Transizione
LA TRANSIZIONE DELL'ITALIA INTERNA E IL CROLLO DELLE SOCIETà COMPLESSE
Alla ricerca dell'umanesimo delle montagne e del Mediterraneo interiore
Massimo Ammendola
La luna e i calanchi,
un anno di azioni paesologiche: ad Aliano, in provincia di
Matera, in mezzo al silenzio chiaro e surreale dei calanchi,
formazioni argillose di rara bellezza che regalano un aspetto
lunare a quell’angolo di Basilicata.
Un festival di paesologia, un
potpourri di musica,
poesia, silenzi, comizi, racconti. Tanto belli e tanto ricchi da
farti stare seduto per un giorno intero su una poltroncina di un
auditorium, senza troppe difficoltà, affascinato dallo strano
mix di versi, note e discorsi. Tanto coinvolgenti e tanto
potenti da tenerti incollato per terra nelle notti umide di fine
estate per parecchie ore. E c’è chi ha resistito fino all’alba,
davanti alla tomba di Carlo Levi. Una comunità provvisoria,
quella di Aliano. Guidata dal suo vate, il maestro elementare,
poeta e paesologo Franco Arminio. Ma cos’è la paesologia? Un mix
di poesia, antropologia e geografia, una materia «inesistente
quanto necessaria», oggigiorno.
Da quando si è inventato la
paesologia, tutti si avvicinano a lui come se fosse uno
scienziato importante: i sindaci dei paesini gli vanno a
stringere la mano, lui è “Il paesologo”.
Ma sotto sotto è uno specchietto
per le allodole. La paesologia è solo un modo di guardare al
mondo e alla vita, cercando la bellezza, cercando di costruire
comunità, in ogni momento della giornata. È un modo di girare e
dare attenzione a paesi e città, campagne e periferie, con occhi
nuovi, sensibili, critici, compassionevoli, senza filtri, «senza
ansie di denuncia». Camminare in questi luoghi per cogliere i
segni della “peste” e dell’“autismo corale”, ma anche quelli di
una futura guarigione. Recuperare il rapporto con la terra, con
le radici, col Sud. Portando con se l’apertura mentale e la
nuova sensibilità che sta fiorendo in queste generazioni
post-tutto, per vivere meglio, per vivere davvero. Il mondo è
morto, ma possiamo ricostruirlo. E serve la poesia, la
fotografia, la scrittura, l’arte. E ci vogliono progetti,
collegamenti. Ci vogliono persone, sinergie. Non dobbiamo
perderci, una volta che ci siamo incontrati. Per tornare a
riempire il paese, la piazza, per accudire il mondo, per essere
partigiani della buona vita. E perché fa bene allo spirito.
Questo dice Franco Arminio. Ed io sottoscrivo.
Ad Aliano è stato ribattezzato
“Padre Pio” da almeno due dei bambini presenti, che guardando
statue e statuette del santo presenti nelle piazze e nelle case
di Aliano, vi notavano una certa mistica somiglianza: «Ho capito
chi è quello della statua in piazza! È FrancArminio!». La voce
della verità, come si suol dire. Questi bambini avranno di certo
sentito la potenza spirituale del paesologo, fervente credente
della bellezza.
Il festival di Aliano è infatti
la poesia che si fonde alla politica. Ogni scelta è politica, e
quindi anche scegliere la bellezza è una scelta politica, dalla
forza sorprendente.
In mezzo a incessanti
rappresentazioni di ogni forma d’arte, il centro della tre
giorni sono stati senz’altro i Parlamenti comunitari sull’Italia
interna, nell’Auditorium dei calanchi.
Franco li ha voluti perché tutti
portassero la loro visione, la loro testimonianza. C’erano
grandi nomi, come lo storico dell’ambiente Piero Bevilacqua, il
sociologo Franco Cassano e l’ex ministro Fabrizio Barca, e
c’erano nomi sconosciuti ai più, intellettuali del Sud, più o
meno consapevoli di esserlo, di esser precursori di qualcosa di
nuovo.
Tutti lì, pungolati dalla
riflessione politico-paeso-logica al centro degli ultimi libri
del poeta, in particolare
Geografia commossa dell’Italia interna[1]
e Terracarne[2]:
i paesi interni si svuotano, muoiono. Nelle grandi e mostruose
città invece non si vive, a malapena si sopravvive, da soli, in
un chiassoso silenzio.
