banner verdone
08
Ottobre 2012

home - indice

Recensioni

LA FINE DELL’ANTI-CITTÀ?

Benevolo e Boeri sul destino dell’urbanesimo

Alessandro D’Aloia

 

Due titoli, due libri e due visioni sulla città a confronto. La fine della città di Leonardo Benevolo e l’anti-città di Stefano Boeri, entrambi pubblicati nel 2011 dagli Editori Laterza. In ambo i casi i titoli sembrano promettere più di quanto i libri riescano poi a mantenere, ciò nonostante torna utile cercare di confrontare due diversi approcci al problema del disfacimento della città, rappresentati dai due autori, presi (pretestuosamente) a modello, il primo, del pensiero “modernista” e, il secondo, di quello “post-modernista”. Da un lato abbiamo, con Benevolo, un libro-intervista curato da Francesco Erbani (giornalista di “Repubblica”), dotato di una struttura chiara e rigidamente cronologica, che ci accompagna biograficamente lungo le vicende dell’urbanistica nazionale attraverso lo sguardo di uno dei più noti storici dell’architettura, nonché urbanista, del panorama nazionale. Dall’altro, con Boeri, una raccolta di scritti rielaborati a partire da testi pubblicati per di più sul “Sole 24 ore”, del noto architetto-urbanista, attualmente assessore nella giunta Pisapia, ma già direttore di riviste nazionali prestigiose come Domus e Abitare. Anche la differente struttura dei due libri sembra il calco di un opposto modo di porsi di fronte alla realtà urbana, il primo in cui ancora la natura dei problemi trattati pare porre un’istanza generale di ricerca di possibili soluzioni, bisognosa quindi di premesse, di analisi critica e di proposte, articolate chiaramente in una sequenza logica riconoscibile, il secondo in cui il problema trattato è assunto come dato interiorizzato, implicante non più la critica razionale delle sue disfunzioni materiali, ma un cambio, un rinnovamento dei modi di lettura dei problemi, in una proposta generale di analisi che però non sfocia quasi per niente in progetto e che pertanto può presentarsi in modo episodico (o eclettico), vale a dire non sistematico. Nel primo caso si respira ancora quella tensione al “progresso”, e la conseguente fede nella ragione, nel secondo caso non c’è tensione salvifica, ma identificazione con lo stato delle cose «Perché l’anti-città, ci piaccia o no, siamo noi»[1], assunzione del carattere anti-urbano della città contemporanea a stato definitivo della nostra evoluzione.

Ma è il caso di procedere con un certo ordine.

 

La fine della Città

Partendo da La fine della città, è possibile notare come il tema suggerito dal titolo del testo sia sostanzialmente svolto nelle prime pagine, mentre per il resto si tratta in definitiva del racconto della carriera storicistica ed urbanistica di Benevolo, per finire con una disamina delle personali esperienze di pianificazione funzionali alla divulgazione di quelle soluzioni progettuali che l’urbanista ritiene necessarie per la soluzione di una serie di problematiche specifiche dei casi trattati.

Il presupposto della fine della città è individuato nell’assenza di un limite leggibile degli insediamenti contemporanei, contrapposti all’idea tradizionale, che per millenni ha trovato corrispondenza fra teoria e pratica del concetto di città, di un dentro ed un fuori della stessa, cioè di una sua dimensione chiaramente misurabile e di una sua delimitazione netta. Le città sono state sempre alla portata di una loro percorribilità pedonale e di una correlata percezione come di un insieme compatto ed unitario da parte dei suoi abitanti. Oggi non è più così, l’unità dell’insediamento urbano è messa in crisi da una miriade di insediamenti puntuali tra loro sconnessi e non conformi a nessun disegno organico, le distanze sono colmabili solo per mezzo delle automobili e i riferimenti sono impossibili senza la mediazione di appendici satellitari informatizzati. La città contemporanea come specchio spaziale dello sviluppo capitalistico si fonda sul presupposto della illimitatezza delle risorse e su un’idea lineare di crescita infinita. Anche se Benevolo non lo dice esplicitamente, le sue considerazioni rendono chiaro il rapporto di netta opposizione, di inconciliabilità organica, fra sistema capitalistico e l’idea storica di centro urbano.

Più esplicite risultano invece le considerazioni sulle possibilità, non frequentate in Italia da parte dell’intervento pubblico, di intaccare i meccanismi di mercato delle aree e le rendite derivate.

