Esperienza e rappresentazione
UN (O)MAGGIO CRITICO A L'ALBUM BIANGO DI ELIO E LE STORIE TESE
NerioJamil Palumbo
Comunque agisca, l’intellettuale sbaglia. Egli sperimenta radicalmente,
come una questione di vita, l’umiliante alternativa di fronte
alla quale il tardo capitalismo mette segretamente tutti i suoi
sudditi: diventare un adulto come tutti gli altri o restare un
bambino.
(T. Adorno,
Minima Moralia, Einaudi, Milano 2005, p. 155)
1. Una critica da bar baro
Beatles o Rolling Stones? Eric Clapton o Jimi Hendrix?
Pink Floyd o Genesis? Si
chiedevano.
Metallica o Iron Maiden? Massive Attack o Rage Against the
Machine? Björk o Sinead O’Connor? Ci chiedevamo alle superiori. Tutt’ora mi
ritrovo a chiedere ad alcuni dj se preferiscono Bob
Marley o Stevie Wonder. Mi mandano a quel paese.
Sospetto da qualche tempo che,
in generale, parlare e scrivere di musica con reale cognizione
di causa siano cose impossibili, o quanto meno inutili.
Non c’è bisogno di spolverare le
grandi estetiche del passato per capire come l’eterno fastidio
di ogni artista per il suo “arcigno fratello” – il critico, lo
scrittore – sia assolutamente ben fondato.
Ricordo Bene... vivere e
contestualizzare (criticamente!) questo fastidio in modo ben più
convincente, nonché più prosaico...
ma tutto sommato era ed è un
problema di mezzi.
Esistono critiche letterarie
che – nell’irripetibile commistione di fondatezza filologica ed
eleganza espositiva che le contraddistingue – divengono
letteratura a loro volta, probabilmente perché il mezzo è lo
stesso, e così l’interazione e i rimandi tra i due oggetti
(critica e oggetto criticato) funzionano.
Esistono anche narrazioni, o
descrizioni scritte di eventi artistici d’altra natura che
possono risultare gradevoli o notevoli al punto da diventare
oggetti d’arte a loro volta: ma anche in questi casi è proprio
l’aspetto distruttivo (ma architettonico) di una critica degna
di questo nome a dover venire meno.
Il giudizio struttura le
personalità che si dedicano al complesso mondo del creare, ma ne
resta inesorabilmente ai margini. Romanticamente.
Per criticare un musicista
bisogna suonarci assieme.
Criticare un pittore
significa rispondergli con un dipinto, come nella lunga serie
delle
Bagnanti
che attraversano la contemporaneità, da Courbet a Picasso.
Ad ogni modo possiamo
guadagnare ancora in prosaicità, e forse anche in modestia
poiché, pur tenendo a mente le considerazioni testé accennate e
i loro infiniti risvolti – che potrebbero invalidare
ab origine ogni discorso a tematica
musicale in quanto tale – il problema dello scritto che segue è
piuttosto nella sostanziale incompetenza musicologica di chi
scrive.
In questo senso, non vi si
troverà un’analisi puntuale delle strutture dei pezzi, né delle
modalità di composizione di essi, ma piuttosto un ingenuo
tentativo di verbalizzazione delle sensazioni provocate dal loro
ascolto e soprattutto un’analisi di parti della loro dimensione
testuale, necessariamente priva di un giudizio puntuale sugli
arrangiamenti che la sostengono. Una critica da bar insomma, ma
con qualche tentativo d’astrazione e di contestualizzazione
storica.
2. L’Album Biango. Dal gossip
a Gunther Anders (come al solito)
Per rimanere in tema, e per
cominciare ad introdurre l’oggetto della nostra critica
irresponsabile (nel senso che giammai potrebbe rispondere di se
stessa di fronte ad una qualsivoglia auctoritas, o peggio
authority), ho sempre pensato che la musica del
complessino milanese Elio e le Storie Tese riuscisse a
realizzare il mirabile paradosso di un’arte totalmente
razionale, totalmente fondata sugli spunti e i rilievi critici
dei suoi creatori. Thomas Mann li avrebbe definiti «figli dello
spirito»[1], «alfieri del bel
canto e dell’uomo del Giappone», di un’arte sempre figlia di
un’esasperazione grottesca, autoironica, ma inequivocabilmente
razionale di se stessa.
