Recensioni
LA FINE
DELL’ANTI-CITTÀ?
Benevolo
e Boeri sul destino dell’urbanesimo
Alessandro D’Aloia
Due titoli, due libri e due visioni sulla città a confronto. La
fine della città di Leonardo
Benevolo e l’anti-città di
Stefano Boeri, entrambi pubblicati nel 2011 dagli Editori Laterza. In
ambo i casi i titoli sembrano promettere più di quanto i libri riescano
poi a mantenere, ciò nonostante torna utile cercare di confrontare due
diversi approcci al problema del disfacimento della città, rappresentati
dai due autori, presi (pretestuosamente) a modello, il primo, del
pensiero “modernista” e, il secondo, di quello “post-modernista”. Da un
lato abbiamo, con Benevolo, un libro-intervista curato da Francesco
Erbani (giornalista di “Repubblica”), dotato di una struttura chiara e
rigidamente cronologica, che ci accompagna biograficamente lungo le
vicende dell’urbanistica nazionale attraverso lo sguardo di uno dei più
noti storici dell’architettura, nonché urbanista, del panorama
nazionale. Dall’altro, con Boeri, una raccolta di scritti rielaborati a
partire da testi pubblicati per di più sul “Sole 24 ore”, del noto
architetto-urbanista, attualmente assessore nella giunta Pisapia, ma già
direttore di riviste nazionali prestigiose come
Domus e
Abitare. Anche la differente struttura dei due libri sembra il calco
di un opposto modo di porsi di fronte alla realtà urbana, il primo in
cui ancora la natura dei problemi trattati pare porre un’istanza
generale di ricerca di possibili soluzioni, bisognosa quindi di
premesse, di analisi critica e di proposte, articolate chiaramente in
una sequenza logica riconoscibile, il secondo in cui il problema
trattato è assunto come dato interiorizzato, implicante non più la
critica razionale delle sue disfunzioni materiali, ma un cambio, un
rinnovamento dei modi di lettura dei problemi, in una proposta generale
di analisi che però non sfocia quasi per niente in progetto e che
pertanto può presentarsi in modo episodico (o
eclettico), vale a dire non sistematico. Nel primo caso si respira
ancora quella tensione al “progresso”, e la conseguente fede nella
ragione, nel secondo caso non c’è tensione salvifica, ma identificazione
con lo stato delle cose «Perché l’anti-città, ci piaccia o no, siamo
noi»[1],
assunzione del carattere anti-urbano della città contemporanea a stato
definitivo della nostra evoluzione.
Ma è il caso di procedere con un certo ordine.
La fine della Città
Partendo da La fine della
città, è possibile notare come il tema suggerito dal titolo del
testo sia sostanzialmente svolto nelle prime pagine, mentre per il resto
si tratta in definitiva del racconto della carriera storicistica ed
urbanistica di Benevolo, per finire con una disamina delle personali
esperienze di pianificazione funzionali alla divulgazione di quelle
soluzioni progettuali che l’urbanista ritiene necessarie per la
soluzione di una serie di problematiche specifiche dei casi trattati.
Il presupposto della fine della città è individuato nell’assenza
di un limite leggibile degli
insediamenti contemporanei, contrapposti all’idea tradizionale, che per
millenni ha trovato corrispondenza fra teoria e pratica del concetto di
città, di un dentro ed un
fuori della stessa, cioè di una sua dimensione chiaramente
misurabile e di una sua delimitazione netta. Le città sono state sempre
alla portata di una loro percorribilità pedonale e di una correlata
percezione come di un insieme compatto ed unitario da parte dei suoi
abitanti. Oggi non è più così, l’unità dell’insediamento urbano è messa
in crisi da una miriade di insediamenti puntuali tra loro sconnessi e
non conformi a nessun disegno organico, le distanze sono colmabili solo
per mezzo delle automobili e i riferimenti sono impossibili senza la
mediazione di appendici satellitari informatizzati. La città
contemporanea come specchio spaziale dello sviluppo capitalistico si
fonda sul presupposto della illimitatezza delle risorse e su un’idea
lineare di crescita infinita. Anche se Benevolo non lo dice
esplicitamente, le sue considerazioni rendono chiaro il rapporto di
netta opposizione, di inconciliabilità organica, fra sistema
capitalistico e l’idea storica di centro urbano.
Più esplicite risultano invece le considerazioni sulle
possibilità, non frequentate in Italia da parte dell’intervento
pubblico, di intaccare i meccanismi di mercato delle aree e le rendite
derivate.