La situazione
non è più sostenibile, non solo perché non ci sono prospettive
di lavoro per le nuove generazioni e perché il pianeta con
questo modello economico rischia di avere non più di due secoli
di vita. La situazione è insostenibile dentro la testa delle
persone. L’inferno più grande è lì dentro, è nella enorme
confusione che ha preso le coscienze, nella labilità e
volatilità dei desideri, nell’impazienza che è diventata il vero
governo delle cose. E nello scontento che domina ogni scelta[3].
E lo sentiamo tutti ormai, che
le nostre vite, i nostri ritmi, sono diventati insostenibili.
Sopravviviamo, correndo stressati a destra e a manca. La vita
vola via così, freneticamente, e non ce ne accorgiamo. Succede
anche che fai un figlio, ed all’improvviso ti accorgi che è
diventato adulto. Sprechiamo la vita a lavorare, sperando ogni
mattina che sia domenica. Invece di sfruttare le macchine per
liberarci il tempo dal lavoro, la tecnologia è servita per
tenerci ancora più sotto torchio, sempre reperibili e
produttivi, anche quando non siamo propriamente in servizio. È
aumentata l’efficienza, a discapito del riposo e della vita
sociale, logorando ancor di più i già vacillanti legami
comunitari. A che serve lavorare e basta? Per guadagnare soldi
che ci servono per consumare sprecando, in un modello che non
produce benessere, perdendo di vista la nostra vita, il tempo,
le relazioni, ma anche l’ambiente?[4]
Si sente ovunque, ormai, una
profonda insofferenza, ci pare che non ci sia un’alternativa,
proseguiamo a testa bassa. Ma dobbiamo cambiare prima noi
stessi, le nostre abitudini e pigrizie, avviare una radicale
trasformazione personale, un cammino di liberazione. Battiato lo
diceva già decenni fa: ci vuole un’altra vita.
E allora possiamo tornare
nell’Italia interna, non farla morire, dobbiamo svuotare i
grandi centri inquinati, dove la vita non è più ospite gradita[5], «dobbiamo
svuotare le coste e riportare le persone in montagna. L’Italia
interna può diventare il laboratorio di un umanesimo delle
montagne: basta che terra e cultura siano più rilevanti di
cemento e uffici, canti e teatro al posto delle betoniere»[6]. Nello scorso
secolo le persone si sono mosse dalle campagne, dalle colline e
dalle montagne, abbagliate dalle luci delle città grandi della
costa e dal consumismo nascente, lasciando un mondo di fatica e
di terra, ma anche una cultura contadina e una vita associata,
mentre i nuovi luoghi urbani, spesso brutti, si sono rivelati
inadatti a costruire una cultura collettiva, anzi si sono
dimostrati proprio il contrario, distruttori di comunità.
Il futuro forse
non arriverà da fuori, ma sbucherà dalle nostre vene. Dobbiamo
immaginare che qui ed ora siamo in un luogo nevralgico, perché
viviamo contemporaneamente il fallimento della modernità e
quello della civiltà contadina. È da questo doppio fallimento
che può uscire l’idea per un nuovo umanesimo delle montagne. Qui
dove non è mai riuscito niente può accadere l’impensato[7].
E come diceva Piero Bevilacqua
dobbiamo rimettere al centro lo star bene, il cibo, la cultura,
le feste, la comunità; in una società che esalta i mezzi e
dimentica i fini, andiamo ai fini, resistiamo così. Sono queste
le idee per il nuovo Umanesimo delle montagne, per il
Mediterraneo interiore. Intrecciare politica e poesia, economia
e cultura, scrupolo e utopia.
Solo
noi abitiamo il Mediterraneo interiore, la colonna vertebrale
che è il nostro Appennino. Da qui può partire un nuovo modo di
vivere i luoghi, radicalmente ecologico, improntato a un’idea di
comunità inclusiva del respiro degli uomini e dell’ambiente[8].
Questa potrà essere la nostra
transizione. L’Italia interna potrebbe diventare una galassia
composta da paesi somiglianti alle Transition Towns immaginate
da Rob Hopkins, il fondatore del movimento della Transizione[9], che
nell’epoca degli sconvolgimenti climatici e delle possibili
crisi petrolifera ed agricola, mira a creare un’autosufficienza
alimentare ed energetica, per staccarsi dalla grande
distribuzione, partendo proprio dai piccoli centri. È da lì che
si riparte, incontrandosi, formando delle piccole e calorose
comunità. Le città sono le brutte figlie del capitalismo, del
consumo e dello sviluppo infinito, sono stracolme di persone,
inquinamento e cemento, hanno nascosto la terra e il verde in
isolati e piccoli parchi, mentre l’aria ovunque è irrespirabile.
