IL CAMMINO DELL'AMERICA LATINA TRA IDOLATRIA POLITICA E CRESCITA ECONOMICA
Gaetano Sabatini* intervistato da Massimo Ammendola
Prof. Sabatini, ci fa un quadro generale
della situazione politica
in Sud America, cosa sta accadendo?
L’elemento saliente della situazione
politica del continente sudamericano, per la prima volta da molte
decadi, è una sostanziale omogeneità di linee di politica economica e di
politica internazionale, con due sole eccezioni, il Cile di Piñera e
parzialmente la Colombia di Santos.
Questa omogeneità politica, definita da
alcuni commentatori la “Pink Wave”, l’onda rosa, ad indicare un
orientamento progressista ma non marxista, e con connotati specifici in
ciascuna area, come l’indigenismo di Evo Morales, il bolivarismo di
Chavez e ora di Maduro, l’ambientalismo di Correa etc., si basa su
alcuni punti fondamentali comuni. Il primo di essi è il riposizionamento
degli assi portanti della politica estera all’interno dello stesso
continente latino-americano, privilegiando la creazione di una rete di
rapporti interni, innanzitutto in campo commerciale. Perché, contro
l’idea promossa già da Bush padre, Clinton e Bush figlio, di creare
un’area di libero scambio tra tutti i paesi del continente americano, da
Nord a Sud, di cui al principio degli anni ‘90 è stata realizzata solo
la parte nord-americana, con il
nafta, North American Free Trade Agreement,
ma destinata a
diventare l’afta, l’American
Free Trade Agreement,
negli stessi anni è stato creato il mercosur, il
mercato comune dei paesi del cono Sud, Brasile, Argentina, Uruguay e
Paraguay, al quale hanno progressivamente aderito Bolivia,
Cile, Perù, Colombia, Ecuador e da ultimo, nel 2012, il Venezuela. Il
mercosur è stato anche
l’antesignano della formazione dell’unasur,
l’Unione delle
Nazioni Sudamericane, comunità politica ed economica,
allargata alla maggior parte delle nazioni del continente sud americano,
nonché al Messico e a Panama.
In funzione di una maggior coesione continentale,
quindi, e contro la tradizionale proiezione di ognuno dei paesi
latinoamericani verso propri interlocutori privilegiati.
Il secondo aspetto di omogeneità è legato alla gestione
di una fase di crescita economica pronunciata, in taluni casi, come il
Brasile, con tassi di crescita nettamente più alti degli altri paesi del
Nord America o europei, e più in linea con quelli di altri paesi
emergenti dell’Asia. Questa crescita si basa su una forte espansione
delle esportazioni, anche legate a questo grande mercato continentale, e
del consumo interno. E questa ci porta al terzo punto di affinità: la
maggior parte di questi paesi stanno realizzando meccanismi di
redistribuzione interna della ricchezza. Lo fanno attraverso la
revisione dei meccanismi di imposizione fiscale, la crescita dei
trasferimenti e dei servizi offerti agli strati più bassi della
popolazione, ma anche riappropriandosi delle proprie risorse. In questo
senso i casi più chiari sono quelli del Venezuela, già dall’inizio della
decade scorsa con Chavez, e di Evo Morales in Bolivia, con la
nazionalizzazione delle risorse minerarie ed energetiche, e attraverso
questo il finanziamento di grossi programmi di scolarizzazione, di
accrescimento delle disponibilità di risorse per forme di assistenza e
previdenza pensionistica, di realizzazione di infrastrutture.
Il caso più studiato e sotto i riflettori è quello del
Brasile, uno dei Brics.
Sono contrario al concetto dei Brics, categoria nella
quale si sommano cose che non hanno a che vedere l’una con l’altra: sono
fermamente convinto che il livello di sviluppo delle strutture
democratiche e istituzionali di un paese incida molto sulla qualità
della vita dei suoi abitanti e sullo stesso sviluppo economico. Quindi
una categoria che mette insieme un paese totalitario, la Cina, un paese
autoritario, la Russia, dei paesi in transizione verso una democrazia
compiuta, come l’India e il Sudafrica, e infine un paese con una
struttura democratica consolidata da quasi trent’anni come il Brasile,
non ha ragion d’essere. A questo si somma l’intrinseca differenza di
queste economie dal punto di vista della consistenza demografica: Cina e
India hanno ciascuna un miliardo e trecento milioni di abitanti, mentre
il Sudafrica ne ha cinquanta milioni. Torniamo al Brasile: dalla fine
della presidenza Cardoso, cioè dall’elezione di Lula nel 2002, e ancora
dal 2010, cioè dalla vittoria del candidato del Partido de Trabajadores,
Dilma Rousseff, il Brasile rappresenta un caso unico per la sua
traiettoria di netta crescita economica, in termini non solo di aumento
del
pil,
che in questo paese tradizionalmente si accompagnava a una fortissima
concentrazione della ricchezza, ma anche da una migliore e maggiore
ripartizione del benessere. Naturalmente stiamo parlando di un processo
in itinere: il Brasile resta una nazione dove circa metà della
popolazione si colloca intorno alla linea della povertà. Ma a partire
dalla prima presidenza Lula vengono messi in atto una serie di
meccanismi di inclusione sociale: il caso più evidente è quello
dell’educazione, specie quella universitaria, tradizionalmente
appannaggio dei ceti più alti, e ora sempre più diffusa nei ceti medi
urbani, che ha fatto segnare un netto miglioramento del capitale umano.