Lei resta però convinto che la soluzione per un’espansione
corretta della città sia quella per cui il Comune acquisisce le aree
soggette a trasformazione cedendo successivamente il diritto di
superficie, cioè la sola possibilità di costruire, ai privati?
In tutto
il mondo il sistema dell’urbanizzazione pubblica, da lei descritto, non
soppiantava il sistema tradizionale, ma in alcuni paesi veniva
sperimentato su larga scala per realizzare grandi insediamenti unitari.
[…] In Inghilterra hanno insediato cinque milioni di persone senza
spendere neanche una sterlina. […] Il principio politico osservato fin
dall’immediato dopoguerra nell’urbanistica italiana resta il compromesso
fra amministrazioni comunali e possessori dei suoli, al quale si
subordina l’intervento pubblico. La rendita fondiaria non è stata
intaccata dall’Ina-Casa, che quasi sempre ha comperato i terreni a
prezzo di mercato e quando ha ottenuto di risparmiare, perché acquistava
fuori città, ha comunque fatto un favore ai proprietari valorizzando i
suoli circostanti. Uno degli effetti di queste politiche, quello che più
interessava milioni di cittadini, è stato che i prezzi delle case non
sono stati affatto calmierati[2].
Interessanti anche i racconti delle esperienze di pianificazione
a Brescia, come esempio di uno dei pochi casi in cui l’intervento
pubblico è stato capace di volgere a proprio favore i meccanismi della
rendita.
Noi
comperavamo i terreni nelle zone in cui ritenevamo che la città dovesse
espandersi. Realizzavamo le opere pubbliche e le infrastrutture e poi
rivendevamo quei terreni ai costruttori privati che avrebbero edificato.
Vendevamo ad un prezzo che non solo ci consentiva di ottenere il
pareggio di tutta l’iniziativa, e dunque di non gravare sui bilanci
comunali, ma che era al tempo stesso, di molto inferiore a quello
normalmente pagato per le aree fabbricabili private. E queste le
mandavamo fuori mercato. […] è stata un’operazione condotta con i
criteri del mercato, facendo valere il principio della concorrenza e
riuscendo ad ottenere che della concorrenza si avvantaggiasse il
pubblico[3].
Solo apparentemente scollegato dalle riflessioni sul ruolo
possibile, ma mancato del Pubblico, le considerazioni sullo stato delle
professioni specialistiche in Italia, laddove Benevolo individua la
libera professione (di architetti, ingegneri e geometri), come il nerbo
disciplinare di una politica territoriale volta esclusivamente
all’accrescimento della rendita privata e alla realizzazione ad oltranza
di sempre nuovi insediamenti, per lo più sbagliati. In una condizione
siffatta, ove la committenza è quasi sempre, e solo, privata, le
competenze tecniche, rese servili agli imperativi delle scelte imposte
dal mercato e senza possibilità di messa in discussione dei ruoli di
sola progettazione ed esecuzione di opere calate dall’alto sul
territorio, sono convogliate nell’unico ambito lasciato alla discrezione
disciplinare, vale a dire quello della pura “creatività artistica”,
condizione che in parte spiega anche lo sconfinato narcisismo
progettuale di quello star system
di cui oggi è possibile misurare la completa strutturalità allo scempio
del paesaggio.
Non si può dire che la visione di Benevolo non sia lucidamente
capace di individuare le radici di una serie di problematiche irrisolte
nel campo del governo del territorio, ma a maggior ragione la
correttezza delle premesse amplifica la sensazione di debolezza della
sua visione complessiva ancora così fortemente radicata in una fiducia
negli strumenti di una certa razionalità urbanistica oggettivamente
definibile, che si traduce, quasi meccanicamente, in una fiducia
nell’intervento pubblico, fiducia che però non trova riscontro
nell’esperienza dell’urbanistica italiana, se non in qualche caso
sparuto, come lo stesso autore non manca di sottolineare. Benevolo
sembra non voler trarre delle conclusioni definitive sull’inadeguatezza
dell’apparato pubblico, governato da una grigia mediocrità burocratica,
così compromessa con gli interessi privati in epoca espansiva e così
egemonizzata da una visione dismissoria nell’attuale fase recessiva.
