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11
Ottobre 2013

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Esperienza e rappresentazione

UN (O)MAGGIO CRITICO A L'ALBUM BIANGO DI ELIO E LE STORIE TESE

NerioJamil Palumbo

 

Comunque agisca, l’intellettuale sbaglia. Egli sperimenta radicalmente, come una questione di vita, l’umiliante alternativa di fronte alla quale il tardo capitalismo mette segretamente tutti i suoi sudditi: diventare un adulto come tutti gli altri o restare un bambino.

(T. Adorno, Minima Moralia, Einaudi, Milano 2005, p. 155)

 

1. Una critica da bar baro

Beatles o Rolling Stones? Eric Clapton o Jimi Hendrix? Pink Floyd o Genesis? Si chiedevano.

Metallica o Iron Maiden? Massive Attack o Rage Against the Machine? Björk o Sinead O’Connor? Ci chiedevamo alle superiori. Tutt’ora mi ritrovo a chiedere ad alcuni dj se preferiscono Bob Marley o Stevie Wonder. Mi mandano a quel paese.

Sospetto da qualche tempo che, in generale, parlare e scrivere di musica con reale cognizione di causa siano cose impossibili, o quanto meno inutili.

Non c’è bisogno di spolverare le grandi estetiche del passato per capire come l’eterno fastidio di ogni artista per il suo “arcigno fratello” – il critico, lo scrittore – sia assolutamente ben fondato.

Ricordo Bene... vivere e contestualizzare (criticamente!) questo fastidio in modo ben più convincente, nonché più prosaico... ma tutto sommato era ed è un problema di mezzi.

Esistono critiche letterarie che – nell’irripetibile commistione di fondatezza filologica ed eleganza espositiva che le contraddistingue – divengono letteratura a loro volta, probabilmente perché il mezzo è lo stesso, e così l’interazione e i rimandi tra i due oggetti (critica e oggetto criticato) funzionano.

Esistono anche narrazioni, o descrizioni scritte di eventi artistici d’altra natura che possono risultare gradevoli o notevoli al punto da diventare oggetti d’arte a loro volta: ma anche in questi casi è proprio l’aspetto distruttivo (ma architettonico) di una critica degna di questo nome a dover venire meno.

Il giudizio struttura le personalità che si dedicano al complesso mondo del creare, ma ne resta inesorabilmente ai margini. Romanticamente.

Per criticare un musicista bisogna suonarci assieme.

Criticare un pittore significa rispondergli con un dipinto, come nella lunga serie delle Bagnanti che attraversano la contemporaneità, da Courbet a Picasso.

Ad ogni modo possiamo guadagnare ancora in prosaicità, e forse anche in modestia poiché, pur tenendo a mente le considerazioni testé accennate e i loro infiniti risvolti – che potrebbero invalidare ab origine ogni discorso a tematica musicale in quanto tale – il problema dello scritto che segue è piuttosto nella sostanziale incompetenza musicologica di chi scrive.

In questo senso, non vi si troverà un’analisi puntuale delle strutture dei pezzi, né delle modalità di composizione di essi, ma piuttosto un ingenuo tentativo di verbalizzazione delle sensazioni provocate dal loro ascolto e soprattutto un’analisi di parti della loro dimensione testuale, necessariamente priva di un giudizio puntuale sugli arrangiamenti che la sostengono. Una critica da bar insomma, ma con qualche tentativo d’astrazione e di contestualizzazione storica.

 

2. L’Album Biango. Dal gossip a Gunther Anders (come al solito)

Per rimanere in tema, e per cominciare ad introdurre l’oggetto della nostra critica irresponsabile (nel senso che giammai potrebbe rispondere di se stessa di fronte ad una qualsivoglia auctoritas, o peggio authority), ho sempre pensato che la musica del complessino milanese Elio e le Storie Tese riuscisse a realizzare il mirabile paradosso di un’arte totalmente razionale, totalmente fondata sugli spunti e i rilievi critici dei suoi creatori. Thomas Mann li avrebbe definiti «figli dello spirito»[1], «alfieri del bel canto e dell’uomo del Giappone», di un’arte sempre figlia di un’esasperazione grottesca, autoironica, ma inequivocabilmente razionale di se stessa.

