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10
Maggio 2013

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IL CAMMINO DELL'AMERICA LATINA TRA IDOLATRIA POLITICA E CRESCITA ECONOMICA

Gaetano Sabatini* intervistato da Massimo Ammendola

 

Prof. Sabatini, ci fa un quadro generale della situazione politica in Sud America, cosa sta accadendo?

 

L’elemento saliente della situazione politica del continente sudamericano, per la prima volta da molte decadi, è una sostanziale omogeneità di linee di politica economica e di politica internazionale, con due sole eccezioni, il Cile di Piñera e parzialmente la Colombia di Santos.

Questa omogeneità politica, definita da alcuni commentatori la “Pink Wave”, l’onda rosa, ad indicare un orientamento progressista ma non marxista, e con connotati specifici in ciascuna area, come l’indigenismo di Evo Morales, il bolivarismo di Chavez e ora di Maduro, l’ambientalismo di Correa etc., si basa su alcuni punti fondamentali comuni. Il primo di essi è il riposizionamento degli assi portanti della politica estera all’interno dello stesso continente latino-americano, privilegiando la creazione di una rete di rapporti interni, innanzitutto in campo commerciale. Perché, contro l’idea promossa già da Bush padre, Clinton e Bush figlio, di creare un’area di libero scambio tra tutti i paesi del continente americano, da Nord a Sud, di cui al principio degli anni ‘90 è stata realizzata solo la parte nord-americana, con il nafta, North American Free Trade Agreement, ma destinata a diventare l’afta, l’American Free Trade Agreement, negli stessi anni è stato creato il mercosur, il mercato comune dei paesi del cono Sud, Brasile, Argentina, Uruguay e Paraguay, al quale hanno progressivamente aderito Bolivia, Cile, Perù, Colombia, Ecuador e da ultimo, nel 2012, il Venezuela. Il mercosur è stato anche l’antesignano della formazione dell’unasur, l’Unione delle Nazioni Sudamericane, comunità politica ed economica, allargata alla maggior parte delle nazioni del continente sud americano, nonché al Messico e a Panama.

In funzione di una maggior coesione continentale, quindi, e contro la tradizionale proiezione di ognuno dei paesi latinoamericani verso propri interlocutori privilegiati.

Il secondo aspetto di omogeneità è legato alla gestione di una fase di crescita economica pronunciata, in taluni casi, come il Brasile, con tassi di crescita nettamente più alti degli altri paesi del Nord America o europei, e più in linea con quelli di altri paesi emergenti dell’Asia. Questa crescita si basa su una forte espansione delle esportazioni, anche legate a questo grande mercato continentale, e del consumo interno. E questa ci porta al terzo punto di affinità: la maggior parte di questi paesi stanno realizzando meccanismi di redistribuzione interna della ricchezza. Lo fanno attraverso la revisione dei meccanismi di imposizione fiscale, la crescita dei trasferimenti e dei servizi offerti agli strati più bassi della popolazione, ma anche riappropriandosi delle proprie risorse. In questo senso i casi più chiari sono quelli del Venezuela, già dall’inizio della decade scorsa con Chavez, e di Evo Morales in Bolivia, con la nazionalizzazione delle risorse minerarie ed energetiche, e attraverso questo il finanziamento di grossi programmi di scolarizzazione, di accrescimento delle disponibilità di risorse per forme di assistenza e previdenza pensionistica, di realizzazione di infrastrutture.

 

Il caso più studiato e sotto i riflettori è quello del Brasile, uno dei Brics.

 