Stesso discorso per la scolarizzazione primaria: un altro obiettivo
dell’amministrazione Lula e adesso Rousseff, è quello di fare accedere
all’istruzione i figli degli strati più bassi e dei gruppi più marginali
della popolazione. Questo è un investimento che, nell’arco di una o due
generazioni può cambiare la storia di un paese. Lo stesso discorso vale
naturalmente per la tutela dei diritti dei lavoratori.
Che tipo di interventi? Parliamo di aumenti salariali,
o anche di aiuto statale e di interventi di welfare?
Giusta precisazione, sono due ordini di interventi
diversi. Da una parte, a partire dagli anni di Lula, sono state riviste
e consolidate una serie di tutele dei lavoratori: tendenzialmente,
dovuta alla forte crescita della produttività dell’industria brasiliana,
c’è stata anche una crescita dei salari; e salari e produttività devono
andare insieme, se i salari crescono più della produttività e non c’è
una situazione salariale molto bassa di partenza c’è un rischio di
inflazione, però nel caso del Brasile sono cresciuti insieme. Però, allo
stesso tempo, il governo Lula ha intrapreso e ampliato delle misure che
erano già state introdotte ai tempi dell’amministrazione Cardoso. La più
famosa delle quali è la cosiddetta Bolsa Família, letteralmente la
“borsa famiglia”, è l’aiuto in virtù del quale le famiglie più indigenti
hanno un sostegno nell’acquisto di beni di consumo. L’idea è quella di
riuscire comunque a portare il maggior numero possibile di nuclei
familiari brasiliani al di fuori della linea della povertà.
E l’Argentina?
L’Argentina merita un approfondimento particolare.
Facciamo un passo indietro: dopo la crisi del debito estero nel corso
degli anni ‘80, con sfumature diverse, la maggior parte dei paesi
latinoamericani nel corso degli anni ‘90 sceglie la via del Washington
Consensus, ovvero del mettere in pratica politiche economiche suggerite,
direttamente o meno, dal Fondo Monetario Internazionale, e accompagnate
dal consenso americano, legate a processi di radicale riduzione della
spesa pubblica, di privatizzazione e liberalizzazioni. In tutti i paesi
avviene ciò, ma nel caso di Brasile e Argentina viene adottata una
misura in più che è la cosiddetta parità tra dollaro e real e dollaro e
peso. Questa misura, lungamente studiata, e nel caso dell’Argentina
accompagnata da misure di liberalizzazione del mercato dei capitali,
comportò da una parte dei fenomeni di deflazione, cioè di discesa dei
prezzi interni rispetto a quelli internazionali, quindi una forte spinta
per i ceti medi all’indebitamento e all’acquisto a rate, in generale
verso l’accesso a un credito apparentemente a basso costo, ma
soprattutto, finita la fase espansiva degli anni ‘90, una graduale fuga
dei capitali. Tra Argentina e Brasile vi è però una importante
differenza: nel 1998 il Brasile del presidente socialdemocratico Enrique
Cardoso, sgancia il real dal dollaro, dichiarando che questa parità,
assolutamente artificiale, danneggia l’economia brasiliana; e così
svalutando la propria valuta, il Brasile inizia questa grande fase
ascendente, che sarà poi cavalcata da Lula. Il Fondo Monetario
Internazionale condannò il Brasile, dicendo che sarebbe andato incontro
a una fase di instabilità. È accaduto invece che il commercio estero
brasiliano ha vissuto una vera e propria un esplosione. Accade
esattamente il contrario nell’Argentina, rimasta agganciata alla parità
peso-dollaro divenuta sempre più insostenibile: gli anni di Menem furono
anni di privatizzazioni e totale distruzione dell’apparato produttivo
argentino. Con la fine del secondo mandato di Menem e l’elezione di De
La Rua l’instabilità economica divenne instabilità sociale, secondo uno
schema tipico della politica argentina, legata ad un ruolo forte che ha
sempre il partito peronista nel polarizzare la vita politica: si arriva
così ai disordini in piazza del 2001-2002, con le dimissioni di De La
Rua, col susseguirsi di vari presidenti fino alla presidenza
ad interim di Dualde del 2002-2003, e soprattutto fino
all’assunzione delle misure estreme in campo finanziario, cioè lo
sganciamento dal dollaro del peso, il congelamento dei conti bancari, i
cosiddetti
corralòn
e
corralito, a
seconda della grandezza del simbolico recinto in cui vengono
“ingabbiati” i risparmi degli argentini. Peccato che con tutto questo
un’economia tra quelle potenzialmente più ricche del mondo, nel 2002 si
ritrovi improvvisamente con il 50% della popolazione sotto la linea
della povertà, una disoccupazione schizzata a oltre il 30%, un crollo
del prodotto interno lordo. Contrariamente a tutte le analisi fatte
allora – e anche alla percezione che ebbi direttamente io in Argentina
nel 2002 – l’economia dà più rapidamente del previsto segni di una
ripresa, che è frutto di vari fattori: alle elezioni politiche del 2003
vince Nestor Kirchner del Partido Justicialista, erede del peronismo.