Se la provocazione picassiana per cui il grande artista ruba ha un qualche fondamento, gli eelst sono certamente dei grandi artisti: tutta la loro produzione può essere letta come un imponente détournement[2] del passato, un inestricabile mosaico di citazioni che ha il sapore, spesso un po’ amaro, di una disillusa secolarizzazione. Finis musicae... una risata la seppellì!

Coerentemente, anche l’ultimissimo lavoro del complessino, L’Album Biango – comparso in un’epoca in cui «nessuno fa più l’album»[3] – è una caustica raccolta di nostalgie in cui, come è ben detto in una recensione di Michele Boroni su Rockol.it[4] (di cui diremo qualcos’altro), domina «un amarcord di fondo».

Ascoltandolo con l’attenzione dovuta ad ogni album degli eelst, sembra di scorgere questo tono persino nelle modalità di registrazione e missaggio dei pezzi che, rispetto alla luminosa nettezza del non lontano Studentessi (2008), sembrano più posati, più chiusi, a tratti abbozzati, come provenienti da una camera volutamente ovattata male, magari proprio quella disadorna sala prove oggetto di una delle canzoni.

Eppure l’Album Biango è spalancato sul mondo, in certe cose dà addirittura la fastidiosa impressione di esserne uno specchio fedele, come tutto sommato è uno specchio fedele del destino degli artisti oggi quello che è avvenuto a molti componenti del complessino (uno su tutti Elio stesso), impegnati ormai in una costante (superflua?) e spesso compromettente ricerca di visibilità attraverso i mezzi di comunicazione più vari (tra tutti la televisione più mainstream[5] e la rete, il www). È un album che vuole dire la verità sul lavoro del gruppo negli ultimi anni, senza lasciare a bocca asciutta gli aficionados delle vecchie sonorità e dei vecchi contesti: se brani come Amore amorissimo e Dannati forever sembrano un frutto diretto delle bagarres politico-televisive degli ultimi due anni (anche musicalmente), altri come Enlarge (your penis) e Il Tutor di Nerone sembrano usciti dagli album di quindici anni fa: ricchi di riferimenti non immediatamente fruibili, complessi e stratificati nella struttura musicale e sintattica, meticolosamente attenti ai dettagli dei fenomeni di costume che vanno ad isolare e a mettere alla berlina.

L’impressione complessiva è dunque quella di una release un po’ frettolosa ma non priva di classe e di personalità, come invece vorrebbero alcune recensioni critiche che addirittura consigliano al complessino di chiudere con gli lp per dedicarsi esclusivamente all’ormai familiarissimo mondo dei media[6].

Prima di inoltrarci in una disamina più specifica dei singoli brani, però, dobbiamo provare a focalizzare un aspetto importante: perché L’Album Biango[7]?

 

C’è chi dice che ci siamo ispirati all’album bianco dei Beatles, chi ci trova dei riferimenti all’albume dell’uovo cotto (perché quello crudo è trasparente), ma la risposta esatta è: “Così”. Una caratteristica dell’album biango è che se provi a scriverlo su un computer moderno diventa “L’album bianco”. Tu credi di aver sbagliato, invece è stato il correttore automatico. Allora tu lo riscrivi e scopri che “biango” è sottolineato da una linea rossa tratteggiata come a dire: «OK se proprio insisti scriverò “biango”, ma sappi che non mi è andata giù». Non mi è andata giù? Ma che cazzo vuoi, correttore automatico di merda che continui a correggermi parole che non voglio correggere unicamente per cercare di giustificare la tua esistenza, ringrazia Dio che non riesco a disattivarti[8].

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I riferimenti ai Beatles, all’albume, al bianco dei capelli o al più malizioso bianco dello sperma, sono tutti corretti e probabilmente presenti nelle intenzioni della band, corrispondono ai diversi tipi di pubblico che gli Elii sanno ormai di avere e di dover accontentare... ma il vero punto è un altro, o almeno è un altro il punto che interessa il nostro tipo (nonché i nostri tipi!).

