La città dell'uomo
LA DECOSTRUZIONE DELLA CITTà
Alessandro D'Aloia
È tempo di mettere al centro il vuoto,
di capire come togliere, come sottrarre. Un grande maestro
dell’architettura moderna affermò che “il meno è più (less is more)”.
Mentre in anni più recenti e post-moderni, l’idea del togliere si è
affacciata nuovamente nella discussione, ma solo per essere subito
negata in modo distorto in uno dei movimenti architettonici più alla
moda degli ultimi decenni: il decostruttivismo, ispirato al filone
filosofico derridiano del decostruzionismo. Bisogna notare come,
nell’epoca post-moderna, i principi fondativi delle nuove tendenze
architettoniche si siano sempre tradotti sostanzialmente in un credo
estetico, piuttosto che strutturale, con effetti anche opposti sul piano
della forma, ma sempre nella medesima assiomatica della crescita urbana.
In sostanza non si riesce mai a cogliere un significato urbanistico
delle teorie del costruire e ci si limita a trattazioni sempre più
sofisticate con ricadute inessenziali per un’idea della città che sia
anche idea di una società. È forse questo vuoto programmatico a
conferire un carattere alieno alla stragrande maggioranza degli
interventi contemporanei, che sono esibizioni di bulimia tecnologica
molto efficaci sul piano della spettacolarità, ma anche molto lontane
dalla vita quotidiana.
1. Decostruttivismo o decostruzione?
Il termine “decostruttivismo” è più
interessante della sua traduzione architettonica, nella quale esso non
significa de-costruire ma, all’opposto, costruire in stile
de-costruttivista. Se invece, più semplicemente, fosse preso alla
lettera, assumerebbe un valore molto più pregnante in relazione alla
città attuale. Allora lo si potrebbe intendere come necessità di tornare
sul costruito per decostruirlo fisicamente. La decostruzione potrebbe
intendersi come un’azione programmatica sul costruito volta a togliere
invece che ad aggiungere, a ridefinire il carattere dell’esistente non
in termini stilistici, ma di diversi rapporti tra pieno e vuoto nello
scacchiere urbano.
La decostruzione implicherebbe un
approccio critico nei confronti del costruito attuale, critica che,
stante l’assioma della crescita continua, non può che restare sospesa
fino a quando la città continuerà a crescere senza perché. È quando si
decide cosa togliere che si esercita una critica. Verrà forse un tempo
in cui si percepirà chiaramente che quanto realizzato negli ultimi
decenni non è all’altezza dello spazio che occupa. Forse la modernità
potrà avere coscienza di se stessa solo attraverso un’opera di
ripulitura senza precedenti, anche se probabilmente sarà la distruzione
e non la decostruzione della città a porre fine a questo tipo di storia
(anti)urbana, dal momento che la proliferazione di un’estetica
dell’orrido non potrà mai generare una sensibilità adeguata al compito.
In questi termini, decostruire potrebbe
essere l’ultimo appiglio per passare da una modernità subita ad una
modernità agita e per trasferire l’attenzione dal monumento al suo
contesto, cioè dall’oggetto architettonico al suo ambiente.
2. Liberare lo sguardo (dal brutto)
Se d’ora in poi si invertisse il punto
di vista cominciando a pensare in termini di de-costruzione, si potrebbe
guardare alla città con occhi nuovi. Invece di cercare gli ultimi vuoti
da riempire, si tratterebbe di individuare i troppi pieni da svuotare.
Per farlo sarebbe necessario acquisire una consapevolezza del brutto.
Saper vedere ciò che è brutto, mapparlo attentamente ed immaginare lo
spazio liberato da questi depositi alluvionali cementati. De-costruire
lo spazio urbano esterno ai perimetri primo-novecenteschi, a partire da
una mappa del brutto nell’esercizio di una critica storica attiva.
Liberare spazio dove se ne sente il
bisogno, scegliere cosa lasciare in piedi, per quali scopi e con quali
modifiche. Avviare una contestuale opera di re-migrazione della
popolazione nelle parti più vecchie e strutturate delle città e dei
paesi. Svuotare le periferie e riempire i centri.