Se la provocazione picassiana
per cui il grande artista ruba ha un qualche fondamento, gli
eelst sono
certamente dei grandi artisti: tutta la loro produzione può
essere letta come un imponente détournement[2]
del passato, un inestricabile mosaico di citazioni che ha il
sapore, spesso un po’ amaro, di una disillusa secolarizzazione.
Finis musicae... una risata la seppellì!
Coerentemente, anche
l’ultimissimo lavoro del complessino, L’Album Biango –
comparso in un’epoca in cui «nessuno fa più l’album»[3] – è una caustica
raccolta di nostalgie in cui, come è ben detto in una recensione
di Michele Boroni su Rockol.it[4]
(di cui diremo qualcos’altro), domina «un amarcord di fondo».
Ascoltandolo con l’attenzione
dovuta ad ogni album degli
eelst, sembra di scorgere questo tono persino nelle
modalità di registrazione e missaggio dei pezzi che, rispetto
alla luminosa nettezza del non lontano Studentessi
(2008), sembrano più posati, più chiusi, a tratti abbozzati,
come provenienti da una camera volutamente ovattata male, magari
proprio quella disadorna sala prove oggetto di una delle
canzoni.
Eppure l’Album Biango è
spalancato sul mondo, in certe cose dà addirittura la fastidiosa
impressione di esserne uno specchio fedele, come tutto sommato è
uno specchio fedele del destino degli artisti oggi quello che è
avvenuto a molti componenti del complessino (uno su tutti Elio
stesso), impegnati ormai in una costante (superflua?) e spesso
compromettente ricerca di visibilità attraverso i mezzi di
comunicazione più vari (tra tutti la televisione più
mainstream[5] e la rete, il
www).
È un album che vuole dire la verità sul lavoro del
gruppo negli ultimi anni, senza lasciare a bocca asciutta gli
aficionados delle vecchie sonorità e dei vecchi contesti: se
brani come Amore amorissimo e Dannati forever
sembrano un frutto diretto delle bagarres
politico-televisive degli ultimi due anni (anche musicalmente),
altri come Enlarge (your penis) e Il Tutor di Nerone
sembrano usciti dagli album di quindici anni fa: ricchi di
riferimenti non immediatamente fruibili, complessi e
stratificati nella struttura musicale e sintattica,
meticolosamente attenti ai dettagli dei fenomeni di costume che
vanno ad isolare e a mettere alla berlina.
L’impressione complessiva è
dunque quella di una release un po’ frettolosa ma non
priva di classe e di personalità, come invece vorrebbero alcune
recensioni critiche che addirittura consigliano al complessino
di chiudere con gli lp
per dedicarsi esclusivamente all’ormai familiarissimo mondo dei
media[6].
Prima di inoltrarci in una
disamina più specifica dei singoli brani, però, dobbiamo provare
a focalizzare un aspetto importante: perché L’Album Biango[7]?
C’è chi dice che ci siamo ispirati all’album bianco dei Beatles, chi ci
trova dei riferimenti all’albume dell’uovo cotto (perché quello
crudo è trasparente), ma la risposta esatta è: “Così”. Una
caratteristica dell’album biango è che se provi a scriverlo su
un computer moderno diventa “L’album bianco”. Tu credi di aver
sbagliato, invece è stato il correttore automatico. Allora tu lo
riscrivi e scopri che “biango” è sottolineato da una linea rossa
tratteggiata come a dire: «OK se proprio insisti scriverò
“biango”, ma sappi che non mi è andata giù». Non mi è andata
giù? Ma che cazzo vuoi, correttore automatico di merda che
continui a correggermi parole che non voglio correggere
unicamente per cercare di giustificare la tua esistenza,
ringrazia Dio che non riesco a disattivarti[8].
I riferimenti ai Beatles,
all’albume, al bianco dei capelli o al più malizioso bianco
dello sperma, sono tutti corretti e probabilmente presenti nelle
intenzioni della band, corrispondono ai diversi tipi di pubblico
che gli Elii sanno ormai di avere e di dover accontentare... ma
il vero punto è un altro, o almeno è un altro il punto che
interessa il nostro tipo (nonché i nostri tipi!).
Guarda un po’... «tu credi
di aver sbagliato, invece è stato il correttore automatico».
Viene da pensare a Gunther Anders, alla sua «vergogna
prometeica»[9].
