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08
Ottobre 2012

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Transizione

AMBURGO 2012: ALTERNATIVE CURDE ALLA «MODERNITà CAPITALISTA» E ALLO STATO NAZIONE

Domenico Musella, Alessandro Paolo

 

Questo articolo costituisce una rielaborazione della relazione presentata nellaprile 2012 nellambito del Seminario di Storia e Cultura del Popolo Curdo che si tiene annualmente presso lUniversità degli Studi di NapoliLOrientale”.

 

Era Amburgo, ma ai nostri occhi è sembrata una piccola Diyarbakır[1]. Laula magna dellaUniversität Hamburg” che ha ospitato dal 3 al 5 febbraio 2012 la conferenza internazionale Sfidare la modernità capitalista. Concetti alternativi e la questione curda era stracolma di uomini e donne di origine curda (prevalentemente del Curdistan del nord, la porzione che rientra nei confini turchi), trapiantati o meno in Germania, nonché di numerosi ospiti giunti dalle parti più disparate del globo. Si respirava aria di Curdistan già nellatrio dellateneo anseatico, in cui trovava spazio una miriade di stand che offrivano libri sulla Mesopotamia, ritratti di Öcalan, foulard giallo-rosso-verdi e report sulla resistenza dei guerriglieri delle montagne, oltre a cd di musica popolare, foto, riviste. In più gli strilloni del quotidiano tedesco in lingua curda Yeni Özgür Politika, che allingresso invitavano a comprare il loro giornale, come pure le pietanze servite nelle pause pranzo da simpatiche signore, contribuivano a rendere latmosfera tutt’altro che teutonica. Ciò che più spingeva la mente ed il cuore verso il Curdistan erano però le sensazioni che si percepivano: di sofferenza tramutata in voglia di cambiamento; di dignità umana che mai si presta alla rassegnazione, anzi cerca alternative per un futuro migliore che siano esempio per tutti.

Curiosi e appassionati, abbiamo sfidato i 13 gradi sotto zero della colonnina di mercurio e siamo partiti da Napoli per partecipare a questa intensa tre giorni ricca di spunti interessanti, racconti di esperienze dalternativa, interventi stimolanti accompagnati da chiacchierate interculturali ed umanamente arricchenti. Il tema principale: come superare il capitalismo in tutte le forme con cui esso si è manifestato finora, dallo stato-nazione al razzismo, dal sessismo al positivismo scientifico, dal militarismo al «genocidio» culturale ed ambientale. Una riflessione non nuova ma allo stesso tempo quanto mai attuale in tempo di «crisi», condotta mantenendo come costante riferimento lesperienza del popolo curdo e levoluzione della teoria e della prassi politica di una parte non irrilevante del suo movimento politico, quella più strettamente legata ad Abdullah Öcalan ed al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (pkk). Ma perché proprio i curdi? Il popolo mesopotamico con la sua particolare storia rappresenta in maniera emblematica un punto di vista «diverso» rispetto alla questione della modernità figlia del sistema capitalista. Senza stato, senza un sistema economico pienamente sviluppato in senso capitalista (ma in presenza di unannosa e frustrante tensione, nonché di un forte condizionamento verso di essi), ed invece con una questione feudale mai compiutamente risolta ed un consistente peso dellislam, i curdi incarnano le contraddizioni che da molto tempo vive il Medio Oriente, e con esso lintero pianeta. Tuttavia, pur in una situazione di perdite, sofferenze e discriminazioni, hanno cominciato a rivalutare la loro diversità per costruire più liberamente unalternativa possibile. Sfruttando proprio lassenza di alcune strutture  del sistema (come sarebbe ad esempio uno stato nazionale curdo) per rifondare un nuovo modello di società, su basi diverse. Non a caso infatti il dibattito curdo, seppur nella penombra, è tra i più fertili per quanto riguarda le possibili direzioni da seguire per trasformare la crisi del sistema in unopportunità di cambiamento radicale. Ciò è vero soprattutto per la sinistra curda, che è giunta a livelli di discussione intellettuale molto raffinati e a realizzazioni effettive di piccoli sistemi di democrazia e di economia sostenibile molto interessanti. Il passaggio dalla visione marxista tradizionale allanarchismo e poi al municipalismo ed al «confederalismo democratico», evidenziabile soprattutto dagli scritti più recenti di Öcalan, è una testimonianza di quanto appena affermato. Si sia o meno daccordo con tali posizioni, pensiamo sia fondamentale tenerle in considerazione ed apprezzare lo sforzo teoretico e pratico che sta portando avanti una parte non irrilevante del popolo curdo, in Curdistan come nella diaspora, per trovare nuove forme di convivenza politica e sociale, alternative allo sfruttamento e più compatibili con luomo ed il territorio. Così come quelli di altri popoli privi del diritto allautodeterminazione ed in lotta per il riconoscimento della propria esistenza (dai palestinesi, ai baschi, alle comunità zapatiste del Chiapas etc.), il contributo curdo è importante anche per consentire allEuropa ed allOccidente di pensare a qualcosa di alternativo a questo sistema, la cui fine appare sempre più prossima e definitiva, ma rispetto alla quale non siamo ancora pronti a fornire una risposta adeguata. A tal fine abbiamo pensato di proporre qui di seguito alcuni tra i moltissimi spunti emersi alla conferenza di Amburgo, senza alcuna pretesa di esaustività, non prima di alcuni brevi cenni che aiutano a comprendere ed a contestualizzare tale evento internazionale allinterno dello sviluppo storico del pensiero politico curdo, nella «nazione-senza-Stato» così come nel complesso spazio dellemigrazione curda allestero, in particolar modo in Germania.