Guarda un po’... «tu credi di aver sbagliato, invece è stato il correttore automatico». Viene da pensare a Gunther Anders, alla sua «vergogna prometeica»[9]. Ma andiamo con ordine.

Non c’è testo di Elio e le Storie Tese che, tra le pieghe dei suoi lazzi enigmistici ed enigmatici, non sia calato magistralmente nei suoi anni... anni di crisi, questi ultimi, in cui molte cose sono giunte ormai al loro tramonto, mentre molte altre sembrano «venire per le montagne del tempo», in queste ultime abilmente nascoste, e quindi difficili da notare ad uno sguardo frettoloso.

Spenderemo dunque qualche parola sulle tracce che più delle altre ci sembrano prendere parte a quest’ennesima – anche se un po’ stanca – opera di critica e decostruzione del gruppo milanese cercando così di coglierne natura e limiti, probabilmente non riscontrabili in un semplice problema di anacronismo come alcuni critici vorrebbero[10].

 

3. Tracce di crisi

Dannati Forever. La boutade anticlericale non è cosa nuova per il complessino: da Born to be Abramo a Pagàno, passando per Urna e per i numerosi riferimenti allegorici di Supergiovane, c’è sempre stata una parola per l’ipocrisia della tradizione cristiana e cattolica italiana. Qui la cosa prende una piega un tantino più mondana e da gossip, con riferimenti evidenti ai papy e alle mamy delle cene eleganti dove si fornica, agli esodati e alla gente che commette omicidi accidentalmente.

La canzone mononota. Mono-nota, poli-edrica. Si potrebbe cominciare un lungo discorso sulla semplificazione della musica e dell’espressività in generale come elemento fondamentale del loro impoverimento e della loro nociva massificazione[11], si potrebbe aggiungere il fatto che non a caso il brano è stato portato provocatoriamente al Festival di San Remo vincendo, non a caso, tutto tranne il Festival. Ma noi per questa volta seguiremo il suggerimento, e quindi ci limiteremo a dire che Jobim non ha avuto le palle, invece loro sì.

Il ritmo della sala prove. Probabili cenni autobiografici nascosti nella vicenda del bassista e non solo. Molte le curiosità e i riferimenti rintracciabili nel brano, ma forse ancor più degno di nota è per noi lo skit iniziale, nel quale ricompaiono gli adolescenti del lontano Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu che non fanno più l’album di “figu” ma, un po’ cresciuti, si preparano alle prove pomeridiane della loro band. Interessante è l’incontro del gruppo di adolescenti con il noleggiatore della sala prove:

 

Noleggiatore:«Avete dalle sette alle nove nella uno, venite qui un attimo: patti chiari, amicizia lunga. Nove meno cinque non vola una mosca, voglio vedere i jack arrotolati, amplificatori messi a posto e niente stronzate, d’accordo?»

Adolescente (Faso): «Eh, tranqui, eh!»

N: «No, tranqui un cazzo! Quanti anni hai tu?»

A: «E cosa c’entra, scusa?»

N: «Eh, c’entra sì! Tu eri all’Isola di Wight?»

A: «No, ma... »

N: «Eri a Woodstock?»

A: «No, ma... »

N: «Io SÌ! Silenzio, andare a provare!»

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Perfetto scontro generazionale tra arroganze. Da un lato una generazione (la nostra?) che ha avuto il succulento piatto della fine di ogni autorità e di ogni riverenza formale senza esserselo conquistato minimamente: «tranqui!».

Dall’altro la generazione che a Woodstock c’è stata, che quella riverenza l’ha abbattuta con la gran pompa rumorosa della sua rivoluzione culturale, ma che sembra fatalmente pretenderla dai nuovi “giovani” una volta giunta alle posizioni di potere che furono dei suoi padri.

Una volta era la guerra, oggi è l’Isola di Wight.

Lettere dal www – Enlarge (your penis). L’attenzione ai fenomeni antropologici sorti dall’uso più o meno compulsivo del web non è una novità per la band milanese[12].