Ma andiamo con ordine.
Non c’è testo di Elio e le
Storie Tese che, tra le pieghe dei suoi lazzi enigmistici ed
enigmatici, non sia calato magistralmente nei suoi anni... anni
di crisi, questi ultimi, in cui molte cose sono giunte ormai al
loro tramonto, mentre molte altre sembrano «venire per le
montagne del tempo», in queste ultime abilmente nascoste, e
quindi difficili da notare ad uno sguardo frettoloso.
Spenderemo dunque qualche
parola sulle tracce che più delle altre ci sembrano prendere
parte a quest’ennesima – anche se un po’ stanca – opera di
critica e decostruzione del gruppo milanese cercando così di
coglierne natura e limiti, probabilmente non riscontrabili in un
semplice problema di anacronismo come alcuni critici vorrebbero[10].
3. Tracce di crisi
Dannati Forever. La
boutade
anticlericale non è cosa nuova per il complessino: da
Born
to be Abramo
a
Pagàno,
passando per
Urna
e per i numerosi riferimenti allegorici di
Supergiovane,
c’è sempre stata una parola per l’ipocrisia della tradizione
cristiana e cattolica italiana. Qui la cosa prende una piega un
tantino più mondana e da
gossip,
con riferimenti evidenti ai papy e alle mamy delle cene eleganti
dove si fornica, agli esodati e alla gente che commette omicidi
accidentalmente.
La canzone mononota. Mono-nota, poli-edrica. Si
potrebbe cominciare un lungo discorso sulla semplificazione
della musica e dell’espressività in generale come elemento
fondamentale del loro impoverimento e della loro nociva
massificazione[11],
si potrebbe aggiungere il fatto che non a caso il brano è stato
portato provocatoriamente al Festival di San Remo vincendo, non
a caso, tutto tranne il Festival. Ma noi per questa volta
seguiremo il suggerimento, e quindi ci limiteremo a dire che
Jobim non ha avuto le palle, invece loro sì.
Il ritmo della sala
prove.
Probabili cenni autobiografici nascosti nella vicenda del
bassista e non solo. Molte le curiosità e i riferimenti
rintracciabili nel brano, ma forse ancor più degno di nota è per
noi lo
skit iniziale, nel quale ricompaiono
gli adolescenti del lontano
Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu
che non fanno più l’album di “figu” ma, un po’ cresciuti, si
preparano alle prove pomeridiane della loro band. Interessante è
l’incontro del gruppo di adolescenti con il noleggiatore della
sala prove:
Noleggiatore:«Avete dalle sette alle nove nella uno, venite qui un
attimo: patti chiari, amicizia lunga. Nove meno cinque non vola
una mosca, voglio vedere i jack arrotolati, amplificatori messi
a posto e niente stronzate, d’accordo?»
Adolescente
(Faso): «Eh, tranqui, eh!»
N: «No, tranqui
un cazzo! Quanti anni hai tu?»
A: «E cosa
c’entra, scusa?»
N: «Eh, c’entra
sì! Tu eri all’Isola di Wight?»
A: «No, ma... »
N: «Eri a
Woodstock?»
A: «No, ma... »
N: «Io SÌ!
Silenzio, andare a provare!»
Perfetto scontro
generazionale tra arroganze. Da un lato una generazione (la
nostra?) che ha avuto il succulento piatto della fine di ogni
autorità e di ogni riverenza formale senza esserselo conquistato
minimamente: «tranqui!».
Dall’altro la generazione
che a Woodstock c’è stata, che quella riverenza l’ha abbattuta
con la gran pompa rumorosa della sua rivoluzione culturale, ma
che sembra fatalmente pretenderla dai nuovi “giovani” una volta
giunta alle posizioni di potere che furono dei suoi padri.
Una volta era la guerra,
oggi è l’Isola di Wight.
Lettere dal
www – Enlarge (your penis).
L’attenzione ai fenomeni antropologici sorti dall’uso più o meno
compulsivo del
web
non è una novità per la band milanese[12].
Questa volta però la
questione è posta in maniera ben più esplicita e, chiaramente, è
subito la sfera sessuale ad essere presa in esame come oggetto
privilegiato della trasformazione. Ascoltando le
Lettere dal
www
[13]
ci si immagina l’ormai tipico
nerd che, cercando sul mondo virtuale
le esperienze erotiche che il mondo reale gli nega, s’imbatte
magicamente in una «donna dell’est europa» (magicamente
residente nella stessa città) curiosissima d’incontrarlo.