Sono contrario al concetto dei Brics, categoria nella quale si sommano cose che non hanno a che vedere l’una con l’altra: sono fermamente convinto che il livello di sviluppo delle strutture democratiche e istituzionali di un paese incida molto sulla qualità della vita dei suoi abitanti e sullo stesso sviluppo economico. Quindi una categoria che mette insieme un paese totalitario, la Cina, un paese autoritario, la Russia, dei paesi in transizione verso una democrazia compiuta, come l’India e il Sudafrica, e infine un paese con una struttura democratica consolidata da quasi trent’anni come il Brasile, non ha ragion d’essere. A questo si somma l’intrinseca differenza di queste economie dal punto di vista della consistenza demografica: Cina e India hanno ciascuna un miliardo e trecento milioni di abitanti, mentre il Sudafrica ne ha cinquanta milioni. Torniamo al Brasile: dalla fine della presidenza Cardoso, cioè dall’elezione di Lula nel 2002, e ancora dal 2010, cioè dalla vittoria del candidato del Partido de Trabajadores, Dilma Rousseff, il Brasile rappresenta un caso unico per la sua traiettoria di netta crescita economica, in termini non solo di aumento del pil, che in questo paese tradizionalmente si accompagnava a una fortissima concentrazione della ricchezza, ma anche da una migliore e maggiore ripartizione del benessere. Naturalmente stiamo parlando di un processo in itinere: il Brasile resta una nazione dove circa metà della popolazione si colloca intorno alla linea della povertà. Ma a partire dalla prima presidenza Lula vengono messi in atto una serie di meccanismi di inclusione sociale: il caso più evidente è quello dell’educazione, specie quella universitaria, tradizionalmente appannaggio dei ceti più alti, e ora sempre più diffusa nei ceti medi urbani, che ha fatto segnare un netto miglioramento del capitale umano. Stesso discorso per la scolarizzazione primaria: un altro obiettivo dell’amministrazione Lula e adesso Rousseff, è quello di fare accedere all’istruzione i figli degli strati più bassi e dei gruppi più marginali della popolazione. Questo è un investimento che, nell’arco di una o due generazioni può cambiare la storia di un paese. Lo stesso discorso vale naturalmente per la tutela dei diritti dei lavoratori.

 

Che tipo di interventi? Parliamo di aumenti salariali, o anche di aiuto statale e di interventi di welfare?

 

Giusta precisazione, sono due ordini di interventi diversi. Da una parte, a partire dagli anni di Lula, sono state riviste e consolidate una serie di tutele dei lavoratori: tendenzialmente, dovuta alla forte crescita della produttività dell’industria brasiliana, c’è stata anche una crescita dei salari; e salari e produttività devono andare insieme, se i salari crescono più della produttività e non c’è una situazione salariale molto bassa di partenza c’è un rischio di inflazione, però nel caso del Brasile sono cresciuti insieme. Però, allo stesso tempo, il governo Lula ha intrapreso e ampliato delle misure che erano già state introdotte ai tempi dell’amministrazione Cardoso. La più famosa delle quali è la cosiddetta Bolsa Família, letteralmente la “borsa famiglia”, è l’aiuto in virtù del quale le famiglie più indigenti hanno un sostegno nell’acquisto di beni di consumo. L’idea è quella di riuscire comunque a portare il maggior numero possibile di nuclei familiari brasiliani al di fuori della linea della povertà.

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E l’Argentina?

 