Infine l’esposizione delle sue soluzioni progettuali denuncia una
concezione strettamente autoriale della problematica complessa del territorio, in cui non
c’è traccia neanche di un retro pensiero sulla possibilità di superare
l’impostazione dell’urbanistica modernista, in cui il ruolo troppo
determinante e immobile del pubblico possa essere finalmente consegnato
agli esiti di un dibattito allargato alle cittadinanze destinatarie
delle trasformazioni del territorio secondo modalità in grado di
ripensare e rifondare lo stesso ruolo disciplinare dell’urbanista.
Per Benevolo si tratterebbe, in definitiva, di affidare alle
persone giuste, in ragione del loro merito, la soluzione dei problemi
più scottanti per ottenere senz’altro un miglioramento delle condizioni
di vita nel contesto urbano. È evidente, in questo atteggiamento una
sorta di positivismo razionalista dell’urbanista,
deus ex machina della tragedia
urbana, non molto distante dall’egocentrismo professionale dei grandi
studi di progettazione che disegnano opere miliardarie ai quattro angoli
del pianeta come episodi successivi della propria ricerca personale di
uno stile riconoscibile.
Se l’urbanistica italiana è viziata da un’impostazione di grigio
compromesso, nessuna idea radicale può trovare applicazione senza farsi
essa stessa grigio compromesso con i poteri costituiti.
L’anticittà
Fin dalle prime pagine del libro si intuisce che non è intenzione
dell’autore presentare ciò che egli chiama l’anticittà come un problema da risolvere.
Se siamo noi l’anticittà allora essa non è frutto altro che della
nostra stessa volontà e in nessun modo risultato di fenomeni
contingenti, dotati di proprie dinamiche alle quali anche il nostro
volere è, in un modo o nell’altro, assoggettato. Questa presunta
equivalenza fra desiderio e realtà del fenomeno urbano, oltre ad
implicare un’identificazione, inesistente, fra operatori
pubblico/privati, attori veri nel palcoscenico urbano, e il resto della
moltitudine, per di più succube di ciò che accade, dà per scontato che
ciò che si fa sul territorio corrisponde sempre a ciò che la
cittadinanza chiede di fare, cosa che oltre ad essere inesatta si
presenta anche come uno sconto di responsabilità all’urbanista.
Non è in discussione che la città contemporanea si conformi
effettivamente come somma di «villette, capannoni, centri commerciali,
palazzine, box, officine. […] espressione di piccoli frammenti della
nostra società (la famiglia, la piccola impresa, l’azienda, volutamente
isolati dallo spazio pubblico e indifferenti alle sue regole»[4].
Essa è infatti costruita dai privati e in qualche modo determinata dalle
loro possibilità economiche in relazione ai propri bisogni, dalla
localizzazione diffusa e non concentrata delle loro proprietà e dal
livello della loro personale cultura architettonica. In definitiva si
può dire che è il risultato di una società antropologicamente
strutturata dalla proprietà privata, cosa che nega all’origine
l’esistenza di una “regola pubblica” dello spazio costruito. Se però ciò
che viene fuori da questo insieme di elementi prende la forma di “monadi
edilizie” (il lotto di terreno con un edificio al centro) utilizzate
come piccoli bunker domestici
in cui la privazione di relazioni con l’esterno è sostanzialmente
surrogata dall’irruzione delle tecnologie informatiche, che ci mettono
in connessione pur stando fermi, è perché, pur volendo fare
diversamente, ciò non risulta possibile. È come dire che una persona si
esprime in una certa lingua come frutto di una propria scelta, cosa che
evidentemente non è. Partire da questo presupposto significa eludere a
piè pari qualsiasi possibilità di analisi critica del reale e quindi
qualsiasi fondamento logico dell’ini-ziativa urbana della società nel
suo insieme. Rende superfluo parlare della città e ripiega lo sguardo
disciplinare dell’urbanistica sul proprio ombelico. In effetti nel libro
di Boeri più che parlare dei problemi della città, si parla
dell’inadeguatezza degli strumenti classici con cui si guarda alla
città.
Certo parlare della necessità di innovare gli strumenti di
lettura della città potrà apparire più nuovo che tornare sempre sui noti
nodi irrisolti del suo sviluppo urbano capitalistico, ma non è detto che
questo torni necessariamente utile a migliorare ciò che non funziona.
Boeri non rischia perciò di cadere in nessun discorso utopistico e in
nessuna retorica sul ruolo del pubblico, in nessun moralismo, allo
stesso modo in cui però non rischia di dire qualcosa di utile sull’anticittà.