Ristrutturare il rapporto tra spazio
domestico e pubblico, rendendolo più interdipendente. Questo può
significare meno spazio chiuso e più spazio aperto. Ripensare il modulo
abitativo minimo, riducendolo agli spazi necessari al riposo, la
riflessione e la toilette.
Eliminare soggiorni e cucine dalle case al fine di togliere
all’appartamento la sua dimensione di unità autonoma e, per questo,
indifferente a ciò che avviene fuori. Cioè portare la propria casa in
città piuttosto che cercare di replicare la città in ogni casa.
Quest’idea di avere a casa tutte le comodità urbane, la palestra, la
piscina, il bar, il teatro, il cinema, la sala concerti e quant’altro è
semplicemente autistica. Sventrare i condomini, aumentando gli spazi
condominiali e diminuendo quelli privati. Attrezzarli con grosse cucine
dove poter preparare i pranzi e le cene tutti insieme e con adeguati
spazi di mensa e soggiorno, in cui passare il tempo in compagnia e
conoscersi. Pensare i terrazzi delle costruzioni come isole di
socialità, dove organizzare quotidianamente banchetti serali per le cene
estive. Trasformare gli ultimi piani in terrazzi coperti per i convivi
invernali. Togliere un palazzo ogni dieci per creare dei cortili
intercondominiali dove spostare la mensa almeno una volta al mese, dove
organizzare il mercato dei prodotti locali e le attività ludiche dei
bambini e dove discutere sul come decostruire il resto della città. Si
pensi alla situazione assurda per la quale l’inquilino tipo di un
condominio non sa niente di chi abita sul suo medesimo pianerottolo. Si
pensi alla solitudine delle casalinghe e degli anziani, ma anche dei
bambini, rintanati nei loro appartamenti. Si pensi anche alla bruttezza
di un termine come appartamento, dispositivo del vivere appartati.
Trasformare un palazzo ogni nove
rimasti, in un parcheggio multilivello per gli altri otto. Ricavare
delle biblioteche comuni traslocando i propri libri in uno spazio
accessibile a tutti, dove anche i tomi possano incontrarsi. Ricavare
spazi per la musica e il teatro ogni mille abitanti, dove insegnare ed
apprendere le arti. Formare bande musicali di quartiere per
intrattenersi e ballare nelle strade. Rendere centrale il vuoto ed
instaurare con esso rapporti abitativi, relazioni immediate a portata di
vista. Estendere all’esterno la propria abitazione e abitare producendo
spazio. Si produce spazio anche attraverso la propria presenza fisica. I
corpi sono elementi dello spazio, in grado di renderlo luogo del
presente. L’assenza di corpi nello spazio è ciò che consegna un luogo al
passato. Se lo spazio si oppone al tempo come manifestazione autonoma,
il luogo è uno spazio non leggibile in assenza della dimensione
temporale, cioè al di là del movimento dei corpi al suo interno. Il
vuoto permettendo questo movimento, permette agli elementi materiali di
cui si compone lo spazio di partecipare alla definizione di un luogo,
alla sua nascita e alla sua vita.
3. Abitare il vuoto
Ma cosa può significare abitare il
vuoto? Intanto un vuoto per essere abitato deve essere delimitato,
altrimenti è un vuoto indifferenziato, senza dentro e senza fuori.
Abitare il vuoto, implica lo starci dentro. Il costruito è il suo
limite. Il costruito è architettura. Ma abitare il vuoto non può
significare semplicemente scorrerci dentro inseguendo un altrove.
Abitare un vuoto deve indicare una condizione di approdo. Il vuoto è uno
spazio in cui stare, diverso da una infrastruttura dell’andare. Una
città è una pietrificazione della dialettica tra andare e stare in cui,
salvo poche eccezioni, i vuoti risolvono la prima necessità e i pieni,
il costruito, la seconda. Allora decostruire non può non significare
anche cambiare i termini di questa dialettica storica. Ma affinché la
decostruzione risulti efficace, al punto in cui siamo giunti, essa deve
materializzarsi per difetto, non per addizione.
Lo spazio non è una creazione
dell’architettura. Esso esiste già. L’architettura è lo strumento
attraverso il quale si aggiunge una certa qualità allo spazio esistente.