Questa volta però la questione è posta in maniera ben più esplicita e, chiaramente, è subito la sfera sessuale ad essere presa in esame come oggetto privilegiato della trasformazione. Ascoltando le Lettere dal www [13] ci si immagina l’ormai tipico nerd che, cercando sul mondo virtuale le esperienze erotiche che il mondo reale gli nega, s’imbatte magicamente in una «donna dell’est europa» (magicamente residente nella stessa città) curiosissima d’incontrarlo.

Due tristi attitudini sessuali di massa degli ultimi quindici anni in un sol colpo: la ricerca di relazioni sul web e di donne provenienti dell’est Europa dopo cocenti delusioni sentimentali «dai paesi tuoi»[14].

Discorso ancor più profondo e complesso per quanto riguarda Enlarge (your penis): apparentemente la canzone narra di una persona che decide di rinunciare ai suoi filtri antispam per ricevere tutta la posta che il gargantuesco mondo della pubblicità on-line spedisce ogni giorno; e tuttavia tra i tanti c’è un attachment fondamentale, cui il nostro protagonista non ha alcuna intenzione di rinunciare... Enlarge your penis: formula ben nota ai frequentatori di siti pornografici, sui quali – per ovvia continuità tematica e di target – si pubblicizzano usualmente prodotti farmaceutici in grado di trasformare radicalmente le prestazioni sessuali degli acquirenti. Il tema non è per nulla obsoleto, ed è forse tra i più urgenti nella piccola opera di decostruzione e critica di cui ci stiamo occupando: affidarsi od anche solo utilizzare la rete per operazioni che riguardano la sfera erotica della nostra vita, significa mutuarne gradualmente le attitudini ed il linguaggio?

«Una volta un mio amico / Ha enlargiato il suo penis / Oggi è più felice di me»[15].

Pare che il pinguino della Vodafone® la pensi come i più pessimisti tra i ‘filosofi della tecnica’ dell’ultimo secolo, e che la sua risposta alla nostra domanda sia positiva... la citata “vergogna prometeica” è ovviamente dietro l’angolo: tutti credono di dover somigliare, nella propria vita sessuale, a quelle anonime macchine del sesso[16] che si possono vedere nelle migliaia di video circolanti gratuitamente e senza alcuna efficace misura di controllo su Internet. Semplicemente si cerca di rimodellare la propria esperienza personale imitando le perfette (?!) rappresentazioni virtuali della sessualità presenti sul vuvuvù, a cominciare dalle dimensioni del penis che, ovviamente, va ‘enlargiato’[17].

Lampo. Ormai è un morire. Persone di tutte le età e di ogni appartenenza sociale e politica non possono esimersi dall’aggiornare continuamente i propri profili sui social network con testimonianze fotografiche delle loro attività. Non esiste più un momento della vita che sia degno d’essere ricordato senza l’ausilio di un dispositivo tecnico di qualche tipo e, chiaramente, nella nostra società dello spettacolo 2.0 sono quelli visivo-fotografici ad avere la meglio, specie da quando un database come Instagram è in grado di diffonderli capillarmente in tutto il mondo nel giro di pochi secondi. Il risultato di questa trasformazione è visibile a chiunque, ovunque.

Il Tutor di Nerone. Il progressivo adeguamento dei corpi umani ai tempi e ai ritmi delle macchine è ancora argomento centrale in questo brano dai riferimenti un po’ eruditi. L’immagine è proprio quella di due mondi e di due modi contrapposti: la lentezza languida e antica di un otium philosophicum ormai in disuso si contrappone alla velocità maniacale dei ritmi lavorativi contemporanei, costitutivamente e sempre più privi di ogni riguardo per le deviazioni astratte ed umanistiche[18]. La «Milano che pippa» e che corre come una matta verso la fiera fuori città è ovviamente solo un’occasione come tante per mettere in evidenza il fenomeno, di cui d’altra parte difficilmente vedremo la fine.

Come gli Area. Con questo brano comincia la sfida più impegnativa del disco...

«Come tutti sanno il pubblico fascista / Non ha mai capito un cazzo di musica / Sì, però i compagni quando c’è da tirar fuori i soldi / Tutto tace»[19].

