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Ottobre 2013

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Transizione

LA TRANSIZIONE DELL'ITALIA INTERNA E IL CROLLO DELLE SOCIETà COMPLESSE

Alla ricerca dell'umanesimo delle montagne e del Mediterraneo interiore

Massimo Ammendola

 

La luna e i calanchi, un anno di azioni paesologiche: ad Aliano, in provincia di Matera, in mezzo al silenzio chiaro e surreale dei calanchi, formazioni argillose di rara bellezza che regalano un aspetto lunare a quell’angolo di Basilicata.

Un festival di paesologia, un potpourri di musica, poesia, silenzi, comizi, racconti. Tanto belli e tanto ricchi da farti stare seduto per un giorno intero su una poltroncina di un auditorium, senza troppe difficoltà, affascinato dallo strano mix di versi, note e discorsi. Tanto coinvolgenti e tanto potenti da tenerti incollato per terra nelle notti umide di fine estate per parecchie ore. E c’è chi ha resistito fino all’alba, davanti alla tomba di Carlo Levi. Una comunità provvisoria, quella di Aliano. Guidata dal suo vate, il maestro elementare, poeta e paesologo Franco Arminio. Ma cos’è la paesologia? Un mix di poesia, antropologia e geografia, una materia «inesistente quanto necessaria», oggigiorno.

Da quando si è inventato la paesologia, tutti si avvicinano a lui come se fosse uno scienziato importante: i sindaci dei paesini gli vanno a stringere la mano, lui è “Il paesologo”.

Ma sotto sotto è uno specchietto per le allodole. La paesologia è solo un modo di guardare al mondo e alla vita, cercando la bellezza, cercando di costruire comunità, in ogni momento della giornata. È un modo di girare e dare attenzione a paesi e città, campagne e periferie, con occhi nuovi, sensibili, critici, compassionevoli, senza filtri, «senza ansie di denuncia». Camminare in questi luoghi per cogliere i segni della “peste” e dell’“autismo corale”, ma anche quelli di una futura guarigione. Recuperare il rapporto con la terra, con le radici, col Sud. Portando con se l’apertura mentale e la nuova sensibilità che sta fiorendo in queste generazioni post-tutto, per vivere meglio, per vivere davvero. Il mondo è morto, ma possiamo ricostruirlo. E serve la poesia, la fotografia, la scrittura, l’arte. E ci vogliono progetti, collegamenti. Ci vogliono persone, sinergie. Non dobbiamo perderci, una volta che ci siamo incontrati. Per tornare a riempire il paese, la piazza, per accudire il mondo, per essere partigiani della buona vita. E perché fa bene allo spirito. Questo dice Franco Arminio. Ed io sottoscrivo.

Ad Aliano è stato ribattezzato “Padre Pio” da almeno due dei bambini presenti, che guardando statue e statuette del santo presenti nelle piazze e nelle case di Aliano, vi notavano una certa mistica somiglianza: «Ho capito chi è quello della statua in piazza! È FrancArminio!». La voce della verità, come si suol dire. Questi bambini avranno di certo sentito la potenza spirituale del paesologo, fervente credente della bellezza.

Il festival di Aliano è infatti la poesia che si fonde alla politica. Ogni scelta è politica, e quindi anche scegliere la bellezza è una scelta politica, dalla forza sorprendente.

In mezzo a incessanti rappresentazioni di ogni forma d’arte, il centro della tre giorni sono stati senz’altro i Parlamenti comunitari sull’Italia interna, nell’Auditorium dei calanchi.

Franco li ha voluti perché tutti portassero la loro visione, la loro testimonianza. C’erano grandi nomi, come lo storico dell’ambiente Piero Bevilacqua, il sociologo Franco Cassano e l’ex ministro Fabrizio Barca, e c’erano nomi sconosciuti ai più, intellettuali del Sud, più o meno consapevoli di esserlo, di esser precursori di qualcosa di nuovo.

Tutti lì, pungolati dalla riflessione politico-paeso-logica al centro degli ultimi libri del poeta, in particolare Geografia commossa dell’Italia interna[1] e Terracarne[2]: i paesi interni si svuotano, muoiono. Nelle grandi e mostruose città invece non si vive, a malapena si sopravvive, da soli, in un chiassoso silenzio.