In una certa misura essa è un moltiplicatore dello spazio abitabile,
data la sua capacità tecnica di trasformare lo spazio indifferenziato in
spazio dove vivere e la sua capacità di ripetizione modulare, ma
sostanzialmente essa non crea spazio, mentre lo occupa. Essa produce
trasformazioni in senso antropologico, ma lo spazio a disposizione è
limitato. Decostruire la città deve anche significare la coscienza di
questo limite, la consapevolezza che ciò che si va a trasformare è già
prezioso, per cui la trasformazione deve quanto meno aggiungere virtù
allo spazio che si va a produrre.
La città storica era sempre un
complemento specifico di un certo paesaggio di origine. La sua forma, ma
anche i materiali di cui era fatta, non erano mai indifferenti al
paesaggio. Essi lo continuavano senza la presunzione di ricrearlo. Per
questo motivo le città della storia erano tutte diverse ed uniche, a
differenza delle loro attuali periferie indifferenziate. Quello che è
saltato con la modernità è il rapporto virtuoso tra costruito e
paesaggio, entrati irrimediabilmente in conflitto.
4. Architetture invisibili
Se questo rapporto deve essere in
qualche modo recuperato, allora la nuova urbanistica è un’operazione di
sottrazione. Essa ha bisogno di architetture invisibili, fatte di metri
cubi con il segno meno davanti, in cui l’ingegneria è al servizio dello
smontare, fondata su una vera e propria teoria e tecnica della
de-costruzione. La rimozione della carcassa della Concordia
alluvionata sulla costa del Giglio può essere un esempio concreto della
difficoltà tecnica della rimozione di un deposito accidentale da un
paesaggio in sé concluso. Davvero questa vicenda è doppiamente
metaforica, simbolo dell’incagliamento megalomane del tardo capitalismo
e di un possibile nuovo inizio a partire dal rimuovere. Trasformare lo
spazio attuale attraverso architetture invisibili che producano nuove
visioni, prospettive inedite. Ridurre gli ambiti privati, aumentare
quelli pubblici. Ridurre le distanze fisiche tra le occupazioni, ma
interdire il lavoro domestico attraverso i contratti di fornitura
elettrica. Al massimo dodici ore di corrente per uso domestico e solo
per la notte. Si lavora fuori casa, con gli altri.
Programmare i computer perché non
funzionino più di quattro ore al giorno, meglio, fare in modo che
possano funzionare solo in luoghi appositi in cui si recano tutti coloro
che devono lavorare con un computer. Stare insieme mentre si lavora,
anche se si fa qualcosa di individuale. Chiedere agli altri cosa stanno
facendo, organizzare collaborazioni su attività simili. Concepire una
spazialità urbana che inviti ad assumere comportamenti collaborativi.
Aprire varchi, togliere muri, non solo di pietre, tra le persone.
Studiare i dispositivi di isolamento e le loro possibilità di essere
utilizzati in modi opposti, altrimenti eliminarli.
Rendere illegale la detenzione di
televisori. Riaprire le sale di proiezione e discutere di cosa
proiettare. Discuterne molto anche a costo di non proiettare nulla.
Procedere con mente sgombra e non per
rappresentazioni. Non modificare gli spazi con idee preconcette, solo
perché si vuole replicare in un luogo ciò che si è osservato in un
altro. Ogni luogo ha diritto alla sua propria forma. Pensare allo spazio
nelle sue quattro dimensioni, come qualcosa da riempire con i corpi e
non alla sua resa in due dimensioni come soggetto fotografico per
riviste.
Concentrare gli sforzi sulla città e
lasciare in pace il paesaggio superstite. Curare gli alberi e le vecchie
pietre. Riflettere sulla grandiosa capacità microclimatica delle piante.
Pensare architetture vegetali. Mettere fuori legge i condizionatori. Uno
spazio troppo caldo è sbagliato. Aggiustare tutto ciò che merita la
nostra attenzione.
Disporre le attività nello spazio urbano
in modo da rendere superflui gli spostamenti fuori dalla portata del
camminare. Rendere illegali tutte le attività esterne al proprio comune
di residenza e di conseguenza superflui gli arsenali privati di lamiera
verniciata su quattro ruote. Prendere una strada ogni dieci e interdirla
al traffico motorizzato. Ricordarsi dell’esistenza delle biciclette.
Organizzare gite fuori porta in autobus. Visitare il paesaggio.
