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08
Ottobre 2012

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LA PRIMAVERA ARABA VISTA DAL GOLFO PERSICO

Maria Chiara Rizzo

 

Ad eccezione del Bahrein e dello Yemen, la Penisola arabica è stata solo parzialmente  risparmiata dall’ondata di proteste e rivoluzioni che scuotono ancora oggi il Nord Africa e il Medio Oriente dall’inizio del 2011. Ciononostante, la “primavera araba” fa sentire i suoi effetti sia sul piano politico che su quello geopolitico, implicando la formulazione di un nuovo schema di alleanze e strategie da parte dei Paesi del Golfo Persico. Infatti, desiderose di evitare qualsiasi contagio, le monarchie petrolifere si preoccupano di mettere in campo azioni tese a preservare la sicurezza nazionale e la stabilità della regione.

I protagonisti della partita, scesi in campo a contendersi i ruoli e mantenere posizioni consolidate nel tempo, sono rappresentati dall’Arabia Saudita e dall’Iran, la prima garante dell’ordine e della stabilità dell’area del Golfo, il secondo, invece, “nemico sciita pericoloso”, accusato di nascondersi dietro le rivolte tese a sconvolgere l’equilibrio regionale. La politica di Riyad, appoggiata dai membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (ccg) – di cui fanno parte Arabia Saudita, Bahrein, Kuwait, Qatar, Oman ed Emirati Arabi Uniti-, mira a limitare e ad indebolire l’influenza iraniana nella zona e a creare un asse saudita conservatore, capace di assicurare la sua sicurezza e il suo predominio. Il regno saudita ha messo in campo innumerevoli forze per riuscire nel suo intento e fino ad ora è riuscita a preservare il suo ruolo nella regione. Nel febbraio 2011, la protesta di qualche centinaia di sciiti nella zona est del Paese, che manifestavano la loro solidarietà per i fratelli musulmani in rivolta in Bahrein, è stata repressa repentinamente, così come altre piccole manifestazioni in cui i cittadini chiedevano semplicemente ai regnanti delle riforme minime. In quei sporadici casi le autorità hanno proceduto con l’arresto di un gran numero di manifestanti. Temendo l’inizio di una lunga serie di proteste, l’amministrazione saudita ha varato alcune misure volte a migliorare la situazione economica del Paese per comprare la pace sociale. Dunque, per calmare gli animi, il Paese, che controlla il 25% delle riserve petrolifere mondiali, ha intuito che era necessario dare segni, anche minimi, al suo popolo, di un cambiamento e di un interesse da parte della classe dirigente per le condizioni di vita dei cittadini. Di qui la decisione di stanziare 36 miliardi di dollari in un primo momento e 70 successivamente per intraprendere azioni per la lotta alla disoccupazione e per finanziare programmi sociali. Nessuna riforma politica è stata annunciata, se non pochi segni di apertura come la concessione del diritto di voto alle donne alle elezioni del 2015, che in un Paese come l’Arabia Saudita non è poco.

Al momento dello scoppio delle rivolte in Bahrein, nate per denunciare la corruzione delle élite sunnite al potere e reclamare l’uguaglianza dei diritti dei cittadini sciiti - una maggioranza nel Paese, ma estromessi dagli ambienti del potere e discriminati nella vita quotidiana -, il regno saudita non ha esitato ad intervenire a nome del ccg, denunciando la mano invisibile della Repubblica islamica dell’Iran dietro le proteste, allo scopo di destabilizzare l’area e creare terreno fertile per affermarsi come prima potenza della regione. Certo è che anche l’occidente avrebbe da temere, qualora si rovesciassero gli equilibri: la zona del Golfo riveste un’importanza strategica all’interno dell’attuale sistema internazionale degli Stati, a causa delle ingenti quantità di petrolio e di gas presenti nell’area, che costituiscono la principale fonte di approvvigionamento delle economie industrializzate. La minaccia per l’America in primis è più che evidente, anche perché il Golfo Persico ospita la V Flotta americana.

Le manifestazioni della “primavera araba” e le ripercussioni geopolitiche nel Golfo si inscrivono nel quadro di un rapporto di antagonismo tra Riyad e Teheran, in cui le frange sciite che abitano la regione costituiscono dei potenziali pericoli da tenere sott’occhio. Ed è proprio in quest’ottica che si spiegano gli aiuti dell’Arabia Saudita e del Qatar destinati ai ribelli siriani che da ormai più di un anno combattono un regime dispotico, quello di Bashar Al Assad, fortemente voluto e sostenuto dall’Iran. Il Qatar, che non sempre ha avuto un rapporto idilliaco con la casa reale saudita, ha dispiegato tutta la sua forza e la sua diplomazia nel perseguire l’obiettivo comune di fare terra bruciata intorno all’Iran.

 

AGOSTO 2012