Il suo realismo non fa che
esasperare quell’impressione di ritiro, di contrazione dell’intervento
pubblico che però non è un suo necessario superamento mediante una forma
di intervento più efficace, ma piuttosto una sua compiuta elusione, in
un panorama in cui l’unica forza operante resta il mercato (grande
innominato nel suo libro) con i suoi meccanismi privatistici, anche
laddove riesce ad agire attraverso i canali del pubblico. Si tratta cioè
di una piega presa dalla visione post-modernista che risponde più ad una
totalizzante impossibilità di agire di fronte alle cieche forze del
capitale che ad una scelta di saggia
inazione da parte dell’urbanistica contemporanea.
Per questo motivo quando Boeri parla dell’auto-limitazione come di una «forma di sospensione dell’agire, del
costruire, dell’occupare», come necessario espediente per il
«cambiamento di prospettiva delle politiche urbane prodotto da un’etica
[finalmente] non antropocentrica», sembra voler implicitamente far
passare l’idea che invece ciò che chiama
anticittà sia il prodotto di
un’etica fondata sui bisogni dell’uomo, piuttosto che su quelli del
mercato e sulla struttura territoriale dell’assetto proprietario del
suolo, mancando completamente il bersaglio della propria trattazione. La
domanda è: come si fa a non vedere la continua espansione dell’anticittà
come una conseguenza, fra le altre cose, dell’espulsione della
moltitudine dal centro cittadino? Quale etica compiutamente
antropocentrica potrebbe sortire l’effetto di allontanare, piuttosto che
includere, le persone in uno spazio pubblico condiviso? Parlare di
“antropocentrismo” in luogo delle dinamiche di mercato, non rappresenta
un’iden-tificazione totale, e perciò falsificante, dei bisogni umani
dell’abitare con le dinamiche della rendita alla base del
social removal urbano degli ultimi decenni? È antropocentrica la
visione che rende il centro di Milano un luogo senza vita composto di
seconde case per ricchi in giro per il mondo? I centri urbani di oggi
espellono cittadinanza (senza più “diritto alla città”), la quale non
può che trovare asilo nell’indefinito anello anti-cittadino, né città,
né campagna, che asfissia ciò che resta della città. Si tratta
evidentemente di un fortissimo equivoco circa la descrizione della
natura di quelle leggi che determinano l’odierno assetto del fenomeno
urbano. L’anticittà altro non
è che la forma cementificata e definitiva dei quartieri abusivi, fatti
di capanne, ma considerati provvisori, che negli anni sessanta
assediavano le grandi città come Roma (per fare solo un esempio
possibile).
Si tratta in sostanza di una città diffusa e spontanea (cioè
priva di concetto) nonostante risulti, per lo più, edificata nel
rispetto delle regole urbanistiche, perché risponde alla miserevole
visione dello spazio urbano che il mercato dei suoli, delle costruzioni
e dei favori politici, ha indotto anche in quelle discipline che del
territorio, e dei suoi rapporti con i bisogni umani (reali), avrebbero
dovuto occuparsi.
Ma se nella trattazione sull’anticittà non c’è posto per
riflessioni su concetti vecchi
come il regime dei suoli e i meccanismi di rendita fondiaria, anzi se
tale trattazione è fondata sul presupposto di un’impos-sibilità di fare
urbanistica al di fuori di un regime privato dei suoli[5]
è scontato che le pur efficaci descrizioni dell’anticittà contemporanea
non possono preludere al superamento della propria essenza descrittiva e
non possono sfuggire ad una sorta di
sterilizzazione dell’analisi,
come metafora della condizione dell’urbanistica nell’epoca dell’anticittà.
Boeri infatti individua bene il carattere individualistico
dell’anticittà quando scrive:
Lo spazio che ci circonda, non solo lo spazio geopolitico, ma anche quello della vita quotidiana, sembra a dire il vero sempre più increspato e rugoso. Tagliato e interrotto da muri, recinti, soglie, ostacoli, bordi normati, frontiere virtuali, aree specializzate, zone protette. Muoversi, spostare il proprio corpo da una strada all’altra, o da un aeroporto all’altro, significa oggi sfidare un numero crescente di sistemi di controllo e di confini. […] Invece che un fluire libero, i nostri movimenti assumono sempre più la forma di sussulti e soste, di una sequenza di “stop and go”, di un balletto di password e documenti di identificazione. […] viene da chiedersi se non sia proprio questa l’angolatura migliore per guardare il mondo contemporaneo. Come se fossero i confini, e non i flussi, la sua vera cifra[6].