Kirchner, come molti politici della sua generazione, è stato un
montonero,
ha cioè vissuto quella stagione di violenti conflitti ideologici e di
piazza che furono gli anni ‘70 argentini, che culminarono poi
nell’affermazione della dittatura del 1976. Kirchner prima e su moglie
Cristina Fernàndez de Kirchner dopo, assumono una posizione di politica
economica internazionale completamente diversa da quella di Menem: essi
ricontrattano la posizione debitoria dell’Argentina, partendo dalla
considerazione che non tutto il debito internazionale debba essere
ripagato, soprattutto perché si tratta di un debito sottoscritto a
condizioni assolutamente insostenibili, attraverso la complicità
fraudolenta tra la grande finanza internazionale e il governo argentino.
Il debito argentino deve pertanto essere rivalutato in base non solo al
suo effettivo valore, ma anche all’effettiva capacità di pagamento del
paese. Questa scelta, che si accompagna a una fase di ripresa del
consumo interno e delle esportazioni, soprattutto della soia, fanno sì
che la situazione economica si inverte, così come si inverte
l’attitudine del governo: da una posizione di forte esclusione e
marginalizzazione verso i ceti più poveri, quale era stata quella
dell’amministrazione Menem, diventa invece con i Kirchner un’attitudine
di robusto investimento di capitali e di risorse nell’economia, di
ripresa del potere di acquisto anche degli strati più poveri attraverso
una forte politica di trasferimento alle famiglie. Si tratta peraltro di
una strategia economica accompagnata da importanti interventi di natura
politica, non da ultimo contro le leggi fatte all’indomani del ritorno
alla democrazia per chiudere i processi contro i militari protagonisti
della dittatura del 1976-83, la Ley de Punto Final (1986) e Ley de
Obediencia Debida (1987). Il governo Kirchner riapre i termini per
effettuare i processi contro i responsabili delle nefandezze della
dittatura militare, che per la prima volta iniziano ad esser condannati,
ciò che diffonde fiducia nel potere politico.
Ma perché l’Argentina è un caso a sé stante rispetto
all’andazzo generale?
La radicalizzazione dello scontro politico in Argentina
ha fatto sì che, soprattutto negli anni della presidenza di Cristina
Fernàndez, l’opposizione si sia coagulata intorno al più grande gruppo
imprenditoriale dei mezzi di comunicazione, proprietari ei maggiori
quotidiani argentini Clarìn e La Naciòn, che hanno bombardato la
presidenza argentina di discredito. Un’opposizione alla quale d’altro
canto il governo ha risposto prendendo anche misure di tipo autoritario,
favorendo una legge contro la concentrazione dei mezzi di comunicazione
che era chiaramente uno strumento di lotta politica. Il secondo aspetto
è quello legato al fatto che l’Argentina continua ad essere la bestia
nera del Fondo Monetario Internazionale e della finanza internazionale:
un paese che ha un ritmo di crescita che si aggira nell’ultimo decennio
sempre intorno all’8-9% annuo, che ha un debito pubblico del 25%,
bassissimo, che ha un livello di esportazioni molto forte, continua a
essere qualificato come un paese di totale inaffidabilità, mentre invece
il Giappone che ha il 200% di rapporto tra debito pubblico e
pil ed è in una situazione
di forte contrazione dell’economia, viene considerato come paese
affidabile. Questi giudizi di affidabilità o non affidabilità sono
quindi squisitamente politici e non economici. Vi sono poi delle
indubbie difficoltà di natura monetaria. È possibile che le politiche di
trasferimento alle famiglie attuate dal governo stiano surriscaldando
l’economia argentina. Che cosa vuol dire? Se la quantità di moneta
immessa in un sistema cresce nella stessa quantità in cui cresce la
produzione di beni e servizi, questo vuol dire che si stanno immettendo
nel sistema mezzi di pagamento proporzionati ai beni che ci sono. Se
invece la quantità dei beni cresce poco o addirittura non cresce, ma
aumenta la moneta, vuol dire che ci sarà concorrenza tra le persone
detentori di moneta per avere beni scarsi, e questo fa aumentare il
livello dei prezzi. Nel caso dell’Argentina, quindi, dopo la forte
crescita della produttività dell’economia registrata fino al 2008-2010,
stanno sorgendo delle difficoltà legate ai meccanismi di redistribuzione
della ricchezza: se la produttività, anche per effetto della crisi
internazionale, si sta riducendo, mentre invece si continua a sostenere
l’economia con immissione di capitali, questo fa sì che i prezzi
aumentino e che vi sia inflazione. Tuttavia questo problema è anche
legato al fatto che essendo schierati nettamente contro Cristina
Kirchner i grandi gruppi finanziari, le banche, le imprese e i giornali,
una parte del paese sta portando capitali all’estero, nonostante le
leggi che lo proibiscono, e quindi l’inflazione è anche effetto della
fuoriuscita dei capitali.