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Il contesto: cenni sul movimento politico curdo e sulla diaspora curda in Europa

Passando brevemente in rassegna levoluzione del movimento politico curdo in Turchia (per quanto riguarda i curdi in Iran, Iraq, Siria ed altri Paesi i percorsi sono differenti e ci è impossibile renderli in questa sede), i primi gruppi intellettuali e politici che sostengono apertamente in epoca contemporanea la causa dellautonomia del popolo mesopotamico vedono la luce negli anni ‘60[2]. Siamo nel campo alquanto sfaccettato della sinistra turca, e le diverse soluzioni proposte per la questione curda ricalcano appunto la varietà delle posizioni in gioco. Tuttavia, il leitmotiv dei discorsi sul «Curdistan turco» riguarda in generale la critica alla condizione di sottosviluppo delle zone a maggioranza curda ed alla condizione di subalternità delle stesse regioni orientali, e di conseguenza le rivendicazioni del popolo curdo vengono fatte coincidere con quelle più generali del proletariato (industriale ed agricolo) in una prospettiva marxista. La cornice dello stato-nazione turco, centralizzato e con forti pretese di omogeneità, non è messa tanto in discussione in queste fasi. Negli anni ‘70 il carismatico AbdullahApoÖcalan raccoglie attorno a un gruppo di studenti di origine curda delluniversità di Ankara, vicini a varie correnti marxiste turche, il primo nucleo di quello che nel 1978 diverrà il pkk (Partiya Karkerên Kurdistan Partito dei Lavoratori del Curdistan). Tale formazione ha come obiettivo un cambiamento radicale e rivoluzionario della società, allinterno del quale è prevista la formazione graduale di uno stato indipendente del Curdistan di stampo socialista. In questi anni la lotta intestina circoscritta allo stesso schieramento filo-curdo si mostra molto aspra: le varie correnti con visioni politiche anche radicalmente diverse si contendono il monopolio della rappresentanza degli interessi del popolo curdo, e la violenza non è lesinata. Il 1980 vede in Turchia un colpo di stato militare che il via ad una repressione statale nei confronti degli autonomisti curdi più pesante del solito. Agli arresti brevi e occasionali (che creavano nelle carceri anche momenti di formazione politico-culturale dei militanti di provenienza rurale ad opera dellélite istruita del movimento) si sostituiscono arresti generalizzati cui seguono lunghe detenzioni e perfino assassinii. Lélite intellettuale del movimento viene decimata ed il profilo dei militanti curdi cambia, mostrando sempre più attivisti privi di una profonda preparazione politica ed intellettuale. Ciò è dovuto anche ai numerosi ostacoli loro imposti nella formazione e nella partecipazione alla sfera pubblica: ne è un esempio il divieto di parlare in pubblico la lingua curda datato 1983[3]. Progressivamente si fa spazio la lotta armata, prima diretta contro quei curdi che appoggiano il regime autoritario turco, poi contro i militari turchi che rafforzano la loro presenza nelle regioni sudorientali del paese. É linizio della guerriglia, prevalentemente targata pkk, contro una repressione sempre crescente dello stato turco in questi territori. Lo stesso pkk di Öcalan monopolizza a partire dal 1990 le rivendicazioni autonomiste del popolo curdo, che da allora anche nellopinione pubblica internazionale vengono esattamente sovrapposte a quelle di tale formazione (che pur essendo la più ampia e influente non rende giustizia alla pluralità di posizioni in seno al movimento curdo). Il governo di Ankara sembra mostrare con Özal timidi segni di apertura, in poco tempo però smentiti da una nuova ondata repressiva e dallescalation del conflitto armato.