ma riduce il “fare città”, per combattere l’anticittà, ad una
serie di indicazioni abbastanza generiche, tutte elencate a pari grado,
come fossero senz’altro praticabili mediante una semplice dose di buon
senso urbanistico, cosa che tradisce una fiducia nelle forze oscure
dell’anticittà che suona, in tutta franchezza, un po’ stonata. Come
stonata è la proposta di «una politica di decentramento che affidi a una
rete di luoghi deliberativi – veri e propri municipi metropolitani – il
ruolo di mediatori tra politiche metropolitane e istanze dei territori»[7],
la quale apparentemente definita come
democrazia urbana deliberativa,
in realtà risulta semplice espediente di mediazione fra politiche urbane
(evidentemente decise altrove) e istanze socio-territoriali e non come
luogo in cui le istanze del territorio si fanno politica metropolitana.
Quale
fine dell’anticittà?
Sembra chiaro come la dialettica fra
modernismo e post-modernismo
in urbanistica, non sembri possedere in sé elementi capaci di indicare
una via credibile al recupero della “dimensione città” come risposta
alla disgregazione urbana e sociale che abbiamo di fronte, alla quale
non è possibile rispondere più né attraverso la rivendicazione di un
ruolo guida dell’urbanistica come portato di una politica del “buon
senso del Pubblico”, né tantomeno di un suo ruolo guida per la
formazione di “buon senso del Privato”, essendo entrambe le categorie di
intervento (del Pubblico e del Privato) largamente responsabili tanto
della fine della città quanto
della formazione continua di quel nemico interno dell’anticittà. Ciò che ha negato e continua a negare alla radice il
senso urbano delle scelte metropolitane nell’Italia repubblicana è stata
la sistematica esclusione della cittadinanza dai processi decisionali,
tradottasi nell’impossibilità di attuare pratiche di riappropriazione
dello spazio da parte di chi lo vive, mediante scelte consapevoli,
condivise in un dibattito democratico finalizzato all’intervento sullo
spazio e non alla chiosa più o meno partigiana di opzioni già
confezionate altrove (da gruppi organizzati). In entrambe le concezioni
urbanistiche descritte ciò che manca è la considerazione della
democrazia quale strumento principale di una “nuova urbanistica”, che a
partire dalla riappropriazione dello spazio pubblico, bene comune
attuale, possa farsi anche strumento di superamento della dimensione
privata dell’abitare (perché tutto lo spazio è un bene comune). La
domanda vera è se può esserci davvero un “fare città” come risultato di
una moltitudine di iniziative di costruzione (pubbliche e private)
piuttosto che come iniziativa di costruzione “comune” (né pubblica, né
privata, ma democratica) della moltitudine e di conseguenza se si debba
ormai parlare di antiurbanistica (governo privato del territorio di tutti) oppure se
possa ancora parlarsi di una qualche urbanistica (governo democratico di
tutto il territorio).
AGOSTO 2012
[1]
Stefano Boeri, L’anticittà, Laterza, Bari 2011, p.
xv.
[2]
Leonardo Benevolo, La fine
della città, Laterza, Bari 2011, p. 51-53.
[3]
Benevolo, cit., pp. 86-87.
[4]
Boeri, cit., p. 56.
[5]
Come dimostra questo passaggio a pag. 114: «Dopo la caduta del
regime comunista in Albania, Rama ha deciso di lasciare Parigi e
di tornare a Tirana per candidarsi al governo della città.
Tirana, capitale dell’Albania, era in quegli anni una città allo
sbando. Senza un regime dei suoli che fissasse i diritti di
proprietà, senza un piano urbanistico, gli spazi pubblici della
città erano preda di una frenetica sbornia edilizia.»;
sintomatico di una concezione dell’urbanistica quale disciplina
normativa possibile
solo in regime di proprietà privata, come se l’assenza di un
regime privato dei suoli implicasse necessariamente l’assenza di
una disciplina urbanistica, più che invece favorirne
l’esistenza. Non si chiede Boeri come mai la sbornia edilizia si
sia manifestata a Tirana proprio in quegli anni e non prima?
Proprio cioè con la caduta del “regime comunista” ed il
passaggio al libero mercato dei suoli? Questo passaggio sembra
suggellare una visione demoralizzata dell’urbanistica, ormai
incapace di concepire se stessa al di fuori del mercato.
[6]
Boeri, cit., pp. 41, 42.
[7]
Boeri, cit., p. 132.