Con la morte di Chavez e l’elezione di Maduro in
Venezuela cambia qualcosa in questo quadro?
Per rispondere a questa domanda è opportuno ricordare
che la fase di cambiamento che sta vivendo, e che credo continuerà
ancora a vivere, l’America Latina è molto legata a figure di leader
politici carismatici, costitutive dell’identità dei governi e degli
orientamenti di politica economica che essi incarnano. Il fatto che una
figura così di riferimento come Chavez sia venuta meno, getta un
elemento di dubbio sulla continuità di questa strategia. Tuttavia il
mito di Chavez mi sembra destinato a sopravvivere
come un idolo dei movimenti di
sinistra europei, come un campione dell’anticapitalismo. Certo, tenendo
presente che il capitalismo pervade l’intero pianeta, è lecito
domandarsi quanto di questa percezione corrisponda a realtà.
Diciamo che la cultura latinoamericana ha nel tempo
reiteratamente fornito dei modelli, ma forse sarebbe opportuno parlare
di idoli, alla sinistra, alla cultura progressista europea.
Ma perché accade
questo, da Fidel Castro a Che Guevara, da Chavez a Evo Morales?
La sensazione che si ha è che, rispetto a un mondo nel
quale non accade nulla o accade molto poco in campo politico, quale è
oggi l’Europa, l’America Latina, con le sue infinite contraddizioni, è
una terra in cui di cose comunque ne stanno accadendo parecchie, un
continente che trasmette una forte sensazione di dinamismo politico,
ideologico, economico. Partendo da questo pregiudizio positivo, ad
esempio, quanti oltreoceano sono stati sostenitori di Chavez, hanno teso
a enfatizzare in lui soprattutto gli aspetti più positivi: la
rivendicazione, rispetto agli Stati Uniti, di un’autonomia politica per
quanto riguarda l’uso delle risorse, e l’esaltazione dell’identità
latinoamericana, del cosiddetto indigenismo, elemento molto forte anche
in Morales; allo stesso tempo essi hanno dato poca importanza agli
aspetti meno positivi di Chavez, come in politica interna le forme di
gestione autoritaria del potere, ad esempio attraverso la chiusura delle
riviste e degli organi di informazione che gli erano contrari, e in
ambito internazionale, i rapporti non chiarissimi, ad esempio, con le
farc, le Forze Armate
Rivoluzionarie della Colombia. Il minimo che si possa dire è che Chavez
è stato molto spregiudicato nel muoversi nel campo tanto della politica
interna come internazionale. E tuttavia, pur con queste ombre, la luce
principale che incarnava Chavez era quella del possibile cambiamento. A
onor del vero nel Venezuela della corruzione e dell’immobilismo degli
anni che hanno preceduto la sua ascesa, comunque Chavez ha rappresentato
una novità e un forte volano per l’America latina. Stesso discorso per
Morales: è indubbio che incarna una certa demagogia indigenista, ma, pur
con le sue contraddizioni, attraverso la nazionalizzazione delle risorse
del paese, Morales ha messo in atto un meccanismo di redistribuzione
della ricchezza, a beneficio non solo di gruppi sociali,
tradizionalmente marginalizzati, ma anche della popolazione di intere
porzioni del territorio nazionale, che ne erano sempre state escluse. In
conclusione, credo che questa mitologia sia in parte giustificata e in
parte no, ma nonostante, tutto le ombre hanno meno peso, rispetto ad un
fattore di traino ideale ed ideologico. In realtà l’Europa ha sempre
l’abitudine di proiettare i propri sogni e i propri incubi sugli altri,
senza mai andare a vedere in effetti quello che gli altri sono. Sulla
stampa europea, e in generale sulla comunicazione occidentale, c’è un
sostanziale disinteresse per l’America latina, salvo cogliere qua e là
qualche elemento, non ci sono analisi serie. È un po’ come quando si
dice che in India quest’anno sono stati venduti 30.000 computer e quindi
le classi medie stanno crescendo, dopodiché 750 milioni di indiani non
hanno accesso all’acqua potabile. Quindi l’analisi è sempre episodica,
un’analisi superficiale, non coglie la complessità. Perché poi nella
complessità si potrebbero invece enfatizzare gli aspetti positivi, ad
esempio trovo molto più interessante di Chavez il presidente di un
piccolo paese come l’Uruguay, Mujica, oppure un economista come Correa,
presidente dell’Ecuador, figure meno eclatanti e vistose, a capo di
comunità più piccole, ma non per questo meno interessanti o
significative.