 

Lei resta però convinto che la soluzione per un’espansione corretta della città sia quella per cui il Comune acquisisce le aree soggette a trasformazione cedendo successivamente il diritto di superficie, cioè la sola possibilità di costruire, ai privati?

In tutto il mondo il sistema dell’urbanizzazione pubblica, da lei descritto, non soppiantava il sistema tradizionale, ma in alcuni paesi veniva sperimentato su larga scala per realizzare grandi insediamenti unitari. […] In Inghilterra hanno insediato cinque milioni di persone senza spendere neanche una sterlina. […] Il principio politico osservato fin dall’immediato dopoguerra nell’urbanistica italiana resta il compromesso fra amministrazioni comunali e possessori dei suoli, al quale si subordina l’intervento pubblico. La rendita fondiaria non è stata intaccata dall’Ina-Casa, che quasi sempre ha comperato i terreni a prezzo di mercato e quando ha ottenuto di risparmiare, perché acquistava fuori città, ha comunque fatto un favore ai proprietari valorizzando i suoli circostanti. Uno degli effetti di queste politiche, quello che più interessava milioni di cittadini, è stato che i prezzi delle case non sono stati affatto calmierati[2].

 

Interessanti anche i racconti delle esperienze di pianificazione a Brescia, come esempio di uno dei pochi casi in cui l’intervento pubblico è stato capace di volgere a proprio favore i meccanismi della rendita.

 

Noi comperavamo i terreni nelle zone in cui ritenevamo che la città dovesse espandersi. Realizzavamo le opere pubbliche e le infrastrutture e poi rivendevamo quei terreni ai costruttori privati che avrebbero edificato. Vendevamo ad un prezzo che non solo ci consentiva di ottenere il pareggio di tutta l’iniziativa, e dunque di non gravare sui bilanci comunali, ma che era al tempo stesso, di molto inferiore a quello normalmente pagato per le aree fabbricabili private. E queste le mandavamo fuori mercato. […] è stata un’operazione condotta con i criteri del mercato, facendo valere il principio della concorrenza e riuscendo ad ottenere che della concorrenza si avvantaggiasse il pubblico[3].

 (torna su)

Solo apparentemente scollegato dalle riflessioni sul ruolo possibile, ma mancato del Pubblico, le considerazioni sullo stato delle professioni specialistiche in Italia, laddove Benevolo individua la libera professione (di architetti, ingegneri e geometri), come il nerbo disciplinare di una politica territoriale volta esclusivamente all’accrescimento della rendita privata e alla realizzazione ad oltranza di sempre nuovi insediamenti, per lo più sbagliati. In una condizione siffatta, ove la committenza è quasi sempre, e solo, privata, le competenze tecniche, rese servili agli imperativi delle scelte imposte dal mercato e senza possibilità di messa in discussione dei ruoli di sola progettazione ed esecuzione di opere calate dall’alto sul territorio, sono convogliate nell’unico ambito lasciato alla discrezione disciplinare, vale a dire quello della pura “creatività artistica”, condizione che in parte spiega anche lo sconfinato narcisismo progettuale di quello star system di cui oggi è possibile misurare la completa strutturalità allo scempio del paesaggio.

Non si può dire che la visione di Benevolo non sia lucidamente capace di individuare le radici di una serie di problematiche irrisolte nel campo del governo del territorio, ma a maggior ragione la correttezza delle premesse amplifica la sensazione di debolezza della sua visione complessiva ancora così fortemente radicata in una fiducia negli strumenti di una certa razionalità urbanistica oggettivamente definibile, che si traduce, quasi meccanicamente, in una fiducia nell’intervento pubblico, fiducia che però non trova riscontro nell’esperienza dell’urbanistica italiana, se non in qualche caso sparuto, come lo stesso autore non manca di sottolineare. Benevolo sembra non voler trarre delle conclusioni definitive sull’inadeguatezza dell’apparato pubblico, governato da una grigia mediocrità burocratica, così compromessa con gli interessi privati in epoca espansiva e così egemonizzata da una visione dismissoria nell’attuale fase recessiva. Infine l’esposizione delle sue soluzioni progettuali denuncia una concezione strettamente autoriale della problematica complessa del territorio, in cui non c’è traccia neanche di un retro pensiero sulla possibilità di superare l’impostazione dell’urbanistica modernista, in cui il ruolo troppo determinante e immobile del pubblico possa essere finalmente consegnato agli esiti di un dibattito allargato alle cittadinanze destinatarie delle trasformazioni del territorio secondo modalità in grado di ripensare e rifondare lo stesso ruolo disciplinare dell’urbanista.