Dovevano cominciare ad avere i capelli bianchi, bianghi, per raccontare di un sospetto che probabilmente hanno da sempre: la cultura italiana di sinistra s’è riconosciuta troppo a lungo in una facciata pauperistica[20] che probabilmente, in quanto ipocrita, estetizzante e completamente fine a se stessa, ne ha inficiato lo sviluppo e le prospettive... a un certo punto la scelta è stata necessariamente quella che, secondo l’Adorno citato in esergo, viene imposta ad ogni individuo della nostra epoca: diventare adulti come tutti gli altri o restare bambini, incamminarsi lungo la strada pre-scritta dall’industria culturale o continuare ad immaginarne una indipendente, underground, come si continua a ripetere stancamente. I talentuosi Area di Demetrio Stratos (quelli che probabilmente finiscono con la sua voce vibrante nell’estate del 1979) sono dipinti nel brano come esempio eminente del secondo caso: il loro tentativo di rimanere organici a certi contesti ha – tipicamente – limitato la diffusione delle loro creazioni, attenuandone così il potenziale rivoluzionario nell’ambito del panorama musicale dell’epoca... eppure, sembra suggerire il complessino, la cosa sarebbe potuta andare diversamente fin dall’inizio se i compagni avessero tirato fuori i soldi (e se li avessero investiti nei contesti giusti)!

Forse Stratos morì prima di diventare un adulto come tutti gli altri.

A Piazza San Giovanni – Complesso del primo Maggio. L’ultima traccia del disco rincara la dose. Pubblicata in anticipo il 12 aprile del 2013 sul canale Youtube ufficiale della band, essa può essere considerata come la più esplicita presa in giro mai concepita del più importante evento pubblico organizzato annualmente dalla sinistra italiana. Il palco del concertone di Piazza San Giovanni ha un ricordo indelebile di Elio e le Storie Tese: nel 1991 la band fu censurata dalla rai in piena diretta quando trasformò il testo della sua Ti Amo in un martellante e documentatissimo j’accuse contro alcuni membri della classe politica e imprenditoriale italiana[21].

Stupido pensare ad una vendetta con vent’anni di ritardo, troppo difficile pensare che quel primo maggio non sia parte integrante del grande e progressivo disincanto. Era una cosa che andava detta, e che andava detta chiaramente: quella festa sta perdendo il suo senso... è tutto fatto di stereotipi, tutti vecchi e quindi ormai tutti falsi, addirittura falsanti: la tipa col piercing, il tipo con lo zaino, il gruppo del Mezzogiorno, la musica balcanica, il metalmeccanico, le masse operaie, le bandiere rosse eccetera. Unica grande assente: la musica.

La chitarra acustica è scordata (calante!), ma «il tipo che balla a torso nudo neanche la sente»: la musica, sembra voler provocare il complessino, è protagonista del grande evento romano solo per la sua energia e capacità di coesione ma fondamentalmente – non avendola pagata direttamente – non la ascolta nessuno[22], e forse è sempre stato così.

 

Il discorso, in sintesi, è lo stesso accennato tra le righe del pezzo dedicato agli Area: l’arte si paga, ed è giusto che sia così. Continuare a immaginare gli artisti (e i ‘lavoratori dell’immateriale’ in genere) come eterni bambini privi di necessità materiali significa costringerli a diventare «adulti come tutti gli altri» nel giro di pochi anni: volendo continuare a creare, dovranno infatti rivolgersi al “nemico”, alle majors, ai produttori discografici e (sempre più spesso) ai peggiori format televisivi, diventando un utilissimo strumento nelle mani della cultura dominante[23]; in alternativa potranno trasformare il suddetto creare in un semplice hobby, e guardare dopo qualche anno le foto della loro band giovanile con anni e anni di un lavoro che non gli assomiglia sulle spalle, il pene ben enlargiato e un po’ d’amarezza. La purezza è un lusso.

 

SETTEMBRE 2013

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[1] Il riferimento è a un importante saggio manniano del 1924 dal titolo modesto: Goethe e Tolstoj. Frammenti sul problema dell’umanità. In esso viene stabilito un discrimen tra una sana arte della natura, splendidamente rappresentata dai suoi sereni, ingenui figli – Goethe e Tolstoj appunto – ed una malata arte dello spirito, arte di situazioni e personaggi eternamente esasperati e portati ai limiti dalla razionalità ipertrofica e paradossale dei suoi autori – in quel caso Schiller e Dostoevskij.