Focus Uruguay: Mujica è salito alla ribalta in
Occidente in maniera virale sui social network per il suo intervento
all’Onu.
Mujica
è un personaggio che ha una storia interessante, che negli anni ‘70 ha
fatto parte dei movimenti d’opposizione alla dittatura e in quanto tale
è stato perseguitato. Diciamo che in genere le persone, quando hanno
pagato sulla propria pelle, hanno più coerenza, come dimostra anche il
caso di Dilma Rousseff, che è stata appunto perseguitata, incarcerata e
torturata. Dal punto di vista economico, l’Uruguay è inserito nella fase
di espansione e di crescita dell’Argentina, perché è un paese
esportatore di soia, senza però avere tutte le tensioni interne
dell’Argentina, non c’è il peronismo, ed è senz’altro un buon esempio di
stabilità, però stiamo sempre parlando di un piccolo paese, con tre
milioni di abitanti, la provincia di Roma…
Un altro caso interessante è quello dell’Ecuador del
presidente Rafael Correa?
Correa è un economista dalle posizioni molto eterogenee
rispetto all’atteggiamento dominante nell’economia, specie per quanto
riguarda l’attenzione verso gli strati più bassi della popolazione: ad
esempio, lo scorso anno, quando è stato scelleratamente dato il premio
Nobel per la Pace all’Unione Europea, uno dei candidati era proprio il
presidente dell’Ecuador e il suo vice, poiché questo piccolo paese
andino ha fatto uno straordinario sforzo per l’abbattimento delle
barriere architettoniche e l’inserimento dei disabili nella vita
sociale. Analogamente sono assai interessanti di Correa le politiche di
forte tutela e valorizzazione dell’ambiente e della natura, anche a
scapito dello sfruttamento delle risorse; ad esempio, sotto uno dei
principali parchi dell’Ecuador, è stato trovato un grande giacimento di
petrolio, ma la scelta del governo è stata quella di proteggere il parco
a scapito dello sfruttamento del giacimento, lanciando al contempo una
sottoscrizione internazionale per riunire le risorse che non rendano
necessario questo intervento.
E in Colombia tutto si gioca con la vicenda della fine
della guerra civile?
La Colombia è sconvolta da una spirale cinquantennale
di violenza tra farc,
esercito e gruppi paramilitari. Il presidente Santos ha sorpreso
positivamente in questo senso perché è stato molto determinato nel
riuscire ad avviare, attraverso la mediazione di Cuba, delle trattative
di pace, e sembra che veramente egli voglia passare alla storia per
mettere la parola fine alla guerriglia delle
farc. I suoi detrattori
dicono che in realtà sta semplicemente raccogliendo i frutti della fase
di intensa campagna militare fatta da Uribe, il suo predecessore, ed è
vero che senz’altro le farc
hanno subito fortissimi colpi, però questo tipo di conflitti,
soprattutto in paesi che hanno delle aree così impenetrabili come la
Colombia, raramente possono essere risolti solo in termini militari.
Mentre dal punto di vista interno quello di Santos non sembra un governo
che brilli particolarmente né per liberismo né per iper-progressismo,
adotta sostanzialmente una linea moderata, ma certo più equidistante
dagli Stati Uniti di quanto non fosse la Colombia di Uribe.
Rispetto a un occidente che arranca nelle maglie della
crisi, l’America Latina è in una fase di crescita e di forte
integrazione commerciale. Cosa accade?