 

Per Benevolo si tratterebbe, in definitiva, di affidare alle persone giuste, in ragione del loro merito, la soluzione dei problemi più scottanti per ottenere senz’altro un miglioramento delle condizioni di vita nel contesto urbano. È evidente, in questo atteggiamento una sorta di positivismo razionalista dell’urbanista, deus ex machina della tragedia urbana, non molto distante dall’egocentrismo professionale dei grandi studi di progettazione che disegnano opere miliardarie ai quattro angoli del pianeta come episodi successivi della propria ricerca personale di uno stile riconoscibile.

Se l’urbanistica italiana è viziata da un’impostazione di grigio compromesso, nessuna idea radicale può trovare applicazione senza farsi essa stessa grigio compromesso con i poteri costituiti.

 (torna su)

L’anticittà

Fin dalle prime pagine del libro si intuisce che non è intenzione dell’autore presentare ciò che egli chiama l’anticittà come un problema da risolvere.

Se siamo noi l’anticittà allora essa non è frutto altro che della nostra stessa volontà e in nessun modo risultato di fenomeni contingenti, dotati di proprie dinamiche alle quali anche il nostro volere è, in un modo o nell’altro, assoggettato. Questa presunta equivalenza fra desiderio e realtà del fenomeno urbano, oltre ad implicare un’identificazione, inesistente, fra operatori pubblico/privati, attori veri nel palcoscenico urbano, e il resto della moltitudine, per di più succube di ciò che accade, dà per scontato che ciò che si fa sul territorio corrisponde sempre a ciò che la cittadinanza chiede di fare, cosa che oltre ad essere inesatta si presenta anche come uno sconto di responsabilità all’urbanista.

Non è in discussione che la città contemporanea si conformi effettivamente come somma di «villette, capannoni, centri commerciali, palazzine, box, officine. […] espressione di piccoli frammenti della nostra società (la famiglia, la piccola impresa, l’azienda, volutamente isolati dallo spazio pubblico e indifferenti alle sue regole»[4]. Essa è infatti costruita dai privati e in qualche modo determinata dalle loro possibilità economiche in relazione ai propri bisogni, dalla localizzazione diffusa e non concentrata delle loro proprietà e dal livello della loro personale cultura architettonica. In definitiva si può dire che è il risultato di una società antropologicamente strutturata dalla proprietà privata, cosa che nega all’origine l’esistenza di una “regola pubblica” dello spazio costruito. Se però ciò che viene fuori da questo insieme di elementi prende la forma di “monadi edilizie” (il lotto di terreno con un edificio al centro) utilizzate come piccoli bunker domestici in cui la privazione di relazioni con l’esterno è sostanzialmente surrogata dall’irruzione delle tecnologie informatiche, che ci mettono in connessione pur stando fermi, è perché, pur volendo fare diversamente, ciò non risulta possibile. È come dire che una persona si esprime in una certa lingua come frutto di una propria scelta, cosa che evidentemente non è. Partire da questo presupposto significa eludere a piè pari qualsiasi possibilità di analisi critica del reale e quindi qualsiasi fondamento logico dell’ini-ziativa urbana della società nel suo insieme. Rende superfluo parlare della città e ripiega lo sguardo disciplinare dell’urbanistica sul proprio ombelico. In effetti nel libro di Boeri più che parlare dei problemi della città, si parla dell’inadeguatezza degli strumenti classici con cui si guarda alla città.