L’Argentina merita un approfondimento particolare. Facciamo un passo indietro: dopo la crisi del debito estero nel corso degli anni ‘80, con sfumature diverse, la maggior parte dei paesi latinoamericani nel corso degli anni ‘90 sceglie la via del Washington Consensus, ovvero del mettere in pratica politiche economiche suggerite, direttamente o meno, dal Fondo Monetario Internazionale, e accompagnate dal consenso americano, legate a processi di radicale riduzione della spesa pubblica, di privatizzazione e liberalizzazioni. In tutti i paesi avviene ciò, ma nel caso di Brasile e Argentina viene adottata una misura in più che è la cosiddetta parità tra dollaro e real e dollaro e peso. Questa misura, lungamente studiata, e nel caso dell’Argentina accompagnata da misure di liberalizzazione del mercato dei capitali, comportò da una parte dei fenomeni di deflazione, cioè di discesa dei prezzi interni rispetto a quelli internazionali, quindi una forte spinta per i ceti medi all’indebitamento e all’acquisto a rate, in generale verso l’accesso a un credito apparentemente a basso costo, ma soprattutto, finita la fase espansiva degli anni ‘90, una graduale fuga dei capitali. Tra Argentina e Brasile vi è però una importante differenza: nel 1998 il Brasile del presidente socialdemocratico Enrique Cardoso, sgancia il real dal dollaro, dichiarando che questa parità, assolutamente artificiale, danneggia l’economia brasiliana; e così svalutando la propria valuta, il Brasile inizia questa grande fase ascendente, che sarà poi cavalcata da Lula. Il Fondo Monetario Internazionale condannò il Brasile, dicendo che sarebbe andato incontro a una fase di instabilità. È accaduto invece che il commercio estero brasiliano ha vissuto una vera e propria un esplosione. Accade esattamente il contrario nell’Argentina, rimasta agganciata alla parità peso-dollaro divenuta sempre più insostenibile: gli anni di Menem furono anni di privatizzazioni e totale distruzione dell’apparato produttivo argentino. Con la fine del secondo mandato di Menem e l’elezione di De La Rua l’instabilità economica divenne instabilità sociale, secondo uno schema tipico della politica argentina, legata ad un ruolo forte che ha sempre il partito peronista nel polarizzare la vita politica: si arriva così ai disordini in piazza del 2001-2002, con le dimissioni di De La Rua, col susseguirsi di vari presidenti fino alla presidenza ad interim di Dualde del 2002-2003, e soprattutto fino all’assunzione delle misure estreme in campo finanziario, cioè lo sganciamento dal dollaro del peso, il congelamento dei conti bancari, i cosiddetti corralòn e corralito, a seconda della grandezza del simbolico recinto in cui vengono “ingabbiati” i risparmi degli argentini. Peccato che con tutto questo un’economia tra quelle potenzialmente più ricche del mondo, nel 2002 si ritrovi improvvisamente con il 50% della popolazione sotto la linea della povertà, una disoccupazione schizzata a oltre il 30%, un crollo del prodotto interno lordo. Contrariamente a tutte le analisi fatte allora – e anche alla percezione che ebbi direttamente io in Argentina nel 2002 – l’economia dà più rapidamente del previsto segni di una ripresa, che è frutto di vari fattori: alle elezioni politiche del 2003 vince Nestor Kirchner del Partido Justicialista, erede del peronismo. Kirchner, come molti politici della sua generazione, è stato un montonero, ha cioè vissuto quella stagione di violenti conflitti ideologici e di piazza che furono gli anni ‘70 argentini, che culminarono poi nell’affermazione della dittatura del 1976. Kirchner prima e su moglie Cristina Fernàndez de Kirchner dopo, assumono una posizione di politica economica internazionale completamente diversa da quella di Menem: essi ricontrattano la posizione debitoria dell’Argentina, partendo dalla considerazione che non tutto il debito internazionale debba essere ripagato, soprattutto perché si tratta di un debito sottoscritto a condizioni assolutamente insostenibili, attraverso la complicità fraudolenta tra la grande finanza internazionale e il governo argentino. Il debito argentino deve pertanto essere rivalutato in base non solo al suo effettivo valore, ma anche all’effettiva capacità di pagamento del paese. Questa scelta, che si accompagna a una fase di ripresa del consumo interno e delle esportazioni, soprattutto della soia, fanno sì che la situazione economica si inverte, così come si inverte l’attitudine del governo: da una posizione di forte esclusione e marginalizzazione verso i ceti più poveri, quale era stata quella dell’amministrazione Menem, diventa invece con i Kirchner un’attitudine di robusto investimento di capitali e di risorse nell’economia, di ripresa del potere di acquisto anche degli strati più poveri attraverso una forte politica di trasferimento alle famiglie. Si tratta peraltro di una strategia economica accompagnata da importanti interventi di natura politica, non da ultimo contro le leggi fatte all’indomani del ritorno alla democrazia per chiudere i processi contro i militari protagonisti della dittatura del 1976-83, la Ley de Punto Final (1986) e Ley de Obediencia Debida (1987). Il governo Kirchner riapre i termini per effettuare i processi contro i responsabili delle nefandezze della dittatura militare, che per la prima volta iniziano ad esser condannati, ciò che diffonde fiducia nel potere politico.

 

Ma perché l’Argentina è un caso a sé stante rispetto all’andazzo generale?

 

La radicalizzazione dello scontro politico in Argentina ha fatto sì che, soprattutto negli anni della presidenza di Cristina Fernàndez, l’opposizione si sia coagulata intorno al più grande gruppo imprenditoriale dei mezzi di comunicazione, proprietari ei maggiori quotidiani argentini Clarìn e La Naciòn, che hanno bombardato la presidenza argentina di discredito. Un’opposizione alla quale d’altro canto il governo ha risposto prendendo anche misure di tipo autoritario, favorendo una legge contro la concentrazione dei mezzi di comunicazione che era chiaramente uno strumento di lotta politica. Il secondo aspetto è quello legato al fatto che l’Argentina continua ad essere la bestia nera del Fondo Monetario Internazionale e della finanza internazionale: un paese che ha un ritmo di crescita che si aggira nell’ultimo decennio sempre intorno all’8-9% annuo, che ha un debito pubblico del 25%, bassissimo, che ha un livello di esportazioni molto forte, continua a essere qualificato come un paese di totale inaffidabilità, mentre invece il Giappone che ha il 200% di rapporto tra debito pubblico e pil ed è in una situazione di forte contrazione dell’economia, viene considerato come paese affidabile. Questi giudizi di affidabilità o non affidabilità sono quindi squisitamente politici e non economici. Vi sono poi delle indubbie difficoltà di natura monetaria. È possibile che le politiche di trasferimento alle famiglie attuate dal governo stiano surriscaldando l’economia argentina. Che cosa vuol dire? Se la quantità di moneta immessa in un sistema cresce nella stessa quantità in cui cresce la produzione di beni e servizi, questo vuol dire che si stanno immettendo nel sistema mezzi di pagamento proporzionati ai beni che ci sono. Se invece la quantità dei beni cresce poco o addirittura non cresce, ma aumenta la moneta, vuol dire che ci sarà concorrenza tra le persone detentori di moneta per avere beni scarsi, e questo fa aumentare il livello dei prezzi. Nel caso dell’Argentina, quindi, dopo la forte crescita della produttività dell’economia registrata fino al 2008-2010, stanno sorgendo delle difficoltà legate ai meccanismi di redistribuzione della ricchezza: se la produttività, anche per effetto della crisi internazionale, si sta riducendo, mentre invece si continua a sostenere l’economia con immissione di capitali, questo fa sì che i prezzi aumentino e che vi sia inflazione. Tuttavia questo problema è anche legato al fatto che essendo schierati nettamente contro Cristina Kirchner i grandi gruppi finanziari, le banche, le imprese e i giornali, una parte del paese sta portando capitali all’estero, nonostante le leggi che lo proibiscono, e quindi l’inflazione è anche effetto della fuoriuscita dei capitali.