Tradizionalmente il principale interlocutore
dell’America Latina sono stati gli Usa. Ora per la prima volta questo
non è più vero, sia perché ci sono legami diretti, soprattutto in
Brasile, che vanno al di là delle mediazioni commerciali abitualmente
svolte dalle grandi multinazionali americane, ma anche perché gli Stati
Uniti stessi hanno cambiato strategia. Nell’impossibilità di realizzare
l’antico progetto dell’afta,
con la seconda amministrazione Obama, è stato proposto un accordo di
cooperazione commerciale con l’Europa, che peraltro riprende un antico
progetto presentato per la prima volta da Kennedy al principio egli anni
‘60. D’altro canto, come il caso dell’Argentina dimostra, la pressione
dei mercati internazionali può alla lunga avere un peso forte nel
provocare l’instabilità di questi paesi. L’aspetto che potrebbe incidere
di più e più positivamente è senz’altro quello del perfezionamento della
grande area commerciale continentale che di fatto già esiste, dove non
si tratta tanto della circolazione dei beni primari, né dei manufatti
industriali, ma della grande sfida della circolazione delle risorse
energetiche, rispetto alla quale un elemento da considerare è comunque
la presenza nel continente della Cina.
Cosa cerca di fare la Cina in America Latina?
La Cina sta cercando di mettere a punto, anche se in un
modo meno palese di come ha fatto nel continente africano, la sua
presenza sul territorio latinoamericano: per esempio, in Ecuador, paese
senza capitali, strumenti e tecnologie, realizza infrastrutture in
cambio dello sfruttamento di risorse naturali per un certo numero di
anni, fornendo tutto, anche la manodopera. Sono contratti che poi
permangono nel tempo. L’idea che le risorse naturali del continente
restino nel continente stesso cozza evidentemente con questa
penetrazione molto insinuante della Cina, e non è detto che questa
contraddizione si possa risolvere e non sia invece destinata a diventare
un altro elemento di potenziale instabilità.
E l’area centroamericana e caraibica?
Sembra la parte del continente americano in cui ogni
processo di transizione è più lento. Mentre la stagione delle dittature
in America Latina si è conclusa, la violenza permane tuttora in
Honduras, in Salvador, in Guatemala, e vi è poi il difficile
raggiungimento di un equilibrio democratico in Nicaragua e l’impalpabile
e contraddittoria transizione a Cuba, tutti elementi che fanno dell’area
caraibica l’area più in ritardo sul resto del continente, per non
parlare di un caso limite come quello di Haiti.
Il caso del Messico.
Dopo una pluridecennale situazione di totale
stagnazione politica, legata al lungo potere del
pri, il Partito
Rivoluzionario Istituzionale, nel 2000, per la prima volta, un regime
sostanzialmente mono-partitico implode su se stesso e per due mandati
presidenziali di 6 anni vengono eletti altrettanti esponenti del Partito
cattolico di destra, il Pan: Vicente Fox e Felipe Calderon. In realtà
questi due mandati riescono a scalfire molto poco del controllo
realizzato tradizionalmente dal
pri sull’apparato statale, essendo un partito colmo di
corruzione, che permea tutti gli aspetti della vita politica, e
caratterizzato da una grande capacità di trovare accordi con le varie
forme di criminalità e attività illegali presenti in Messico. Con le
elezioni del 2012 si sono prodotte delle importanti novità. Il candidato
che già nel 2006 era arrivato quasi a vincere, Lòpez Obrador, del
Partido de los Trabajadores, si è impegnato a non farsi scippare
un’altra volta con brogli elettorali l’elezione. Ma allo stesso tempo il
pri era fortemente
intenzionato a vincere. Quella delle elezioni presidenziali del 2012
poteva essere davvero un’occasione unica per il Messico, per poter
uscire dall’eterno cono d’ombra degli Stati Uniti, e rientrare a pieno
titolo nella “Pink Wave” (anche perché Lòpez Obrador, forte di un largo
appoggio popolare, dopo altri 6 anni sarebbe stato troppo anziano per
concorrere ancora credibilmente alle elezioni presidenziali). Ma contro
Lopez Obrador, il
pri
ha iniziato a lavorare alla costruzione di un suo candidato già molto
tempo prima delle elezioni: Enrique Peña Nieto. L’attuale presidente del
Messico è un personaggio squisitamente televisivo, un bell’uomo con il
ciuffo con la brillantina, che sembra uscito da una telenovela ma del
tutto incapace di formulare una sola idea. Ad esempio, in una
trasmissione televisiva in cui gli è stato chiesto qual fosse l’ultimo
libro che aveva letto, dopo molti minuti di imbarazzante silenzio ha
risposto: «La Bibbia». Episodio piccolo, ma rivelatore. È un personaggio
inconsistente: da solo non esiste.
E chi c’è quindi dietro Peña Nieto?