Certo parlare della necessità di innovare gli strumenti di lettura della città potrà apparire più nuovo che tornare sempre sui noti nodi irrisolti del suo sviluppo urbano capitalistico, ma non è detto che questo torni necessariamente utile a migliorare ciò che non funziona. Boeri non rischia perciò di cadere in nessun discorso utopistico e in nessuna retorica sul ruolo del pubblico, in nessun moralismo, allo stesso modo in cui però non rischia di dire qualcosa di utile sull’anticittà. Il suo realismo non fa che esasperare quell’impressione di ritiro, di contrazione dell’intervento pubblico che però non è un suo necessario superamento mediante una forma di intervento più efficace, ma piuttosto una sua compiuta elusione, in un panorama in cui l’unica forza operante resta il mercato (grande innominato nel suo libro) con i suoi meccanismi privatistici, anche laddove riesce ad agire attraverso i canali del pubblico. Si tratta cioè di una piega presa dalla visione post-modernista che risponde più ad una totalizzante impossibilità di agire di fronte alle cieche forze del capitale che ad una scelta di saggia inazione da parte dell’urbanistica contemporanea.

Per questo motivo quando Boeri parla dell’auto-limitazione come di una «forma di sospensione dell’agire, del costruire, dell’occupare», come necessario espediente per il «cambiamento di prospettiva delle politiche urbane prodotto da un’etica [finalmente] non antropocentrica», sembra voler implicitamente far passare l’idea che invece ciò che chiama anticittà sia il prodotto di un’etica fondata sui bisogni dell’uomo, piuttosto che su quelli del mercato e sulla struttura territoriale dell’assetto proprietario del suolo, mancando completamente il bersaglio della propria trattazione. La domanda è: come si fa a non vedere la continua espansione dell’anticittà come una conseguenza, fra le altre cose, dell’espulsione della moltitudine dal centro cittadino? Quale etica compiutamente antropocentrica potrebbe sortire l’effetto di allontanare, piuttosto che includere, le persone in uno spazio pubblico condiviso? Parlare di “antropocentrismo” in luogo delle dinamiche di mercato, non rappresenta un’iden-tificazione totale, e perciò falsificante, dei bisogni umani dell’abitare con le dinamiche della rendita alla base del social removal urbano degli ultimi decenni? È antropocentrica la visione che rende il centro di Milano un luogo senza vita composto di seconde case per ricchi in giro per il mondo? I centri urbani di oggi espellono cittadinanza (senza più “diritto alla città”), la quale non può che trovare asilo nell’indefinito anello anti-cittadino, né città, né campagna, che asfissia ciò che resta della città. Si tratta evidentemente di un fortissimo equivoco circa la descrizione della natura di quelle leggi che determinano l’odierno assetto del fenomeno urbano. L’anticittà altro non è che la forma cementificata e definitiva dei quartieri abusivi, fatti di capanne, ma considerati provvisori, che negli anni sessanta assediavano le grandi città come Roma (per fare solo un esempio possibile).

Si tratta in sostanza di una città diffusa e spontanea (cioè priva di concetto) nonostante risulti, per lo più, edificata nel rispetto delle regole urbanistiche, perché risponde alla miserevole visione dello spazio urbano che il mercato dei suoli, delle costruzioni e dei favori politici, ha indotto anche in quelle discipline che del territorio, e dei suoi rapporti con i bisogni umani (reali), avrebbero dovuto occuparsi.

Ma se nella trattazione sull’anticittà non c’è posto per riflessioni su concetti vecchi come il regime dei suoli e i meccanismi di rendita fondiaria, anzi se tale trattazione è fondata sul presupposto di un’impos-sibilità di fare urbanistica al di fuori di un regime privato dei suoli[5] è scontato che le pur efficaci descrizioni dell’anticittà contemporanea non possono preludere al superamento della propria essenza descrittiva e non possono sfuggire ad una sorta di sterilizzazione dell’analisi, come metafora della condizione dell’urbanistica nell’epoca dell’anticittà. Boeri infatti individua bene il carattere individualistico dell’anticittà quando scrive:

 

Lo spazio che ci circonda, non solo lo spazio geopolitico, ma anche quello della vita quotidiana, sembra a dire il vero sempre più increspato e rugoso. Tagliato e interrotto da muri, recinti, soglie, ostacoli, bordi normati, frontiere virtuali, aree specializzate, zone protette. Muoversi, spostare il proprio corpo da una strada all’altra, o da un aeroporto all’altro, significa oggi sfidare un numero crescente di sistemi di controllo e di confini. […] Invece che un fluire libero, i nostri movimenti assumono sempre più la forma di sussulti e soste, di una sequenza di “stop and go”, di un balletto di password e documenti di identificazione. […] viene da chiedersi se non sia proprio questa l’angolatura migliore per guardare il mondo contemporaneo. Come se fossero i confini, e non i flussi, la sua vera cifra[6].