Parallelamente alla lotta armata il movimento curdo sceglie però di seguire anche una via «legale» e democratica» di opposizione al centralismo dello stato turco. Si susseguono così una serie di partiti, sette sigle dallhep (Partito del Lavoro del Popolo) del 1990 fino al bdp (Partito della Pace e della Democrazia) del 2008, tuttora attivo, che si presentano apertamente sulla scena politica turca come sostenitori delle ragioni dei curdi. Nessuno di questi partiti riesce a sopravvivere più di qualche anno a causa dei continui scioglimenti messi in atto dalle autorità statali, che li contrastano con ogni mezzo. Ciononostante tali forze politiche ottengono importanti successi elettorali: molti sono, infatti, gli attivisti delle regioni sudorientali che riescono ad ottenere dei seggi in Parlamento come indipendenti, per aggirare lostacolo della forte soglia di sbarramento (10%). Il 1999 è un anno chiave: il 15 febbraio dopo una lunga odissea diplomatica Abdullah Öcalan viene arrestato ed imprigionato nellisola-carcere di İmralı nel mar di Marmara. A tuttoggi è il solo detenuto dellisola, e dal 27 luglio 2011 si trova in isolamento totale, sia dai suoi avvocati (36 dei quali arrestati nel novembre dello stesso anno) che dal resto del mondo. Öcalan riesce a produrre durante il suo periodo di prigionia una serie considerevole di scritti e riflessioni, che lo conducono ad un riposizionamento politico di non poco conto. Da una visione marxista piuttosto ortodossa egli transita, passando attraverso lanarchismo, verso le prospettive teoriche del «municipalismo» e del «confederalismo democratico». Quello che nella sostanza cambia a seguito di questi sviluppi teorici è labbandono dellidea di creare uno stato-nazione dei curdi. Lo stato e lidea di nazione vengono visti, in tutte le loro possibili forme, come strumenti fondamentali del sistema capitalista per perpetuare la sua opera di sfruttamento. Scopo è ora costruire una nuova società e nuove forme di partecipazione politica e di gestione del vivere sociale che non abbiano come vittime le popolazioni, inaugurando lera della «modernità democratica». Una «liberazione» della società che consenta ad ogni popolo mediorientale di vivere senza repressioni o condizionamenti e in un contesto di pace. Un cambiamento che riguardi non solo il sistema politico, ma la vita umana a 360 gradi, dalle scienze alle arti, dalleconomia al rapporto con lambiente, dalle problematiche di genere alla convivenza interculturale. Tutte queste idee sono sintetizzate nella raccolta di scritti di Öcalan Confederalismo democratico, una sorta di pamphlet da cui ha preso le mosse la stessa conferenza di Amburgo[4].

Tale riposizionamento ideologico «post-İmralı» ha però causato una sorta di spaccatura in seno al movimento politico curdo, tra chi propende per la guerriglia sulle montagne (una posizione difesa soprattutto dai sostenitori europei e dai veterani del pkk) e chi invece spinge per la via dellopposizione legale e democratica (il bdp e la società civile del Curdistan turco riunita dal 2010 nel dtk, il Congresso della Società Democratica). Il tutto in una Turchia che si vuole alla guida del Medio Oriente, governata da Erdoğan e dal suo partito di ispirazione islamica akp che ha inaugurato una nuova fase di forte repressione del dissenso su più fronti e che non ha risposto con aperture significative al cessate il fuoco unilaterale del pkk dellestate 2010, alle proposte di Road map per la democratizzazione della Turchia presentate da Öcalan, alla dichiarazione unilaterale dell’«autonomia democratica» del Curdistan del luglio 2011.