[2] La scelta del termine non è assolutamente casuale. La presenza e l’assidua collaborazione nel collettivo milanese di un colto e attento architetto, il poliedrico clown urbano Luca Mangoni, testimonia la vicinanza dell’assetto teorico degli eelst a certi spunti ‘architettonici’ del situazionismo, nonostante la loro produzione si situi in anni in cui il situazionismo stesso era ormai ampiamente secolarizzato e detournato.

[3] L’espressione – diventata caposaldo delle varie (variamente valide) critiche all’album comparse in giro per il wwwè parte dell’interessante skit che introduce Il ritmo della sala prove (traccia n.4)... il riferimento è originariamente all’album di “figu” (figurine): elemento lessicale ricorrente nel temps perdu del gruppo (Cfr. gli Adolescenti a colloquio della prima traccia di Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu (1989) nonché Supergiovane, traccia dello storico lp del 1992: Italyan, Rum Casusu Çikti).

[5] Estremamente intricati i rapporti tra la band milanese e i grandi mezzi di comunicazione e distribuzione. Complesso in generale è lo sviluppo storico della musica da quando esistono i video musicali... nel 1979 Video killed the radio stars. Ancor più complesso il discorso sui rapporti tra le arti in generale – e la musica in particolare – e la loro fruizione di massa e distribuzione su larga scala. Mi limiterei quindi a dire che l’elemento visivo, teatrale è onnipresente ed estremamente rilevante in tutta la produzione degli Elii (basti pensare ai costumi e ai continui exploits visivi che utilizzano ai loro concerti), e che quindi l’elevazione a potenza di questo elemento costituita dalla televisione non può essere per questi artisti che una straordinaria occasione espressiva (e infatti lo è stata sin dalle origini). Tuttavia molto vari sono stati i contesti televisivi che hanno visto la loro attiva partecipazione e proprio sulla selezione di essi, col passare degli anni, è stato fatto forse qualche compromesso di troppo. Creative e artisticamente feconde furono le collaborazioni dei componenti della band con Radio Deejay e con le trasmissioni della Gialappa’s, come interessante e tutto sommato politically correct è stata la presenza del gruppo a Parla con me della Dandini; mentre ad esempio mi è sempre sembrata imperdonabile la presenza di Elio ad X Factor, non solo per la volgarità del contesto in sé – che somiglia più ad una mostra pornografica di schiavi ammaestrati che ad una scuola di musica – ma proprio per il ruolo da lui assunto in quel contesto: freddo selezionatore dei suddetti schiavi, ma dalla facciata empatica ed estrosa. Esca allettante per schiavi fantasiosi, nota dolce della sinfonia del dominio. Menzione a parte meritano i contributi del complessino al mondo della pubblicità: se è straziante sentire gli autori di pezzi come Sabbiature e Supergiovane cantare jingles della Vodafone® travestiti da pinguini, è ancor più demoralizzante sentire un pezzo straordinario come Gargaroz nella sua rivisitazione per il Cynar®.

[6] Inquietante a riguardo il giudizio del citato Boroni su Rockol.it: «da sincero estimatore del complessino, mi auguro che L’album biango sia il loro ultimo disco, e questo vuole essere un augurio per il continuo della loro carriera e l’inizio di un percorso originale verso nuove dimensioni artistiche (e sì, anche un programma tv tutto loro)».

Da sincero estimatore, da affezionato fanatico direi, spero che gli Elii non vogliano giungere a simili conclusioni, ma che anzi la mancanza di un’oggettiva necessità economica (!) li possa spingere verso l’abbandono di certi contesti che non possono che deteriorare l’autenticità e l’originalità delle loro creazioni. La storia dell’industria culturale è piena di trionfi, è proprio necessario anche questo?

[7] Per informazioni dettagliate sul disco, rimandiamo alla sua tutto sommato esaustiva pagina di Wikipedia: http://it.wikipedia.org/wiki/L%27album_biango.