Due tristi attitudini
sessuali di massa degli ultimi quindici anni in un sol colpo: la
ricerca di relazioni sul
web e di donne provenienti dell’est Europa dopo cocenti
delusioni sentimentali «dai paesi tuoi»[14].
Discorso ancor più profondo
e complesso per quanto riguarda
Enlarge (your penis):
apparentemente la canzone narra di una persona che decide di
rinunciare ai suoi filtri
antispam
per ricevere tutta la posta che il gargantuesco mondo della
pubblicità
on-line
spedisce ogni giorno; e tuttavia tra i tanti c’è un
attachment
fondamentale, cui il nostro protagonista non ha alcuna
intenzione di rinunciare...
Enlarge your penis: formula ben nota ai
frequentatori di siti pornografici, sui quali – per ovvia
continuità tematica e di
target
– si pubblicizzano usualmente prodotti farmaceutici in grado di
trasformare radicalmente le prestazioni sessuali degli
acquirenti. Il tema non è per nulla obsoleto, ed è forse tra i
più urgenti nella piccola opera di decostruzione e critica
di cui ci stiamo occupando: affidarsi od anche solo utilizzare la rete
per operazioni che riguardano la sfera erotica della nostra
vita, significa mutuarne gradualmente le attitudini ed il
linguaggio?
«Una volta un mio amico / Ha enlargiato il suo penis
/ Oggi è più felice di me»[15].
Pare che il pinguino della
Vodafone® la pensi come i più pessimisti tra i ‘filosofi della
tecnica’ dell’ultimo secolo, e che la sua risposta alla nostra
domanda sia positiva... la citata “vergogna prometeica” è
ovviamente dietro l’angolo: tutti credono di dover somigliare,
nella propria vita sessuale, a quelle anonime macchine del sesso[16]
che si possono vedere nelle migliaia di video circolanti
gratuitamente e senza alcuna efficace misura di controllo su
Internet. Semplicemente si cerca di rimodellare la propria
esperienza personale imitando le perfette (?!)
rappresentazioni
virtuali della sessualità presenti sul
vuvuvù,
a cominciare dalle dimensioni del
penis che, ovviamente, va ‘enlargiato’[17].
Lampo. Ormai è un morire. Persone di
tutte le età e di ogni appartenenza sociale e politica non
possono esimersi dall’aggiornare continuamente i propri profili
sui
social network
con testimonianze fotografiche delle loro attività. Non esiste
più un momento della vita che sia degno d’essere ricordato senza
l’ausilio di un dispositivo tecnico di qualche tipo e,
chiaramente, nella nostra società dello spettacolo 2.0 sono
quelli visivo-fotografici ad avere la meglio, specie da quando
un
database
come
Instagram
è in grado di diffonderli capillarmente in tutto il mondo nel
giro di pochi secondi. Il risultato di questa trasformazione è
visibile a chiunque, ovunque.
Il Tutor di Nerone.
Il progressivo adeguamento dei corpi umani ai tempi e ai ritmi
delle macchine è ancora argomento centrale in questo brano dai
riferimenti un po’ eruditi. L’immagine è proprio quella di due
mondi e di due modi contrapposti: la lentezza languida e antica
di un
otium philosophicum ormai in disuso si contrappone
alla velocità maniacale dei ritmi lavorativi contemporanei,
costitutivamente
e
sempre più privi di ogni riguardo per le deviazioni astratte ed
umanistiche[18].
La «Milano che pippa» e che corre come una matta verso la fiera
fuori città è ovviamente solo un’occasione come tante per
mettere in evidenza il fenomeno, di cui d’altra parte
difficilmente vedremo la fine.
Come gli Area. Con questo brano comincia la
sfida più impegnativa del disco...