 

ma riduce il “fare città”, per combattere l’anticittà, ad una serie di indicazioni abbastanza generiche, tutte elencate a pari grado, come fossero senz’altro praticabili mediante una semplice dose di buon senso urbanistico, cosa che tradisce una fiducia nelle forze oscure dell’anticittà che suona, in tutta franchezza, un po’ stonata. Come stonata è la proposta di «una politica di decentramento che affidi a una rete di luoghi deliberativi – veri e propri municipi metropolitani – il ruolo di mediatori tra politiche metropolitane e istanze dei territori»[7], la quale apparentemente definita come democrazia urbana deliberativa, in realtà risulta semplice espediente di mediazione fra politiche urbane (evidentemente decise altrove) e istanze socio-territoriali e non come luogo in cui le istanze del territorio si fanno politica metropolitana.

 (torna su)

Quale fine dell’anticittà?

Sembra chiaro come la dialettica fra modernismo e post-modernismo in urbanistica, non sembri possedere in sé elementi capaci di indicare una via credibile al recupero della “dimensione città” come risposta alla disgregazione urbana e sociale che abbiamo di fronte, alla quale non è possibile rispondere più né attraverso la rivendicazione di un ruolo guida dell’urbanistica come portato di una politica del “buon senso del Pubblico”, né tantomeno di un suo ruolo guida per la formazione di “buon senso del Privato”, essendo entrambe le categorie di intervento (del Pubblico e del Privato) largamente responsabili tanto della fine della città quanto della formazione continua di quel nemico interno dell’anticittà. Ciò che ha negato e continua a negare alla radice il senso urbano delle scelte metropolitane nell’Italia repubblicana è stata la sistematica esclusione della cittadinanza dai processi decisionali, tradottasi nell’impossibilità di attuare pratiche di riappropriazione dello spazio da parte di chi lo vive, mediante scelte consapevoli, condivise in un dibattito democratico finalizzato all’intervento sullo spazio e non alla chiosa più o meno partigiana di opzioni già confezionate altrove (da gruppi organizzati). In entrambe le concezioni urbanistiche descritte ciò che manca è la considerazione della democrazia quale strumento principale di una “nuova urbanistica”, che a partire dalla riappropriazione dello spazio pubblico, bene comune attuale, possa farsi anche strumento di superamento della dimensione privata dell’abitare (perché tutto lo spazio è un bene comune). La domanda vera è se può esserci davvero un “fare città” come risultato di una moltitudine di iniziative di costruzione (pubbliche e private) piuttosto che come iniziativa di costruzione “comune” (né pubblica, né privata, ma democratica) della moltitudine e di conseguenza se si debba ormai parlare di antiurbanistica (governo privato del territorio di tutti) oppure se possa ancora parlarsi di una qualche urbanistica (governo democratico di tutto il territorio).

 

AGOSTO 2012

(torna su)

 


[1] Stefano Boeri, L’anticittà, Laterza, Bari 2011, p. xv.

[2] Leonardo Benevolo, La fine della città, Laterza, Bari 2011, p. 51-53.

[3] Benevolo, cit., pp. 86-87.

[4] Boeri, cit., p. 56.

[5] Come dimostra questo passaggio a pag. 114: «Dopo la caduta del regime comunista in Albania, Rama ha deciso di lasciare Parigi e di tornare a Tirana per candidarsi al governo della città. Tirana, capitale dell’Albania, era in quegli anni una città allo sbando. Senza un regime dei suoli che fissasse i diritti di proprietà, senza un piano urbanistico, gli spazi pubblici della città erano preda di una frenetica sbornia edilizia.»; sintomatico di una concezione dell’urbanistica quale disciplina normativa possibile solo in regime di proprietà privata, come se l’assenza di un regime privato dei suoli implicasse necessariamente l’assenza di una disciplina urbanistica, più che invece favorirne l’esistenza. Non si chiede Boeri come mai la sbornia edilizia si sia manifestata a Tirana proprio in quegli anni e non prima? Proprio cioè con la caduta del “regime comunista” ed il passaggio al libero mercato dei suoli? Questo passaggio sembra suggellare una visione demoralizzata dell’urbanistica, ormai incapace di concepire se stessa al di fuori del mercato.

[6] Boeri, cit., pp. 41, 42.

[7] Boeri, cit., p. 132.