 

La situazione non è più sostenibile, non solo perché non ci sono prospettive di lavoro per le nuove generazioni e perché il pianeta con questo modello economico rischia di avere non più di due secoli di vita. La situazione è insostenibile dentro la testa delle persone. L’inferno più grande è lì dentro, è nella enorme confusione che ha preso le coscienze, nella labilità e volatilità dei desideri, nell’impazienza che è diventata il vero governo delle cose. E nello scontento che domina ogni scelta[3].

 

E lo sentiamo tutti ormai, che le nostre vite, i nostri ritmi, sono diventati insostenibili. Sopravviviamo, correndo stressati a destra e a manca. La vita vola via così, freneticamente, e non ce ne accorgiamo. Succede anche che fai un figlio, ed all’improvviso ti accorgi che è diventato adulto. Sprechiamo la vita a lavorare, sperando ogni mattina che sia domenica. Invece di sfruttare le macchine per liberarci il tempo dal lavoro, la tecnologia è servita per tenerci ancora più sotto torchio, sempre reperibili e produttivi, anche quando non siamo propriamente in servizio. È aumentata l’efficienza, a discapito del riposo e della vita sociale, logorando ancor di più i già vacillanti legami comunitari. A che serve lavorare e basta? Per guadagnare soldi che ci servono per consumare sprecando, in un modello che non produce benessere, perdendo di vista la nostra vita, il tempo, le relazioni, ma anche l’ambiente?[4]

Si sente ovunque, ormai, una profonda insofferenza, ci pare che non ci sia un’alternativa, proseguiamo a testa bassa. Ma dobbiamo cambiare prima noi stessi, le nostre abitudini e pigrizie, avviare una radicale trasformazione personale, un cammino di liberazione. Battiato lo diceva già decenni fa: ci vuole un’altra vita.

E allora possiamo tornare nell’Italia interna, non farla morire, dobbiamo svuotare i grandi centri inquinati, dove la vita non è più ospite gradita[5], «dobbiamo svuotare le coste e riportare le persone in montagna. L’Italia interna può diventare il laboratorio di un umanesimo delle montagne: basta che terra e cultura siano più rilevanti di cemento e uffici, canti e teatro al posto delle betoniere»[6]. Nello scorso secolo le persone si sono mosse dalle campagne, dalle colline e dalle montagne, abbagliate dalle luci delle città grandi della costa e dal consumismo nascente, lasciando un mondo di fatica e di terra, ma anche una cultura contadina e una vita associata, mentre i nuovi luoghi urbani, spesso brutti, si sono rivelati inadatti a costruire una cultura collettiva, anzi si sono dimostrati proprio il contrario, distruttori di comunità.

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Il futuro forse non arriverà da fuori, ma sbucherà dalle nostre vene. Dobbiamo immaginare che qui ed ora siamo in un luogo nevralgico, perché viviamo contemporaneamente il fallimento della modernità e quello della civiltà contadina. È da questo doppio fallimento che può uscire l’idea per un nuovo umanesimo delle montagne. Qui dove non è mai riuscito niente può accadere l’impensato[7].

 

E come diceva Piero Bevilacqua dobbiamo rimettere al centro lo star bene, il cibo, la cultura, le feste, la comunità; in una società che esalta i mezzi e dimentica i fini, andiamo ai fini, resistiamo così. Sono queste le idee per il nuovo Umanesimo delle montagne, per il Mediterraneo interiore. Intrecciare politica e poesia, economia e cultura, scrupolo e utopia.

 

Solo noi abitiamo il Mediterraneo interiore, la colonna vertebrale che è il nostro Appennino. Da qui può partire un nuovo modo di vivere i luoghi, radicalmente ecologico, improntato a un’idea di comunità inclusiva del respiro degli uomini e dell’ambiente[8].