«Come tutti sanno il pubblico fascista / Non ha mai
capito un cazzo di musica / Sì, però i compagni quando c’è da
tirar fuori i soldi / Tutto tace»[19]
Dovevano cominciare ad avere
i capelli bianchi, bianghi, per raccontare di un sospetto che
probabilmente hanno da sempre: la cultura italiana di sinistra
s’è riconosciuta troppo a lungo in una facciata pauperistica[20]
che probabilmente, in quanto ipocrita, estetizzante e
completamente fine a se stessa, ne ha inficiato lo sviluppo e le
prospettive... a un certo punto la scelta è stata
necessariamente quella che, secondo l’Adorno citato in esergo,
viene imposta ad ogni individuo della nostra epoca: diventare
adulti come tutti gli altri o restare bambini, incamminarsi
lungo la strada pre-scritta dall’industria culturale o
continuare ad immaginarne una indipendente,
underground,
come si continua a ripetere stancamente. I talentuosi Area di
Demetrio Stratos (quelli che probabilmente finiscono con la sua
voce vibrante nell’estate del 1979) sono dipinti nel brano come
esempio eminente del secondo caso: il loro tentativo di rimanere
organici a certi contesti ha – tipicamente – limitato la
diffusione delle loro creazioni, attenuandone così il potenziale
rivoluzionario nell’ambito del panorama musicale dell’epoca...
eppure, sembra suggerire il complessino, la cosa sarebbe potuta
andare diversamente fin dall’inizio se i compagni avessero
tirato fuori i soldi (e se li avessero investiti nei contesti
giusti)!
Forse Stratos morì prima di
diventare un adulto come tutti gli altri.
A Piazza San
Giovanni – Complesso del primo Maggio.
L’ultima traccia del disco rincara la dose. Pubblicata in
anticipo il 12 aprile del 2013 sul canale
Youtube ufficiale della band, essa può essere considerata
come la più esplicita presa in giro mai concepita del più
importante evento pubblico organizzato annualmente dalla
sinistra italiana. Il palco del concertone di Piazza San
Giovanni ha un ricordo indelebile di Elio e le Storie Tese: nel
1991 la band fu censurata dalla
rai in piena
diretta quando trasformò il testo della sua
Ti
Amo
in un martellante e documentatissimo
j’accuse contro alcuni membri della
classe politica e imprenditoriale italiana[21].
Stupido pensare ad una
vendetta con vent’anni di ritardo, troppo difficile pensare che
quel primo maggio non sia parte integrante del grande e
progressivo disincanto. Era una cosa che andava detta, e che
andava detta chiaramente: quella festa sta perdendo il suo
senso... è tutto fatto di stereotipi, tutti vecchi e quindi
ormai tutti falsi, addirittura falsanti: la tipa col
piercing,
il tipo con lo zaino, il gruppo del Mezzogiorno, la musica
balcanica, il metalmeccanico, le masse operaie, le bandiere
rosse eccetera. Unica grande assente: la musica.
La chitarra acustica è
scordata (calante!), ma «il tipo che balla a torso nudo neanche
la sente»: la musica, sembra voler provocare il complessino, è
protagonista del grande evento romano solo per la sua energia e
capacità di coesione ma fondamentalmente – non avendola pagata
direttamente – non la ascolta nessuno[22],
e forse è sempre stato così.
Il discorso, in sintesi, è
lo stesso accennato tra le righe del pezzo dedicato agli Area:
l’arte si paga, ed è giusto che sia così. Continuare a
immaginare gli artisti (e i ‘lavoratori dell’immateriale’ in
genere) come eterni bambini privi di necessità materiali
significa costringerli a diventare «adulti come tutti gli altri»
nel giro di pochi anni: volendo continuare a creare, dovranno
infatti rivolgersi al “nemico”, alle
majors, ai produttori discografici e (sempre più spesso)
ai peggiori
format televisivi, diventando un utilissimo strumento
nelle mani della cultura dominante[23];
in alternativa potranno trasformare il suddetto creare in un
semplice hobby, e guardare dopo qualche anno le foto della loro
band giovanile con anni e anni di un lavoro che non gli
assomiglia sulle spalle, il pene ben enlargiato e un po’
d’amarezza. La purezza è un lusso.
SETTEMBRE 2013
[1]
Il riferimento è a un importante saggio manniano del
1924 dal titolo modesto: Goethe e Tolstoj. Frammenti
sul problema dell’umanità. In esso viene stabilito
un discrimen tra una sana arte della natura,
splendidamente rappresentata dai suoi sereni, ingenui
figli – Goethe e Tolstoj appunto – ed una malata arte
dello spirito, arte di situazioni e personaggi
eternamente esasperati e portati ai limiti dalla
razionalità ipertrofica e paradossale dei suoi autori –
in quel caso Schiller e Dostoevskij.
