un lavoro barbarico e trasforma l’altra
parte in macchina […] Se prodotto del lavoro è l’alienazione, la
produzione stessa deve essere alienazione attiva [...]. L’attività
dell’operaio non è la sua propria attività. Essa appartiene ad
un altro; è la perdita di sé». Infine,
«il lavoro estraniato
strappando all’uomo l’oggetto della sua produzione, gli strappa
la sua vita di essere appartenente ad una specie». In
conclusione,
«L’appropriazione si presenta come estraniazione, come
alienazione, e l’alienazione come appropriazione, la condizione
di straniero come la vera cittadinanza»[17].
Il significato specifico che
Marx attribuisce qui ai termini che utilizza sarà sicuramente
mutato e da aggiornare, ma il senso generale della citazione
ancora inquadra bene il rapporto di alienazione che colpisce il
proletariato attuale e quel suo segmento particolare che sono
gli immigrati. L’in sé del proletario immigrato su cui ci
siamo soffermati è al tempo stesso un essere per il
capitale nelle sue determinazioni più immediate, come il datore
di lavoro, la casa dove risiede in affitto, il prodotto della
sua attività e gli arnesi che eventualmente usa; ma anche nelle
sue astrazioni più generali, come l’Individuo Produttivo
Sociale.
La dialettica tra l’in sé
e il per altro non porta mai alla risoluzione totale
della contraddizione ma al più al ridimensionamento temporaneo
di un elemento rispetto all’altro; d’altra parte è da questi
processi rivendicativi che partono da bisogni reali, dalla
rivendicazione di un permesso di soggiorno all’ac-cesso a forme
di reddito, e non solamente dai movimenti della coscienza, che
possono nascere lentamente i meccanismi di affermazione del
per sé come negazione del per altro e come
superamento dell’in sé.
LUGLIO 2013
[1]
Medici Senza Frontiere – Missione Italia, I Frutti
dell’ipocrisia. Storie di chi l’agricoltura la fa. Di
nascosto, 2005, p. 6, in:
http://www.medicisenzafrontiere.it/Immagini/file/pubblicazioni/RAPPORTO_frutti_ipocrisia.pdf
[2]
L. Pradella, L’attualità del Capitale, Il
Poligrafo, Padova 2010, p. 346.
[3] Decreto legislativo n. 251/2007, in: http://www.programmaintegra.it/modules/dms/file_retrieve.php?function=view&obj_id=1653.
[4]
Decreto legislativo n. 140/05, in:
http://www.parlamento.it/parlam/leggi/deleghe/05140dl.htm.
[5]
K. Marx, Il Capitale, Newton Roma, 1996, p. 511.
[6]
Ibidem, pp. 402-403.
[7]
ReteRADICI, Dossier Radici / Rosarno, 2011, p.
22, in:
http://www.stopndrangheta.it/file/stopndrangheta_1084.pdf .
[8]
Cfr. La totalizzazione del
rapporto di capitale, dello stesso autore,
pubblicato sul numero 09 della rivista [N.d.R].
[9]
A. De Jaco, Inchiesta su un Comune meridionale ,
Editori Riuniti, Roma 1972, p. 42.
[10]
F. Erbani, «
[11]
G. Poletti (Missionari Comboniani di Castel Volturno),
“Castel Volturno: inferno o laboratorio del futuro?”,
07/11/ 2006, in: italy.peacelink.org.
[12]
K. Marx cit., p. 182.
[13]
Ibidem, p. 203.
[14]
Medici Senza Frontiere – Missione Italia,
cit., p. 50.
[15]
Due o tre cosette da ripensare insieme, in
Officina n. 9, marzo 1993, p. 2.
[16]
Dialettica dell’antagonismo, in Officina
n. 8, marzo – aprile 1992, p. 21.
[17]
K. Marx, Manoscritti economico filosofici
del 1844, in: K. Marx, Le opere che hanno cambiato il mondo,
Newton Roma, 2011, pp. 85-92.