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Con la morte di Chavez e l’elezione di Maduro in Venezuela cambia qualcosa in questo quadro?

 

Per rispondere a questa domanda è opportuno ricordare che la fase di cambiamento che sta vivendo, e che credo continuerà ancora a vivere, l’America Latina è molto legata a figure di leader politici carismatici, costitutive dell’identità dei governi e degli orientamenti di politica economica che essi incarnano. Il fatto che una figura così di riferimento come Chavez sia venuta meno, getta un elemento di dubbio sulla continuità di questa strategia. Tuttavia il mito di Chavez mi sembra destinato a sopravvivere come un idolo dei movimenti di sinistra europei, come un campione dell’anticapitalismo. Certo, tenendo presente che il capitalismo pervade l’intero pianeta, è lecito domandarsi quanto di questa percezione corrisponda a realtà. Diciamo che la cultura latinoamericana ha nel tempo reiteratamente fornito dei modelli, ma forse sarebbe opportuno parlare di idoli, alla sinistra, alla cultura progressista europea.

 

Ma perché accade questo, da Fidel Castro a Che Guevara, da Chavez a Evo Morales?

 

La sensazione che si ha è che, rispetto a un mondo nel quale non accade nulla o accade molto poco in campo politico, quale è oggi l’Europa, l’America Latina, con le sue infinite contraddizioni, è una terra in cui di cose comunque ne stanno accadendo parecchie, un continente che trasmette una forte sensazione di dinamismo politico, ideologico, economico. Partendo da questo pregiudizio positivo, ad esempio, quanti oltreoceano sono stati sostenitori di Chavez, hanno teso a enfatizzare in lui soprattutto gli aspetti più positivi: la rivendicazione, rispetto agli Stati Uniti, di un’autonomia politica per quanto riguarda l’uso delle risorse, e l’esaltazione dell’identità latinoamericana, del cosiddetto indigenismo, elemento molto forte anche in Morales; allo stesso tempo essi hanno dato poca importanza agli aspetti meno positivi di Chavez, come in politica interna le forme di gestione autoritaria del potere, ad esempio attraverso la chiusura delle riviste e degli organi di informazione che gli erano contrari, e in ambito internazionale, i rapporti non chiarissimi, ad esempio, con le farc, le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia. Il minimo che si possa dire è che Chavez è stato molto spregiudicato nel muoversi nel campo tanto della politica interna come internazionale. E tuttavia, pur con queste ombre, la luce principale che incarnava Chavez era quella del possibile cambiamento. A onor del vero nel Venezuela della corruzione e dell’immobilismo degli anni che hanno preceduto la sua ascesa, comunque Chavez ha rappresentato una novità e un forte volano per l’America latina. Stesso discorso per Morales: è indubbio che incarna una certa demagogia indigenista, ma, pur con le sue contraddizioni, attraverso la nazionalizzazione delle risorse del paese, Morales ha messo in atto un meccanismo di redistribuzione della ricchezza, a beneficio non solo di gruppi sociali, tradizionalmente marginalizzati, ma anche della popolazione di intere porzioni del territorio nazionale, che ne erano sempre state escluse. In conclusione, credo che questa mitologia sia in parte giustificata e in parte no, ma nonostante, tutto le ombre hanno meno peso, rispetto ad un fattore di traino ideale ed ideologico. In realtà l’Europa ha sempre l’abitudine di proiettare i propri sogni e i propri incubi sugli altri, senza mai andare a vedere in effetti quello che gli altri sono. Sulla stampa europea, e in generale sulla comunicazione occidentale, c’è un sostanziale disinteresse per l’America latina, salvo cogliere qua e là qualche elemento, non ci sono analisi serie. È un po’ come quando si dice che in India quest’anno sono stati venduti 30.000 computer e quindi le classi medie stanno crescendo, dopodiché 750 milioni di indiani non hanno accesso all’acqua potabile. Quindi l’analisi è sempre episodica, un’analisi superficiale, non coglie la complessità. Perché poi nella complessità si potrebbero invece enfatizzare gli aspetti positivi, ad esempio trovo molto più interessante di Chavez il presidente di un piccolo paese come l’Uruguay, Mujica, oppure un economista come Correa, presidente dell’Ecuador, figure meno eclatanti e vistose, a capo di comunità più piccole, ma non per questo meno interessanti o significative.