5. Deframmentare il territorio
Potrebbe sembrare facile, ma ci vuole un
gran lavoro per decostruire. Se ne può avere un’idea quando capita di
essere costretti ad eliminare grandi quantità di file dalla memoria
rigida del proprio PC. Non ci vuole niente ad aggiungere, ad ammassare
dati e file anche inutili sul proprio hard disk vergine. È quando è
pieno che comincia il lavoro vero, quello dell’archiviazione e della
contestuale riscoperta di qualche perla dimenticata, tra la folla di
giga-byte che ottunde ormai anche il processore. Anche se la
metafora è inappropriata – dato che lo spazio reale non possiede
supporti fisici esterni in cui poter trasferire ciò che non si usa più –
può dare l’idea. Dopo aver liberato anche solo metà hard disk,
una certa sensazione di leggerezza pervade le giornate a seguire, in cui
sembra che si possa ripartire più forti di prima. De-costruire è
salutare. C’è un’altra operazione informatica che sembra suggerircelo:
la deframmentazione. Ognuno dovrebbe ogni tanto de-frammentare i propri
hard disk. C’è un’utilità di sistema apposita che permette di farlo.
Dopo un po’ di utilizzo i file si frammentano, diventano pulviscolo e
per leggerli il computer impiega molto più tempo del normale. Allora
l’applicazione interviene e riassembla ciò che è stato frammentato, e
tutto riprende a girare meglio. È una metafora meravigliosa di ciò che
servirebbe al territorio e non solo ad esso: una vasta, colossale opera
di deframmentazione. Bisogna immaginare questa grossa spazzola che
elimina il pulviscolo cementificato sul proprio supporto fisico,
rendendo ambiente ciò che è vuoto e città ciò che è costruito,
rimettendo le cose al loro posto e non sparse in giro senza ragione.
Anche le mappe catastali sono troppo
piene, è risaputo. De-frammentare il catasto è un’operazione vitale per
il corretto funzionamento della città.
Bisogna chiedersi come possano
funzionare bene le città, se non lo fanno neanche i computer quando il
loro contenuto è frammentato, oltre a chiedersi se il pianeta ce la può
ancora fare a continuare a girare su se stesso con tutto questo peso
addosso.
6. Forme del vuoto
Non è semplice capire come maneggiare il
vuoto. Utilizzarlo come principale materiale da costruzione richiede un
approccio fortemente progettuale. Il vuoto di cui si parla è quello
relativo al costruito. È, per così dire, un vuoto architettonico, non un
vuoto umano. La decostruzione si chiede semplicemente dove lasciare il
vuoto e dove aggiungerlo. Essa evita sempre di chiedersi dove toglierlo.
Con la stessa regola, tuttavia, si può
anche passare nella dimensione temporale. Ognuno dovrebbe fare un’opera
di de-costruzione anche della propria quotidianità. Le nostre giornate
sono troppo accelerate, hanno bisogno di pause. Bisogna prendere una
consistente dose di vuoto e piazzarla da qualche parte nella propria
giornata. Non ha molto senso de-costruire la città senza fare la stessa
cosa con le proprie giornate. C’è bisogno di alleggerire l’esistenza.
Anche i discorsi di scala sono
importanti. Se si guarda un paesaggio esso deve essere libero fin dove
lo sguardo lo può abbracciare. Se si guarda una città è più interessante
osservare una chiara differenza tra vuoti e pieni, una giusta dialettica
tra le due dimensioni. Se si guarda un quartiere e non si intravede un
vuoto, che è anche un centro, un polmone, allora si capisce subito che
qualcosa non va. Lo stesso accade se si guarda un isolato, completamente
pieno. Alla scala del singolo manufatto l’osservazione si fa chirurgica
fino ad individuare i muri di troppo, gli ostacoli alle prospettive e ai
percorsi in un condominio, ma anche in una casa. Le Corbusier immaginava
città su pilotis il cui piano terra fosse completamente
permeabile. A Bologna avevano già abbozzato l’idea con largo utilizzo di
portici, infatti Bologna è bella. Ci si deve chiedere come mai la
globalizzazione delle città abbia prodotto una ripetizione del brutto
piuttosto che del bello, e perché anche gli architetti siano così
schiavi del costruire, invece che profeti dell’abitare. Il cenno alla
storia è fondamentale. La storia del mondo è una storia urbana, è storia
di città. Il disurbanismo non è una teoria del costruttivismo sovietico
di inizio secolo, è una pratica del capitalismo agente in modo pervasivo
da più di mezzo secolo, che se non ha ancora completamente distrutto le
città ha cambiato il modo di fare città, sostituendolo con il fare delle
non-città, il cui principale elemento costitutivo è il non-luogo. Si
deve imparare da ciò che è sopravvissuto a questa immensa onda
alluvionale con epicentro in America e ancora attiva da molti decenni.