 

Questa potrà essere la nostra transizione. L’Italia interna potrebbe diventare una galassia composta da paesi somiglianti alle Transition Towns immaginate da Rob Hopkins, il fondatore del movimento della Transizione[9], che nell’epoca degli sconvolgimenti climatici e delle possibili crisi petrolifera ed agricola, mira a creare un’autosufficienza alimentare ed energetica, per staccarsi dalla grande distribuzione, partendo proprio dai piccoli centri. È da lì che si riparte, incontrandosi, formando delle piccole e calorose comunità. Le città sono le brutte figlie del capitalismo, del consumo e dello sviluppo infinito, sono stracolme di persone, inquinamento e cemento, hanno nascosto la terra e il verde in isolati e piccoli parchi, mentre l’aria ovunque è irrespirabile. E non possono autoprodursi più il cibo, per mancanza di terra, visto che dove ce n’è ancora, ormai è inquinata e non più fertile. Sono grandi moloch costretti ad esser attaccati alle flebo della grande distribuzione, che per farci cibare succhiano dalle campagne imbottite di fertilizzanti chimici, antiparassitari e fitofarmaci, che tengono alta la produttività, ma abbassano la fertilità della terra, inquinandola, mineralizzandola, molto spesso fino alla sterilità.

L’agricoltura industriale produce deserti, oltre a frutta e verdura gonfia e senza sapore. La terra ha bisogno di nutrimento organico, ha bisogno di piante per fare il sovescio, leguminose, crucifere e graminacee da fare appassire nel terreno, per restituire materia organica, azoto, potassio e fosforo. E la terra ha bisogno di letame, tanto letame, e quindi abbiamo bisogno di animali. Pare che ce ne siamo dimenticati, non vogliamo più sporcarci le mani, forse non sappiamo neanche più com’è fatta una vacca o una capra. Lo sfruttamento della terra non deve essere forsennato, non si può prendere sempre senza mai dare.

 

Nella terra dovrebbe avvenire una nuova alleanza. I giovani insieme agli anziani, gli uomini e le donne. Bisogna dare alla parola contadino un prestigio che non ha mai avuto. In televisione oltre all’andamento della borsa si dovrebbe parlare dello stato del raccolto. L’unica avvertenza che mi sento di introdurre è che la terra non deve diventare una nuova retorica e così pure l’ecologia o lo sviluppo sostenibile o la decrescita. Lavorare in agricoltura non risolve niente se l’idea di fondo rimane quella del ricavo, se l’economia rimane il centro di tutto. Quando parlo di nuovo umanesimo delle montagne vagheggio una società in cui l’uomo si decentra, dismette vecchie e nuove arroganze, facendosi creatura tra le creature e non velleitario padrone di tutto[10].

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E l’idea di decentramento, di decomplessificare, di rendere più semplice, che è a mio parere il punto di raccordo tra la visione di Franco Arminio e la transizione. Una transizione verso un altro modello di società ci dovrà essere per forza, questa è insostenibile e in crisi; sta a noi scegliere se provare ad attuare questa transizione dolcemente, o subirla violentemente. Ce lo dice anche la storia, ce lo dice il crollo delle società complesse, in particolare Joseph Tainter[11], nel suo The Collapse of Complex Societies[12], ha mostrato come una società crescendo tende ad aumentare il suo livello di complessità: ad ogni crisi crescono tutte le strutture economiche, sociali, burocratiche e militari. Ovviamente la complessità ha un costo. Più strutture complesse si creano, più si mette sotto stress l’economia della società che deve supportarle.

Il punto cruciale della faccenda, secondo Tainter, è la contraddizione che si crea quando il problema da risolvere è la scarsità di risorse. La società cerca di risolvere il problema della scarsità creando strutture che lo aggravano. A lungo andare, è questa contraddizione che genera il collasso, un destino comune a tutte le società che conosciamo nella storia umana[13]. Ma la cosa interessante è che il collasso si risolve spesso in forme più semplici di società, ovvero proprio ciò di cui avremmo bisogno noi oggi. Per salvarci, come suggerisce il chimico Ugo Bardi, dovremmo al più presto sostituire la nostra base economica, passando da un’economia basata sui combustibili fossili, a una basata su risorse rinnovabili.

Un modello esemplificativo del collasso è quello delle bolle che si staccano: ad esempio il distacco delle città coloniali dalle città madre nell’epoca antica. Quando il sistema delle città-stato greche si approssimava al proprio limite, una parte di esse si staccava e colonizzava altri territori.