 

Focus Uruguay: Mujica è salito alla ribalta in Occidente in maniera virale sui social network per il suo intervento all’Onu.

 

Mujica è un personaggio che ha una storia interessante, che negli anni ‘70 ha fatto parte dei movimenti d’opposizione alla dittatura e in quanto tale è stato perseguitato. Diciamo che in genere le persone, quando hanno pagato sulla propria pelle, hanno più coerenza, come dimostra anche il caso di Dilma Rousseff, che è stata appunto perseguitata, incarcerata e torturata. Dal punto di vista economico, l’Uruguay è inserito nella fase di espansione e di crescita dell’Argentina, perché è un paese esportatore di soia, senza però avere tutte le tensioni interne dell’Argentina, non c’è il peronismo, ed è senz’altro un buon esempio di stabilità, però stiamo sempre parlando di un piccolo paese, con tre milioni di abitanti, la provincia di Roma…

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Un altro caso interessante è quello dell’Ecuador del presidente Rafael Correa?

 

Correa è un economista dalle posizioni molto eterogenee rispetto all’atteggiamento dominante nell’economia, specie per quanto riguarda l’attenzione verso gli strati più bassi della popolazione: ad esempio, lo scorso anno, quando è stato scelleratamente dato il premio Nobel per la Pace all’Unione Europea, uno dei candidati era proprio il presidente dell’Ecuador e il suo vice, poiché questo piccolo paese andino ha fatto uno straordinario sforzo per l’abbattimento delle barriere architettoniche e l’inserimento dei disabili nella vita sociale. Analogamente sono assai interessanti di Correa le politiche di forte tutela e valorizzazione dell’ambiente e della natura, anche a scapito dello sfruttamento delle risorse; ad esempio, sotto uno dei principali parchi dell’Ecuador, è stato trovato un grande giacimento di petrolio, ma la scelta del governo è stata quella di proteggere il parco a scapito dello sfruttamento del giacimento, lanciando al contempo una sottoscrizione internazionale per riunire le risorse che non rendano necessario questo intervento.

 

E in Colombia tutto si gioca con la vicenda della fine della guerra civile?

 

La Colombia è sconvolta da una spirale cinquantennale di violenza tra farc, esercito e gruppi paramilitari. Il presidente Santos ha sorpreso positivamente in questo senso perché è stato molto determinato nel riuscire ad avviare, attraverso la mediazione di Cuba, delle trattative di pace, e sembra che veramente egli voglia passare alla storia per mettere la parola fine alla guerriglia delle farc. I suoi detrattori dicono che in realtà sta semplicemente raccogliendo i frutti della fase di intensa campagna militare fatta da Uribe, il suo predecessore, ed è vero che senz’altro le farc hanno subito fortissimi colpi, però questo tipo di conflitti, soprattutto in paesi che hanno delle aree così impenetrabili come la Colombia, raramente possono essere risolti solo in termini militari. Mentre dal punto di vista interno quello di Santos non sembra un governo che brilli particolarmente né per liberismo né per iper-progressismo, adotta sostanzialmente una linea moderata, ma certo più equidistante dagli Stati Uniti di quanto non fosse la Colombia di Uribe.

 

Rispetto a un occidente che arranca nelle maglie della crisi, l’America Latina è in una fase di crescita e di forte integrazione commerciale. Cosa accade?