E non possono autoprodursi più il cibo, per mancanza di terra,
visto che dove ce n’è ancora, ormai è inquinata e non più
fertile. Sono grandi moloch costretti ad esser attaccati alle
flebo della grande distribuzione, che per farci cibare succhiano
dalle campagne imbottite di fertilizzanti chimici,
antiparassitari e fitofarmaci, che tengono alta la produttività,
ma abbassano la fertilità della terra, inquinandola,
mineralizzandola, molto spesso fino alla sterilità.
L’agricoltura industriale
produce deserti, oltre a frutta e verdura gonfia e senza sapore.
La terra ha bisogno di nutrimento organico, ha bisogno di piante
per fare il sovescio, leguminose, crucifere e graminacee da fare
appassire nel terreno, per restituire materia organica, azoto,
potassio e fosforo. E la terra ha bisogno di letame, tanto
letame, e quindi abbiamo bisogno di animali. Pare che ce ne
siamo dimenticati, non vogliamo più sporcarci le mani, forse non
sappiamo neanche più com’è fatta una vacca o una capra. Lo
sfruttamento della terra non deve essere forsennato, non si può
prendere sempre senza mai dare.
Nella terra
dovrebbe avvenire una nuova alleanza. I giovani insieme agli
anziani, gli uomini e le donne. Bisogna dare alla parola
contadino un prestigio che non ha mai avuto. In televisione
oltre all’andamento della borsa si dovrebbe parlare dello stato
del raccolto. L’unica avvertenza che mi sento di introdurre è
che la terra non deve diventare una nuova retorica e così pure
l’ecologia o lo sviluppo sostenibile o la decrescita. Lavorare
in agricoltura non risolve niente se l’idea di fondo rimane
quella del ricavo, se l’economia rimane il centro di tutto.
Quando parlo di nuovo umanesimo delle montagne vagheggio una
società in cui l’uomo si decentra, dismette vecchie e nuove
arroganze, facendosi creatura tra le creature e non velleitario
padrone di tutto[10].
E l’idea di decentramento, di
decomplessificare, di rendere più semplice, che è a mio parere
il punto di raccordo tra la visione di Franco Arminio e la
transizione. Una transizione verso un altro modello di società
ci dovrà essere per forza, questa è insostenibile e in crisi;
sta a noi scegliere se provare ad attuare questa transizione
dolcemente, o subirla violentemente. Ce lo dice anche la storia,
ce lo dice il crollo delle società complesse, in particolare
Joseph Tainter[11], nel suo
The Collapse of Complex
Societies[12],
ha mostrato come una società crescendo tende ad aumentare il suo
livello di complessità: ad ogni crisi crescono tutte le
strutture economiche, sociali, burocratiche e militari.
Ovviamente la complessità ha un costo. Più strutture complesse
si creano, più si mette sotto stress l’economia della società
che deve supportarle.
Il punto cruciale della
faccenda, secondo Tainter, è la contraddizione che si crea
quando il problema da risolvere è la scarsità di risorse. La
società cerca di risolvere il problema della scarsità creando
strutture che lo aggravano. A lungo andare, è questa
contraddizione che genera il collasso, un destino comune a tutte
le società che conosciamo nella storia umana[13]. Ma la cosa
interessante è che il collasso si risolve spesso in forme più
semplici di società, ovvero proprio ciò di cui avremmo bisogno
noi oggi. Per salvarci, come suggerisce il chimico Ugo Bardi,
dovremmo al più presto sostituire la nostra base economica,
passando da un’economia basata sui combustibili fossili, a una
basata su risorse rinnovabili.
Un
modello esemplificativo del collasso è quello delle bolle che si
staccano: ad esempio il distacco delle città coloniali dalle
città madre nell’epoca antica. Quando il sistema delle
città-stato greche si approssimava al proprio limite, una parte
di esse si staccava e colonizzava altri territori.