Fattori come l’esaurimento delle risorse, l’elevarsi del grado di inquinamento e l’aumento del costo della macchina sociale, sono indizi del collasso incipiente: lo sfaldamento dell’Impero romano ne è un esempio. In tempo di crisi, i Romani provarono a passare da un’economia basata sulle conquiste militari a una basata sull’agricoltura. Non ci riuscirono, anzi distrussero l’agricoltura con tasse e sovrasfruttamento del suolo. Ma c’è una differenza sostanziale tra Impero romano d’Occidente e Impero romano d’Oriente: il primo è imploso completamente ed è finito sotto la pressione dei “barbari”, il secondo invece è stato capace di reinventarsi e resistere per altri mille anni, in forme diverse dall’originaria, anche perché decise di affidare le terre da coltivare ai soldati rientrati dalle zone di confine. Sfruttarono quindi la resilienza, concetto riportato in auge dalle Transition Towns, che implica la riscoperta della capacità di vivere più con l’ausilio di risorse locali che con l’ausilio di risorse provenienti da lontano. La prospettiva del Transition Network è proprio quella di mettere al centro i piccoli paesi, le comunità locali, ripensare la struttura edilizia, con le case passive, materiali ecologici locali, decentralizzare la produzione energetica mediante eolico e fotovoltaico in rete, accorciare la filiera alimentare basandola sul concetto di “cibo locale” e naturale, oltre ad aumentare le capacità locali di curare le malattie, secondo un concetto di autonomia rispetto ai grandi centri urbani e alla grande distribuzione organizzata. Queste possono essere le idee da cui ripartire:  tornare ad amare la terra e noi stessi, e produrre ciò che davvero ci serve localmente, sul territorio, a partire dal cibo. L’economia parte, alla base, da un’eccedenza di energia fornita dal sole. Da lì inizia tutto: il cibo nasce combinando l’azione di sole, acqua e terra. Per tornare all’unità: umanità e natura sono falsamente scissi, da troppo tempo. Per tornare ad esser i veri creatori della nostra vita, per non esser più schiavi e distruttori, ma creatori di luce.

 

Ci sarà un giorno in cui stare al mondo per arricchirsi sembrerà una cosa volgare, una cosa per spiriti malati. E allora la desolazione che c’è adesso nei paesi diventerà un’altra cosa. Il mondo vivrà un’altra globalizzazione, una globalizzazione lirica. Avremo, come sempre, motivi di gioia e motivi di sofferenza, ma non saremo tanto soli come adesso, impareremo di nuovo a sentire la terra su cui poggiamo i piedi e a provare una sincera simpatia per tutte le creature del creato[14].

 

E allora ognuno immagini, racconti ed inizi a costruire la sua Italia interna futura, così come sta facendo e ci invita a fare Franco Arminio. Scambiamoci visioni, creiamo un nuovo lessico politico, immaginiamo nuove forme di vita, ed osiamo, sperimentiamole. Immaginare ciò che non c’è, l’utopia, sognarla, e partorirla, viverla. E può darsi che insieme la creiamo, una nuova “Italia Interiore”. O meglio, la nostra Terra “Interiore”.

 

SETTEMBRE 2013

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[1] F. Arminio, Geografia commossa dell’Italia interna, Mondadori, Milano 2013.

[2] F. Arminio, Terracarne, Mondadori, Milano 2011.

[4] Cfr. M. Ammendola, «Il lavoro rende liberi»?, in «Città Future» n. 8, Ottobre 2012, http://www.cittafuture.org/08/10-Il-lavoro-rende-liberi.html

[9] Cfr. M. Ammendola, Transition towns, le città di trasizione, in «Città Future» n. 9, Gennaio 2013, http://www.cittafuture.org/09/08-Tranzition-towns.html

[10] F. Arminio, La religione della terra, postfazione in Ritorno alla terra. Guida alla cooperazione per i giovani [titolo provvisorio], La Scuola di Pitagora editrice, Napoli 2014.

[11] Santa Fé Institute e Utah State University.

[12] New York & Cambridge, 2003.

[13] U. Bardi, Le cassandre di Barcellona: Joseph Tainter e il collasso della società, http://ugobardi.blogspot.it/2010/10/le-cassandre-di-barcellona-tainter-e-il.html

[14] F. Arminio, Geografia commossa dell’Italia interna, cit., p.76.