Dietro Peña Nieto c’è uno dei personaggi più sinistri
della storia del Messico, quel Salinas de Gortari che negli anni ‘90
portò il Messico a una terribile crisi finanziaria, la cosiddetta “crisi
della tequila”, e che è considerato uno dei peggiori della non
lusinghiera schiera di presidenti del Messico, responsabile del crollo
del partito che portò per la prima volta alla presidenza non un
esponente del
pri.
Salinas de Gortari era un pupillo del Fondo Monetario Internazionale,
grande campione delle privatizzazioni, delle liberalizzazione, del
libero fluire dei mercati e dei capitali... Per riconquistare la
presidenza il Partito Rivoluzionario Istituzionale ha giocato su due
piani: la costruzione di questo pupazzo elettorale, Enrique Peña Nieto,
uomo dal passato sinistro, con la storia non chiara della morte di sua
moglie in cui ha avuto un ruolo assai opaco, ma allo stesso tempo
personaggio su cui tutti i mezzi di comunicazione messicani hanno
cominciato a cucire un’immagine, attraverso infinite partecipazioni a
talk-show
e dibattiti ma anche grazie alla storia d’amore con un’attrice, che ha
appassionato i cultori di cronache rosa per anni. In realtà un
precedente politico ce l’ha, e non è brillante: Enrique Peña Nieto è
stato governatore del distretto federale legando il suo nome a un
episodio particolarmente sinistro. C’era un progetto per la costruzione
di un nuovo aeroporto per Città del Messico, che vedeva l’opposizione
delle popolazioni dell’area, in particolare di una località chiama
Atenco, che intendeva preservare dalla colata di cemento le proprie
terre fertili. Durante una manifestazione di protesta alla costruzione
dell’aeroporto, un poliziotto fu aggredito e malmenato dai manifestanti.
Peña Nieto è considerato responsabile, in qualità di governatore, per
aver tollerato che, in risposta a questa aggressione, per tre giorni la
polizia del distretto federale ha avuto mano libera per picchiare e
violentare indisturbatamente la popolazione di Atenco, come misura di
ritorsione per l’aggressione del poliziotto. Questa vicenda ha avuto
notevole risonanza e sebbene Peña Nieto sia dichiarato sempre estraneo,
gli è rimasta appiccicata addosso, come unica cosa degna di essere
ricordata nella sua attività politica, ed è tornata di attualità durante
la campagna elettorale del 2012. Nel fare conferenze elettorali in giro
per il Messico, a un certo punto Peña Nieto ha parlato in un’università
dei gesuiti a Città del Messico dove gli studenti lo hanno accolto con
slogan e cartelli che ricordavano appunto l’episodio di Atenco. Peña
Nieto si è sottratto al confronto e ha dichiarato che quelli non fossero
studenti, ma dei provocatori. Per tutta risposta gli studenti
dell’università hanno fatto un video che ha avuto una fulminea
diffusione in tutto il paese, ed anche in Europa: uno ad uno sfilavano
davanti alla telecamera 131 studenti, che dicevano «io mi chiamo Tizio,
questa è la mia matricola, sono uno studente e penso che Peña Nieto sia
un delinquente». Questo video ha fatto il giro del Messico, ma
soprattutto ha generato il movimento del “Yo soy el 132”, io sono il
numero 132 in aggiunta agli altri 131 del video. Come questi 131, decine
di migliaia di giovani si sono schierati contro Peña Nieto e a fianco
del candidato d’opposizione, Lòpez Obrador, intorno al quale, dunque,
non solo si è coalizzata la sinistra, ma si è realizzata una spaccatura
generazionale: la parte più viva, formata, aperta verso il mondo, dei
giovani universitari si è opposta al ritorno, che poi c’è stato, di un
sistema di corruzione, che non premia il merito, che non premia
dinamiche di ascesa sociale, se non con la delinquenza, e ha nettamente
rigettato il ritorno di Peña Nieto. Ma nella campagna elettorale
messicana del 2012 ha giocato un secondo aspetto, cioè quello della
lotta al narcotraffico. Nel 2006 l’elezione di Felipe Calderòn è stata
fortemente sospettata di brogli elettorali, che lo hanno fatto vincere
su Lòpez Obrador con uno scarto minimo. Pertanto, da presidente Felipe
Calderòn ha cercato a posteriori una legittimazione che le urne non gli
avevano dato, e la trovata con la cosiddetta guerra al narcotraffico. Il
Messico è luogo di passaggio dalla Colombia della droga verso gli Stati
Uniti; con il
pri
questo passaggio avveniva in un modo, tutto sommato, pacifico e
indisturbato. Calderon si mette d’accordo invece con George W. Bush per
fare la guerra al narcotraffico schierando l’esercito, con il bel
risultato che, siccome l’unica cosa che non manca ai narcotrafficanti
sono i soldi e le armi, il Messico si è trasformato in un campo di
battaglia che negli ultimi 7 anni ha provocato 60.000 morti, dei quali
solo una piccola parte legata al narcotraffico, ma il resto causati
dalla fortissima violenza che si è estesa in tutto il territorio;
infatti, i soldati mandati a formarsi in Usa, una volta tornati venivano
avvicinati dai narcotrafficanti che gli offrivano il doppio e passavano
così dall’altra parte. Una follia di violenza senza pari. La grande
promessa elettorale era che se avesse vinto il
pri,
notoriamente alleato con il narcotraffico, la guerra sarebbe finita. In
cambio il
pri
ha avuto in questa campagna elettorale tanti soldi dal narcotraffico,
utilizzandoli per acquistare i voti e ripartendo in cambio milioni di
tessere di acquisto dei supermercati. Questi sono stati numeri un po’
troppo grandi perché le cose passassero inosservate, e questa cosa è
incominciata ad uscire fuori, se ne sono venuti che è stato tutto un
malinteso, che in realtà era un progetto di aiuto per le famiglie più
povere... Il vero punto è un altro: per la legge elettorale messicana,
l’acquisto del voto non è un motivo sufficiente per la cancellazione dei
risultati elettorali, ma soltanto un motivo di pagamento di una multa, e
i soldi al
pri
non mancano.