Fattori
come l’esaurimento delle risorse, l’elevarsi del grado di
inquinamento e l’aumento del costo della macchina sociale, sono
indizi del collasso incipiente: lo sfaldamento dell’Impero
romano ne è un esempio. In tempo di crisi, i Romani provarono a
passare da un’economia basata sulle conquiste militari a una
basata sull’agricoltura. Non ci riuscirono, anzi distrussero
l’agricoltura con tasse e sovrasfruttamento del suolo. Ma c’è
una differenza sostanziale tra Impero romano d’Occidente e
Impero romano d’Oriente: il primo è imploso completamente ed è
finito sotto la pressione dei “barbari”, il secondo invece è
stato capace di reinventarsi e resistere per altri mille anni,
in forme diverse dall’originaria, anche perché decise di
affidare le terre da coltivare ai soldati rientrati dalle zone
di confine. Sfruttarono quindi la resilienza, concetto riportato
in auge dalle Transition Towns, che implica la riscoperta della
capacità di vivere più con l’ausilio di risorse locali che con
l’ausilio di risorse provenienti da lontano. La prospettiva del
Transition Network è proprio quella di mettere al centro i
piccoli paesi, le comunità locali, ripensare la struttura
edilizia, con le case passive, materiali ecologici locali,
decentralizzare la produzione energetica mediante eolico e
fotovoltaico in rete, accorciare la filiera alimentare basandola
sul concetto di “cibo locale” e naturale, oltre ad aumentare le
capacità locali di curare le malattie, secondo un concetto di
autonomia rispetto ai grandi centri urbani e alla grande
distribuzione organizzata. Queste possono essere le idee da cui
ripartire: tornare
ad amare la terra e noi stessi, e produrre ciò che davvero ci
serve localmente, sul territorio, a partire dal cibo. L’economia
parte, alla base, da un’eccedenza di energia fornita dal sole.
Da lì inizia tutto: il cibo nasce combinando l’azione di sole,
acqua e terra. Per tornare all’unità: umanità e natura sono
falsamente scissi, da troppo tempo. Per tornare ad esser i veri
creatori della nostra vita, per non esser più schiavi e
distruttori, ma creatori di luce.
Ci sarà un giorno in cui stare al mondo per arricchirsi
sembrerà una cosa volgare, una cosa per spiriti malati. E allora
la desolazione che c’è adesso nei paesi diventerà un’altra cosa.
Il mondo vivrà un’altra globalizzazione, una globalizzazione
lirica. Avremo, come sempre, motivi di gioia e motivi di
sofferenza, ma non saremo tanto soli come adesso, impareremo di
nuovo a sentire la terra su cui poggiamo i piedi e a provare una
sincera simpatia per tutte le creature del creato[14].
E allora
ognuno immagini, racconti ed inizi a costruire la sua Italia
interna futura, così come sta facendo e ci invita a fare Franco
Arminio. Scambiamoci visioni, creiamo un nuovo lessico politico,
immaginiamo nuove forme di vita, ed osiamo, sperimentiamole.
Immaginare ciò che non c’è, l’utopia, sognarla, e partorirla,
viverla. E può darsi che insieme la creiamo, una nuova “Italia
Interiore”. O meglio, la nostra Terra “Interiore”.
SETTEMBRE 2013
[1]
F. Arminio,
Geografia commossa dell’Italia interna, Mondadori,
Milano 2013.
[2]
F. Arminio,
Terracarne, Mondadori, Milano 2011.
[3]
F. Arminio, La
luce che c’è oggi,
http://comunitaprovvisorie.wordpress.com/2011/10/20/la-luce-che-c%E2%80%99e-oggi/
[4]
Cfr. M. Ammendola,
«Il lavoro rende liberi»?, in «Città Future» n. 8, Ottobre 2012,
http://www.cittafuture.org/08/10-Il-lavoro-rende-liberi.html
[5]
Cfr. M. Ammendola,
Evacuateci. Il
genocidio della Terra dei Fuochi
ovvero
Il piano nazionale di smaltimento dei
rifiuti industriali in questo stesso numero.
[6]
F. Arminio,
L’Italia di dentro,
http://comunitaprovvisorie.wordpress.com/2013/07/13/litalia-di-dentro/
[7]
F. Arminio, Per un
umanesimo delle montagne,
http://comunitaprovvisoria.wordpress.com/2010/04/04/per-un-umanesimo-delle-montagne/
[8]
F. Arminio, Idee
per il Mediterraneo interiore,
http://www.cittafuture.org/articoli%20home/12-idee-per-il-Mediterraneo-interiore.html
[9]
Cfr. M. Ammendola,
Transition towns, le città di
trasizione, in «Città Future» n. 9, Gennaio 2013,
http://www.cittafuture.org/09/08-Tranzition-towns.html
[10]
F. Arminio, La
religione della terra, postfazione in
Ritorno alla
terra. Guida alla cooperazione per i giovani [titolo
provvisorio],
[11]
Santa Fé Institute e Utah State University.
[12]
New York & Cambridge, 2003.
[13]
U. Bardi, Le
cassandre di Barcellona: Joseph Tainter e il collasso
della società,
http://ugobardi.blogspot.it/2010/10/le-cassandre-di-barcellona-tainter-e-il.html
[14]
F. Arminio,
Geografia commossa dell’Italia interna, cit., p.76.