 

Tradizionalmente il principale interlocutore dell’America Latina sono stati gli Usa. Ora per la prima volta questo non è più vero, sia perché ci sono legami diretti, soprattutto in Brasile, che vanno al di là delle mediazioni commerciali abitualmente svolte dalle grandi multinazionali americane, ma anche perché gli Stati Uniti stessi hanno cambiato strategia. Nell’impossibilità di realizzare l’antico progetto dell’afta, con la seconda amministrazione Obama, è stato proposto un accordo di cooperazione commerciale con l’Europa, che peraltro riprende un antico progetto presentato per la prima volta da Kennedy al principio egli anni ‘60. D’altro canto, come il caso dell’Argentina dimostra, la pressione dei mercati internazionali può alla lunga avere un peso forte nel provocare l’instabilità di questi paesi. L’aspetto che potrebbe incidere di più e più positivamente è senz’altro quello del perfezionamento della grande area commerciale continentale che di fatto già esiste, dove non si tratta tanto della circolazione dei beni primari, né dei manufatti industriali, ma della grande sfida della circolazione delle risorse energetiche, rispetto alla quale un elemento da considerare è comunque la presenza nel continente della Cina.

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Cosa cerca di fare la Cina in America Latina?

 

La Cina sta cercando di mettere a punto, anche se in un modo meno palese di come ha fatto nel continente africano, la sua presenza sul territorio latinoamericano: per esempio, in Ecuador, paese senza capitali, strumenti e tecnologie, realizza infrastrutture in cambio dello sfruttamento di risorse naturali per un certo numero di anni, fornendo tutto, anche la manodopera. Sono contratti che poi permangono nel tempo. L’idea che le risorse naturali del continente restino nel continente stesso cozza evidentemente con questa penetrazione molto insinuante della Cina, e non è detto che questa contraddizione si possa risolvere e non sia invece destinata a diventare un altro elemento di potenziale instabilità.

 

E l’area centroamericana e caraibica?

 

Sembra la parte del continente americano in cui ogni processo di transizione è più lento. Mentre la stagione delle dittature in America Latina si è conclusa, la violenza permane tuttora in Honduras, in Salvador, in Guatemala, e vi è poi il difficile raggiungimento di un equilibrio democratico in Nicaragua e l’impalpabile e contraddittoria transizione a Cuba, tutti elementi che fanno dell’area caraibica l’area più in ritardo sul resto del continente, per non parlare di un caso limite come quello di Haiti.

 

Il caso del Messico.

 

Dopo una pluridecennale situazione di totale stagnazione politica, legata al lungo potere del pri, il Partito Rivoluzionario Istituzionale, nel 2000, per la prima volta, un regime sostanzialmente mono-partitico implode su se stesso e per due mandati presidenziali di 6 anni vengono eletti altrettanti esponenti del Partito cattolico di destra, il Pan: Vicente Fox e Felipe Calderon. In realtà questi due mandati riescono a scalfire molto poco del controllo realizzato tradizionalmente dal pri sull’apparato statale, essendo un partito colmo di corruzione, che permea tutti gli aspetti della vita politica, e caratterizzato da una grande capacità di trovare accordi con le varie forme di criminalità e attività illegali presenti in Messico. Con le elezioni del 2012 si sono prodotte delle importanti novità. Il candidato che già nel 2006 era arrivato quasi a vincere, Lòpez Obrador, del Partido de los Trabajadores, si è impegnato a non farsi scippare un’altra volta con brogli elettorali l’elezione. Ma allo stesso tempo il pri era fortemente intenzionato a vincere. Quella delle elezioni presidenziali del 2012 poteva essere davvero un’occasione unica per il Messico, per poter uscire dall’eterno cono d’ombra degli Stati Uniti, e rientrare a pieno titolo nella “Pink Wave” (anche perché Lòpez Obrador, forte di un largo appoggio popolare, dopo altri 6 anni sarebbe stato troppo anziano per concorrere ancora credibilmente alle elezioni presidenziali). Ma contro Lopez Obrador, il pri ha iniziato a lavorare alla costruzione di un suo candidato già molto tempo prima delle elezioni: Enrique Peña Nieto. L’attuale presidente del Messico è un personaggio squisitamente televisivo, un bell’uomo con il ciuffo con la brillantina, che sembra uscito da una telenovela ma del tutto incapace di formulare una sola idea. Ad esempio, in una trasmissione televisiva in cui gli è stato chiesto qual fosse l’ultimo libro che aveva letto, dopo molti minuti di imbarazzante silenzio ha risposto: «La Bibbia». Episodio piccolo, ma rivelatore. È un personaggio inconsistente: da solo non esiste.

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E chi c’è quindi dietro Peña Nieto?