Che c’entra tutto questo rispetto al contesto generale
del mondo latinoamericano?
Peña Nieto è espressione di un mondo di interessi
legati a privatizzazioni, accesso a risorse di multinazionali straniere,
quindi non potrebbe esser più lontano dalla Pink Wave. Però questa
elezione del 2012 ha per la prima volta fatto emergere che c’è un altro
Messico che sta nascendo, una folla di studenti universitari che si sono
per la prima volta fortemente esposti. In realtà Peña Nieto ha vinto con
un margine abbastanza ridotto con tutti i brogli e la corruzione che ci
sono stati.
Recentemente lei è stato in Spagna. Cosa ha visto?
Tre cose. Primo punto: la Spagna non è un paese entrato
progressivamente in crisi, fino a un certo giorno è stato fatto credere
agli spagnoli che tutto andasse bene e poi, da un giorno a l’altro, è
stato detto loro da adesso c’è la crisi e quindi vi riduciamo gli
stipendi del 10%, ecc. È stato un cambio totale, la cui responsabilità
evidentemente è del mondo politico che ha, per quanto potuto, occultato
la verità. Punto secondo: in questa fase di difficoltà economica e
sociale, sono rimasto molto colpito dal fatto che il potere politico sta
andando con una mano molto dura e molto forte contro l’opposizione delle
piazze. Cioè, la polizia picchia, ma forte. In confronto, i nostri
celerini sono le orsoline! È proprio una specie di rigurgito franchista.
Tutti me lo dicono, nessuno dopo 40 anni di democrazia pensava
succedesse, sembra di rivedere lo Scelba dei tempi d’oro. È una violenza
che nessuno si aspettava. Il terzo punto è che la Spagna dopo 35 anni di
Costituzione democratica sembrava molto solida, avendo uno schema
politico bipartitico, ma è un paese che sta andando letteralmente in
pezzi. Il Partito Socialista è uscito dall’esperienza di Zapatero ai
minimi termini, perché soprattutto nel secondo mandato, secondo me,
l’attività di governo è stata molto negativa. Sono sì state fatte alcune
leggi, però, la gestione è stata pessima. Questo ceto politico ora al
governo ha avuto la maggioranza assoluta un anno fa e adesso è
assolutamente minoritario perché gli scandali di corruzione li stanno
travolgendo. I nazionalismi autonomistici, verso i quali non ho nessuna
simpatia perché penso che siano dei manipolatori di coscienze, stanno
letteralmente impazzendo come delle schegge. Quindi l’insieme è davvero
molto grave e soprattutto la somma di queste tre cose, ovvero il
carattere repentino della crisi, la forte spinta repressiva e la
frantumazione del sistema politico rendono il quadro molto instabile e
del tutto imprevedibile circa i suoi sviluppi futuri. Se poi penso al
paese da cui potrebbe partire una scintilla di contestazione rispetto
alle politiche adottate in Europa in questo momento, credo che possa
essere proprio la Spagna, seguita a ruota dall’Italia e dal Portogallo e
da lì in Inghilterra e in Francia… forse sarà quello il momento in cui
l’Europa recupererà un po’ della sua dignità perduta nel confronto con
quanto sta accadendo oltreoceano…
APRILE 2013
*Esperto di sviluppo economico del mondo
iberoamericano, è professore ordinario di Storia economica, insegna
Sistemi economici e finanziari del
xx secolo presso l’Università degli Studi Roma Tre.