[8] Questo un estratto delle pochissime parole sul disco pubblicate dalla band... la versione completa è reperibile un po’ ovunque, ad esempio su:

http://www.marok.org/Elio/Discog/biango.htm, pagina che contiene anche una serie di curiosità interessanti sui singoli brani, nonché la trascrizione completa di tutti i testi.

[9] Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato, 2 voll., Bollati Boringhieri, Torino 2003 (in particolare la parte prima).

[10] Così ancora Boroni su Rockol.it: «Gli Elii sono famosi e assai apprezzati per la loro capacità di leggere i fenomeni sociali appena si presentano e trovare subito la chiave per ironizzarci intelligentemente: è evidente però che uscire nel 2013, con una canzone sui messaggi spam email (Enlarge (your penis)), sulle pubblicità sessuale di donne dell’est (Lettere dal www), sull’uso compulsivo delle fotocamere digitali (Lampo) o basare un pezzo sulla Milano che pulsa e “sui milanesi che corrono come pazzi” (Il Tutor di Nerone) rappresenta per gli eelst una perdita di colpi».

[11] A riguardo mi permetto di rimandare al terzo paragrafo del mio articolo Placetexperiri. Un’altra sfogliata (riccia) a “Minima moralia”, sul numero 9 di «Città Future»:

http://www.cittafuture.org/09/04-Placetexperiri.html.

[12] Già Gargaroz, nel 2008, conteneva accenni al «dannato vuvuvù» che fa danni.

[13] Riportiamo il breve testo della canzone per intero:

«Oggi mi è arrivata una mail di una ragazza ucraina
Che mi vuol conoscere, mi ha visto su un sito
Scrive: “Sono una donna bravo,
Che non cerca avventure corte, bensì una relazione fisso”.
Provo un’istintiva fiducia verso le donne dell’est Europa
Grazie a questa cosa dell’Internet».

[14] Obbiettivo privilegiato del colonialismo sessuale in versione 2.0 sono ovviamente, visibilmente, le donne dell’est Europa, in gran parte non ancora avvezze ai livelli di emancipazione delle nostre parti: in realtà sorge il sospetto che l’obbiettivo polemico della breve canzone sia proprio questo, e che il canale d’incontro virtuale sia solo un pretesto e un modo per accentuare l’assoluta mancanza di reciprocità e spontaneità della cosa; le relazioni di uomini centro-europei di terza età (e non!) con giovani donne dei paesi dell’ex Unione Sovietica sono ormai frequentissime, tutti alla caccia di «donne bravo», in cerca di una tranquilla «relazione fisso», senza particolari ambizioni di lavoro o d’indipendenza.

[15] Parte del testo di Enlarge (your penis).

[16] Lontani i tempi dell’amatissima pornografia in vhs (a pagamento!) e di John Holmes, cui il complessino dedicò addirittura una canzone del citato Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu.

[17] Per uno spunto letterario a riguardo si cerchi anche Il Supermaschio di Alfred Jarry, non a caso di recente ripubblicazione presso i tipi di Bompiani.

[18] È l’Elio nostalgico ed ironicamente conservatore a venir fuori, come veniva fuori da pezzi più o meno vecchi come Gargaroz, Farmacista, Cassonetto differenziato e altri. Qui inoltre, con il leggero cambiare delle sonorità, comincia ad emergere a mio avviso uno dei temi cardine del concept: quella lentezza è anche la lentezza dell’artista, una lentezza che costa sempre di più.

[19] Parte del testo di Come gli Area, terzultima traccia del disco.

[20] Pauperismo che sfociò spesso in un atteggiamento anti-artistico, annoverante il gusto per l’arte ed il rispetto per gli artisti (quindi anche il loro sostentamento) tra i lussi borghesi da estirpare: «CE LO CACHI CHE SEI UN ARTISTA!!!!»

[21] La registrazione dell’evento sarà pubblicata solo l’anno dopo nel singolo Pipppero® e successivamente nell’album Peerla del 1998.

[22] O, provocazione ancora peggiore: non la ascolta come dovrebbe perché la musica non si può ascoltare così!

[23] E se la cosa è vera per personaggi ormai ben noti e agiati come gli eelst, figurarsi come può esserlo per un gruppo di ventenni emergenti!