 

Dietro Peña Nieto c’è uno dei personaggi più sinistri della storia del Messico, quel Salinas de Gortari che negli anni ‘90 portò il Messico a una terribile crisi finanziaria, la cosiddetta “crisi della tequila”, e che è considerato uno dei peggiori della non lusinghiera schiera di presidenti del Messico, responsabile del crollo del partito che portò per la prima volta alla presidenza non un esponente del pri. Salinas de Gortari era un pupillo del Fondo Monetario Internazionale, grande campione delle privatizzazioni, delle liberalizzazione, del libero fluire dei mercati e dei capitali... Per riconquistare la presidenza il Partito Rivoluzionario Istituzionale ha giocato su due piani: la costruzione di questo pupazzo elettorale, Enrique Peña Nieto, uomo dal passato sinistro, con la storia non chiara della morte di sua moglie in cui ha avuto un ruolo assai opaco, ma allo stesso tempo personaggio su cui tutti i mezzi di comunicazione messicani hanno cominciato a cucire un’immagine, attraverso infinite partecipazioni a talk-show e dibattiti ma anche grazie alla storia d’amore con un’attrice, che ha appassionato i cultori di cronache rosa per anni. In realtà un precedente politico ce l’ha, e non è brillante: Enrique Peña Nieto è stato governatore del distretto federale legando il suo nome a un episodio particolarmente sinistro. C’era un progetto per la costruzione di un nuovo aeroporto per Città del Messico, che vedeva l’opposizione delle popolazioni dell’area, in particolare di una località chiama Atenco, che intendeva preservare dalla colata di cemento le proprie terre fertili. Durante una manifestazione di protesta alla costruzione dell’aeroporto, un poliziotto fu aggredito e malmenato dai manifestanti. Peña Nieto è considerato responsabile, in qualità di governatore, per aver tollerato che, in risposta a questa aggressione, per tre giorni la polizia del distretto federale ha avuto mano libera per picchiare e violentare indisturbatamente la popolazione di Atenco, come misura di ritorsione per l’aggressione del poliziotto. Questa vicenda ha avuto notevole risonanza e sebbene Peña Nieto sia dichiarato sempre estraneo, gli è rimasta appiccicata addosso, come unica cosa degna di essere ricordata nella sua attività politica, ed è tornata di attualità durante la campagna elettorale del 2012. Nel fare conferenze elettorali in giro per il Messico, a un certo punto Peña Nieto ha parlato in un’università dei gesuiti a Città del Messico dove gli studenti lo hanno accolto con slogan e cartelli che ricordavano appunto l’episodio di Atenco. Peña Nieto si è sottratto al confronto e ha dichiarato che quelli non fossero studenti, ma dei provocatori. Per tutta risposta gli studenti dell’università hanno fatto un video che ha avuto una fulminea diffusione in tutto il paese, ed anche in Europa: uno ad uno sfilavano davanti alla telecamera 131 studenti, che dicevano «io mi chiamo Tizio, questa è la mia matricola, sono uno studente e penso che Peña Nieto sia un delinquente». Questo video ha fatto il giro del Messico, ma soprattutto ha generato il movimento del “Yo soy el 132”, io sono il numero 132 in aggiunta agli altri 131 del video. Come questi 131, decine di migliaia di giovani si sono schierati contro Peña Nieto e a fianco del candidato d’opposizione, Lòpez Obrador, intorno al quale, dunque, non solo si è coalizzata la sinistra, ma si è realizzata una spaccatura generazionale: la parte più viva, formata, aperta verso il mondo, dei giovani universitari si è opposta al ritorno, che poi c’è stato, di un sistema di corruzione, che non premia il merito, che non premia dinamiche di ascesa sociale, se non con la delinquenza, e ha nettamente rigettato il ritorno di Peña Nieto. Ma nella campagna elettorale messicana del 2012 ha giocato un secondo aspetto, cioè quello della lotta al narcotraffico. Nel 2006 l’elezione di Felipe Calderòn è stata fortemente sospettata di brogli elettorali, che lo hanno fatto vincere su Lòpez Obrador con uno scarto minimo. Pertanto, da presidente Felipe Calderòn ha cercato a posteriori una legittimazione che le urne non gli avevano dato, e la trovata con la cosiddetta guerra al narcotraffico. Il Messico è luogo di passaggio dalla Colombia della droga verso gli Stati Uniti; con il pri questo passaggio avveniva in un modo, tutto sommato, pacifico e indisturbato. Calderon si mette d’accordo invece con George W. Bush per fare la guerra al narcotraffico schierando l’esercito, con il bel risultato che, siccome l’unica cosa che non manca ai narcotrafficanti sono i soldi e le armi, il Messico si è trasformato in un campo di battaglia che negli ultimi 7 anni ha provocato 60.000 morti, dei quali solo una piccola parte legata al narcotraffico, ma il resto causati dalla fortissima violenza che si è estesa in tutto il territorio; infatti, i soldati mandati a formarsi in Usa, una volta tornati venivano avvicinati dai narcotrafficanti che gli offrivano il doppio e passavano così dall’altra parte. Una follia di violenza senza pari. La grande promessa elettorale era che se avesse vinto il pri, notoriamente alleato con il narcotraffico, la guerra sarebbe finita. In cambio il pri ha avuto in questa campagna elettorale tanti soldi dal narcotraffico, utilizzandoli per acquistare i voti e ripartendo in cambio milioni di tessere di acquisto dei supermercati. Questi sono stati numeri un po’ troppo grandi perché le cose passassero inosservate, e questa cosa è incominciata ad uscire fuori, se ne sono venuti che è stato tutto un malinteso, che in realtà era un progetto di aiuto per le famiglie più povere... Il vero punto è un altro: per la legge elettorale messicana, l’acquisto del voto non è un motivo sufficiente per la cancellazione dei risultati elettorali, ma soltanto un motivo di pagamento di una multa, e i soldi al pri non mancano.