Una nazione nata dalla distruzione dei luoghi precedenti, non ha saputo
che concepire anche se stessa come negazione. A ben vedere tutto ciò che
l’America esporta è intimamente distruttivo nei confronti della storia e
del pianeta. Gli altri nel migliore dei casi stanno a guardare, nel
peggiore cercano di imitare. Ed è ciò che è successo in Europa, che ad
un tratto, senza neanche rendersene conto, ha considerato non moderne le
sue antiche città, assumendo lo stesso metro di giudizio dell’unica
nazione cresciuta sulla negazione dei luoghi.
7. Vuoti disciplinari
Gli architetti dovrebbero avere qualcosa
da dire sul territorio, sulla città, sulle politiche urbane e sui modi
di vivere, e non solo dispensare consigli sulla ringhiera di un balcone,
sul colore della facciata, sull’armonia della disposizione di un volume
e dei pieni e dei vuoti in una partitura muraria, o peggio ancora su
quale tappeto scegliere per il soggiorno.
L’urbanistica come disciplina normativa
va anch’essa decostruita complessivamente. Essa era grande quando
significava “disegnare la città” e il Mediterraneo ne era la culla, non
quando è divenuta puro complesso di norme volte a dire ai privati quanto
possono costruire. Vanno abolite le distanze minime tra edifici, reso
illegale il modello dell’abitazione in mezzo al lotto di terreno. Dire
che in campagna, o in ciò che ne resta, non si costruisce per niente.
C’è già abbastanza da riparare. È necessario interdire l’iniziativa
privata sul territorio. Il pubblico non deve solo mettere le regole, ma
deve progettare lo spazio urbano. I privati se vogliono possono
realizzare, e scegliere cosa realizzare, ma non come. Bisogna eliminare
la professione libera. I professionisti devono lavorare per il pubblico
su progetti urbani, stabilendo regole condivise e lavorando in gruppo,
non stare al soldo dei capricci di grossi e piccoli privati. Si lavora
per la comunità nel suo complesso, non per i suoi componenti facoltosi
ad uno alla volta, né per il successo personale. Le professioni hanno
bisogno di ritrovare un senso alla loro esistenza, il progetto ha
bisogno di ritrovare la propria autorevolezza. Bisogna democratizzare le
istituzioni di governo del territorio a partire da quelle statali, come
le Soprintendenze. Ogni tecnico di conformazione spaziale deve
partecipare alla sovrintendenza territoriale di appartenenza, a turno, e
in un quadro di regole discusse chiaramente ed esplicitate formalmente.
È necessario spersonalizzare le direzioni istituzionali al fine di
eliminare le collusioni con le pressioni politico-economiche e rimettere
al centro le ragioni del paesaggio. Urbanistica e tutela del paesaggio
devono diventare una sola cosa e non posizioni di potere differenti e in
crescente conflitto tra loro. Quest’idea che ogni regione si fa la
propria legge urbanistica è distorta, come lo è quella per cui i Comuni
e le loro popolazioni non debbano partecipare a svolgere la principale
opera di salvaguardia del loro territorio. Bisogna trovare nuovi
equilibri tra istanze locali e sovra-locali, e la popolazione residente
deve avere un ruolo determinante in quest’opera de-costruttiva.
È necessario rivalutare termini come
conservazione, imparare ad essere dei conservatori molto esigenti, che
selezionano scrupolosamente l’oggetto delle loro attenzioni, mettendo al
primo posto il territorio e i suoi paesaggi, al secondo posto le
calcificazioni urbane della storia e al terzo posto le poche espressioni
architettoniche nobili del novecento. Conservare come limite del
de-costruire. De-costruzione come la possibilità stessa di conservare
con coscienza.
SETTEMBRE 2013