[2]
La scelta
del termine non è assolutamente casuale. La presenza e
l’assidua collaborazione nel collettivo milanese di un
colto e attento architetto, il poliedrico clown urbano
Luca Mangoni, testimonia la vicinanza dell’assetto
teorico degli
eelst a certi spunti ‘architettonici’ del
situazionismo, nonostante la loro produzione si situi in
anni in cui il situazionismo stesso era ormai ampiamente
secolarizzato e detournato.
[3]
L’espressione – diventata caposaldo delle varie
(variamente valide) critiche all’album comparse in giro
per il
www
– è parte dell’interessante skit che
introduce Il ritmo della sala prove (traccia
n.4)... il riferimento è originariamente all’album di
“figu” (figurine): elemento lessicale ricorrente nel
temps perdu del gruppo (Cfr. gli Adolescenti a
colloquio della prima traccia di
Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu (1989)
nonché Supergiovane, traccia dello storico
lp del
1992:
Italyan,
Rum Casusu Çikti).
[5]
Estremamente intricati i rapporti tra la band milanese e
i grandi mezzi di comunicazione e distribuzione.
Complesso in generale è lo sviluppo storico della musica
da quando esistono i video musicali... nel 1979 Video
killed the radio stars. Ancor più complesso
il discorso sui rapporti tra le arti in generale – e la
musica in particolare – e la loro fruizione di massa e
distribuzione su larga scala. Mi limiterei quindi a dire
che l’elemento visivo, teatrale è onnipresente ed
estremamente rilevante in tutta la produzione degli Elii
(basti pensare ai costumi e ai continui exploits
visivi che utilizzano ai loro concerti), e che quindi
l’elevazione a potenza di questo elemento costituita
dalla televisione non può essere per questi artisti che
una straordinaria occasione espressiva (e infatti lo è
stata sin dalle origini). Tuttavia molto vari sono stati
i contesti televisivi che hanno visto la loro attiva
partecipazione e proprio sulla selezione di essi, col
passare degli anni, è stato fatto forse qualche
compromesso di troppo. Creative e artisticamente feconde
furono le collaborazioni dei componenti della band con
Radio Deejay e con le trasmissioni della Gialappa’s,
come interessante e tutto sommato politically correct
è stata la presenza del gruppo a Parla con me
della Dandini; mentre ad esempio mi è sempre sembrata
imperdonabile la presenza di Elio ad X Factor,
non solo per la volgarità del contesto in sé – che
somiglia più ad una mostra pornografica di schiavi
ammaestrati che ad una scuola di musica – ma proprio per
il ruolo da lui assunto in quel contesto: freddo
selezionatore dei suddetti schiavi, ma dalla facciata
empatica ed estrosa. Esca allettante per schiavi
fantasiosi, nota dolce della sinfonia del dominio.
Menzione a parte meritano i contributi del complessino
al mondo della pubblicità: se è straziante sentire gli
autori di pezzi come Sabbiature e Supergiovane
cantare jingles della Vodafone® travestiti da
pinguini, è ancor più demoralizzante sentire un pezzo
straordinario come Gargaroz nella sua
rivisitazione per il Cynar®.
[6]
Inquietante a riguardo il giudizio del citato Boroni su
Rockol.it: «da sincero estimatore del complessino, mi auguro che
L’album biango
sia il loro ultimo disco, e questo vuole essere un
augurio per il continuo della loro carriera e l’inizio
di un percorso originale verso nuove dimensioni
artistiche (e sì, anche un programma tv tutto loro)».
Da sincero estimatore, da
affezionato fanatico direi, spero che gli Elii non
vogliano giungere a simili conclusioni, ma che anzi la
mancanza di un’oggettiva necessità economica (!) li
possa spingere verso l’abbandono di certi contesti che
non possono che deteriorare l’autenticità e
l’originalità delle loro creazioni. La storia
dell’industria culturale è piena di trionfi, è proprio
necessario anche questo?
[7]
Per informazioni dettagliate sul disco, rimandiamo alla
sua tutto sommato esaustiva pagina di Wikipedia:
http://it.wikipedia.org/wiki/L%27album_biango.