 

Che c’entra tutto questo rispetto al contesto generale del mondo latinoamericano?

 

Peña Nieto è espressione di un mondo di interessi legati a privatizzazioni, accesso a risorse di multinazionali straniere, quindi non potrebbe esser più lontano dalla Pink Wave. Però questa elezione del 2012 ha per la prima volta fatto emergere che c’è un altro Messico che sta nascendo, una folla di studenti universitari che si sono per la prima volta fortemente esposti. In realtà Peña Nieto ha vinto con un margine abbastanza ridotto con tutti i brogli e la corruzione che ci sono stati.

 

Recentemente lei è stato in Spagna. Cosa ha visto?

 

Tre cose. Primo punto: la Spagna non è un paese entrato progressivamente in crisi, fino a un certo giorno è stato fatto credere agli spagnoli che tutto andasse bene e poi, da un giorno a l’altro, è stato detto loro da adesso c’è la crisi e quindi vi riduciamo gli stipendi del 10%, ecc. È stato un cambio totale, la cui responsabilità evidentemente è del mondo politico che ha, per quanto potuto, occultato la verità. Punto secondo: in questa fase di difficoltà economica e sociale, sono rimasto molto colpito dal fatto che il potere politico sta andando con una mano molto dura e molto forte contro l’opposizione delle piazze. Cioè, la polizia picchia, ma forte. In confronto, i nostri celerini sono le orsoline! È proprio una specie di rigurgito franchista. Tutti me lo dicono, nessuno dopo 40 anni di democrazia pensava succedesse, sembra di rivedere lo Scelba dei tempi d’oro. È una violenza che nessuno si aspettava. Il terzo punto è che la Spagna dopo 35 anni di Costituzione democratica sembrava molto solida, avendo uno schema politico bipartitico, ma è un paese che sta andando letteralmente in pezzi. Il Partito Socialista è uscito dall’esperienza di Zapatero ai minimi termini, perché soprattutto nel secondo mandato, secondo me, l’attività di governo è stata molto negativa. Sono sì state fatte alcune leggi, però, la gestione è stata pessima. Questo ceto politico ora al governo ha avuto la maggioranza assoluta un anno fa e adesso è assolutamente minoritario perché gli scandali di corruzione li stanno travolgendo. I nazionalismi autonomistici, verso i quali non ho nessuna simpatia perché penso che siano dei manipolatori di coscienze, stanno letteralmente impazzendo come delle schegge. Quindi l’insieme è davvero molto grave e soprattutto la somma di queste tre cose, ovvero il carattere repentino della crisi, la forte spinta repressiva e la frantumazione del sistema politico rendono il quadro molto instabile e del tutto imprevedibile circa i suoi sviluppi futuri. Se poi penso al paese da cui potrebbe partire una scintilla di contestazione rispetto alle politiche adottate in Europa in questo momento, credo che possa essere proprio la Spagna, seguita a ruota dall’Italia e dal Portogallo e da lì in Inghilterra e in Francia… forse sarà quello il momento in cui l’Europa recupererà un po’ della sua dignità perduta nel confronto con quanto sta accadendo oltreoceano…

 

APRILE 2013

 

*Esperto di sviluppo economico del mondo iberoamericano, è professore ordinario di Storia economica, insegna Sistemi economici e finanziari del xx secolo presso l’Università degli Studi Roma Tre.

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