LA PRIMAVERA ARABA
VISTA DAL GOLFO PERSICO
Maria Chiara Rizzo
Ad eccezione del
Bahrein e dello Yemen, la Penisola arabica è stata solo parzialmente
risparmiata dall’ondata di proteste e rivoluzioni che scuotono
ancora oggi il Nord Africa e il Medio Oriente dall’inizio del 2011.
Ciononostante, la “primavera araba” fa sentire i suoi effetti sia sul
piano politico che su quello geopolitico, implicando la formulazione di
un nuovo schema di alleanze e strategie da parte dei Paesi del Golfo
Persico. Infatti, desiderose di evitare qualsiasi contagio, le monarchie
petrolifere si preoccupano di mettere in campo azioni tese a preservare
la sicurezza nazionale e la stabilità della regione.
I protagonisti della
partita, scesi in campo a contendersi i ruoli e mantenere posizioni
consolidate nel tempo, sono rappresentati dall’Arabia Saudita e
dall’Iran, la prima garante dell’ordine e della stabilità dell’area del
Golfo, il secondo, invece, “nemico sciita pericoloso”, accusato di
nascondersi dietro le rivolte tese a sconvolgere l’equilibrio regionale.
La politica di Riyad, appoggiata dai membri del Consiglio di
Cooperazione del Golfo (ccg)
– di cui fanno parte Arabia Saudita, Bahrein, Kuwait, Qatar, Oman ed
Emirati Arabi Uniti-, mira a limitare e ad indebolire l’influenza
iraniana nella zona e a creare un asse saudita conservatore, capace di
assicurare la sua sicurezza e il suo predominio. Il regno saudita ha
messo in campo innumerevoli forze per riuscire nel suo intento e fino ad
ora è riuscita a preservare il suo ruolo nella regione. Nel febbraio
2011, la protesta di qualche centinaia di sciiti nella zona est del
Paese, che manifestavano la loro solidarietà per i fratelli musulmani in
rivolta in Bahrein, è stata repressa repentinamente, così come altre
piccole manifestazioni in cui i cittadini chiedevano semplicemente ai
regnanti delle riforme minime. In quei sporadici casi le autorità hanno
proceduto con l’arresto di un gran numero di manifestanti. Temendo
l’inizio di una lunga serie di proteste, l’amministrazione saudita ha
varato alcune misure volte a migliorare la situazione economica del
Paese per comprare la pace sociale. Dunque, per calmare gli animi, il
Paese, che controlla il 25% delle riserve petrolifere mondiali, ha
intuito che era necessario dare segni, anche minimi, al suo popolo, di
un cambiamento e di un interesse da parte della classe dirigente per le
condizioni di vita dei cittadini. Di qui la decisione di stanziare 36
miliardi di dollari in un primo momento e 70 successivamente per
intraprendere azioni per la lotta alla disoccupazione e per finanziare
programmi sociali. Nessuna riforma politica è stata annunciata, se non
pochi segni di apertura come la concessione del diritto di voto alle
donne alle elezioni del 2015, che in un Paese come l’Arabia Saudita non
è poco.
Al momento dello
scoppio delle rivolte in Bahrein, nate per denunciare la corruzione
delle élite sunnite al potere e reclamare l’uguaglianza dei diritti dei
cittadini sciiti - una maggioranza nel Paese, ma estromessi dagli
ambienti del potere e discriminati nella vita quotidiana -, il regno
saudita non ha esitato ad intervenire a nome del
ccg, denunciando la mano
invisibile della Repubblica islamica dell’Iran dietro le proteste, allo
scopo di destabilizzare l’area e creare terreno fertile per affermarsi
come prima potenza della regione. Certo è che anche l’occidente avrebbe
da temere, qualora si rovesciassero gli equilibri: la zona del Golfo
riveste un’importanza strategica all’interno dell’attuale sistema
internazionale degli Stati, a causa delle ingenti quantità di petrolio e
di gas presenti nell’area, che costituiscono la principale fonte di
approvvigionamento delle economie industrializzate. La minaccia per
l’America in primis è più che evidente, anche perché il Golfo Persico
ospita la V Flotta americana.
Le manifestazioni della
“primavera araba” e le ripercussioni geopolitiche nel Golfo si
inscrivono nel quadro di un rapporto di antagonismo tra Riyad e Teheran,
in cui le frange sciite che abitano la regione costituiscono dei
potenziali pericoli da tenere sott’occhio. Ed è proprio in quest’ottica
che si spiegano gli aiuti dell’Arabia Saudita e
del Qatar destinati ai ribelli siriani che da ormai più di un anno
combattono un regime dispotico, quello di Bashar Al Assad, fortemente
voluto e sostenuto dall’Iran. Il Qatar, che non sempre ha avuto un
rapporto idilliaco con la casa reale saudita, ha dispiegato tutta la sua
forza e la sua diplomazia nel perseguire l’obiettivo comune di fare
terra bruciata intorno all’Iran.
AGOSTO 2012