[8]
Questo un estratto delle pochissime parole sul disco
pubblicate dalla band... la versione completa è
reperibile un po’ ovunque, ad esempio su:
http://www.marok.org/Elio/Discog/biango.htm,
pagina che contiene anche una serie di curiosità
interessanti sui singoli brani, nonché la trascrizione
completa di tutti i testi.
[9]
Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato, 2 voll.,
Bollati Boringhieri, Torino 2003 (in particolare la
parte prima).
[10]
Così ancora Boroni su Rockol.it: «Gli Elii sono famosi e
assai apprezzati per la loro capacità di leggere i
fenomeni sociali appena si presentano e trovare subito
la chiave per ironizzarci intelligentemente: è evidente
però che uscire nel 2013, con una canzone sui messaggi
spam email (Enlarge
(your penis)), sulle pubblicità sessuale di donne
dell’est (Lettere dal www), sull’uso compulsivo delle fotocamere digitali (Lampo)
o basare un pezzo sulla
Milano che pulsa
e “sui milanesi che corrono come pazzi” (Il
Tutor di Nerone) rappresenta per gli
eelst una
perdita di colpi».
[11]
A riguardo mi permetto di rimandare al terzo paragrafo
del mio articolo
Placetexperiri. Un’altra sfogliata (riccia) a “Minima
moralia”, sul numero 9 di «Città Future»:
[12] Già Gargaroz, nel
2008, conteneva accenni al «dannato
vuvuvù» che fa danni.
[13]
Riportiamo il breve testo della canzone per intero:
«Oggi mi è arrivata una
mail di una ragazza ucraina
Che mi vuol conoscere, mi ha visto su un sito
Scrive: “Sono una donna bravo,
Che non cerca avventure corte, bensì una relazione
fisso”.
Provo un’istintiva fiducia verso le donne dell’est
Europa
Grazie a questa cosa dell’Internet».
[14] Obbiettivo
privilegiato del colonialismo sessuale
in versione 2.0 sono ovviamente,
visibilmente, le donne dell’est Europa, in gran parte
non ancora avvezze ai livelli di emancipazione delle
nostre parti: in realtà sorge il sospetto che
l’obbiettivo polemico della breve canzone sia proprio
questo, e che il canale d’incontro virtuale sia solo un
pretesto e un modo per accentuare l’assoluta mancanza di
reciprocità e spontaneità della cosa; le relazioni di
uomini centro-europei di terza età (e non!) con giovani
donne dei paesi dell’ex Unione Sovietica sono ormai
frequentissime, tutti alla caccia di «donne bravo», in
cerca di una tranquilla «relazione fisso», senza
particolari ambizioni di lavoro o d’indipendenza.
[15]
Parte del testo di Enlarge (your penis).
[16]
Lontani i tempi dell’amatissima pornografia in
vhs (a
pagamento!) e di John Holmes, cui il complessino dedicò
addirittura una canzone del citato
Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu.
[17]
Per uno spunto letterario a riguardo si cerchi anche
Il Supermaschio
di Alfred Jarry, non a caso di recente ripubblicazione
presso i tipi di
Bompiani.
[18] È l’Elio nostalgico ed ironicamente conservatore a venir fuori, come
veniva fuori da pezzi più o meno vecchi come
Gargaroz, Farmacista,
Cassonetto differenziato
e altri. Qui inoltre, con il
leggero cambiare delle sonorità, comincia ad emergere a
mio avviso uno dei temi cardine del
concept: quella
lentezza è anche la lentezza dell’artista, una lentezza
che costa sempre di più.
[19]
Parte del testo di Come gli Area, terzultima
traccia del disco.
[20]
Pauperismo che sfociò spesso in un atteggiamento
anti-artistico, annoverante il gusto per l’arte ed il
rispetto per gli artisti (quindi anche il loro
sostentamento) tra i lussi borghesi da estirpare: «CE LO
CACHI CHE SEI UN ARTISTA!!!!»
[21]
La registrazione dell’evento sarà pubblicata solo l’anno
dopo nel singolo Pipppero® e successivamente
nell’album Peerla del 1998.
[22]
O, provocazione ancora peggiore: non la ascolta come
dovrebbe perché la musica non si può ascoltare così!
[23]
E se la cosa è vera per personaggi ormai ben noti e
agiati come gli
eelst, figurarsi come
può esserlo per un gruppo di ventenni emergenti!