 

Va precisato che una storia speculare a quella delle rivendicazioni dei curdi in Turchia ha avuto luogo parallelamente in Germania, meta favorita dellimmigrazione anatolica. Lo scontro tra il regime di Ankara e gli attivisti curdi si è riproposto in ambito tedesco tra la comunità turca più nazionalista, sostenuta dalle rappresentanze diplomatiche, e i curdi della diaspora. Ancora oggi in Germania, ma anche in altri paesi europei con una cospicua popolazione curda come la Francia o la Gran Bretagna, si ripropone con una certa frequenza questo tipo di contrasti. Anche parlando con partecipanti e organizzatori della conferenza di Amburgo emergevano ricordi di tali conflitti, oltre allaneddoto per cui la città anseatica non è stata scelta casualmente, ma in ragione dellostilità incontrata in altre città della Bundesrepublik dove la componente nazionalista turca è più influente. I limiti alla mobilitazione di qualsiasi diaspora dipendono, infatti, anche dalle strutture di opportunità politica che i paesi ospitanti mettono a disposizione. Per farci unidea della realtà della diaspora curda in Europa, nonostante limpossibilità di avere dati completamente attendibili (non essendo il Curdistan unentità statale, gli immigrati regolari risultano alle autorità europee come cittadini con passaporto turco, iracheno, siriano, iraniano), possiamo usare le statistiche dellInstitut Kurde de Paris e del Consiglio dEuropa, che parlano di un numero che oscilla tra 700.000 e un milione di persone in tutto il continente, di cui circa metà nella sola Germania. Ben l’85% di esse proverrebbe dalla Turchia. Il contributo teorico[5] di Bahar Baser offre interessanti spunti di riflessione sull’attivismo politico della diaspora curda in Europa. Dominata sin dai tardi anni ‘80 dai sostenitori del pkk, suoi principali finanziatori in esilio, gli orientamenti politici al suo interno, da sempre declinati in una pluralità di posizioni[6], sono stati ulteriormente polarizzati non solo dalla cattura di Öcalan, ma soprattutto dall’inserimento del pkk nell’elenco delle organizzazioni terroristiche stilato dall’Unione Europea nel 2002. Questa criminalizzazione ufficiale ha chiaramente inibito ogni esplicita affiliazione all’organizzazione, determinando, sia all’estero che in patria, tanto un’ondata di condanne e persecuzioni, quanto l’adozione da parte di attivisti e associazioni curde e filo-curde di una strategia incentrata sulla retorica dei movimenti sociali e dei diritti umani.

 

È in questo quadro di cauto fermento, quindi, che si inserisce la conferenza di Amburgo. Tra gli organizzatori, oltre al Network for an Alternative Quest, figuravano anche il Network of Kurdish Academics (kurd-akad), la Association of Students from Kurdistan (yxk), il Kurdish Women’s Bureau for Peace (Cenî) e la rivista Kurdistan Report. Venti interventi di professori, giornalisti, ricercatori, esponenti politici e intellettuali provenienti da Turchia, Iraq, Gran Bretagna, India, Sud Africa, Stati Uniti, Norvegia, Spagna e Germania hanno animato quattro sessioni:

1) Alla ricerca di una nuova scienza sociale;

2) Il capitalismo come crisi della civiltà;

3) Il Medio Oriente oltre gli stati-nazione;

4) Verso un nuovo paradigma: la modernità democratica[7].

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Alla ricerca di una nuova scienza sociale

La conferenza, coerentemente con la sede che la ospita, si apre con un dibattito incentrato sul ruolo della conoscenza in funzione del cambiamento sociale e sulla ricerca di paradigmi per una nuova scienza sociale non-established. Punto di partenza è stato la constatazione che il modello di conoscenza finora più sostenuto ed incoraggiato dal mainstream e dagli stati-nazione capitalisti, basato sul cosiddetto positivismo scientifico, ha una grossa responsabilità nel mantenimento dello stato di cose presente. Ciò è vero soprattutto da quando il sapere è divenuto monopolio quasi esclusivo di ristrette élite di scienziati strettamente legati alle istituzioni statali e al sistema capitalista. Non a caso la prima a presentare un paper sul tema non è un’accademica, ma una ricercatrice indipendente che lavora per varie associazioni femministe e antirazziste tedesche: Ann-Kristin Kowarsch. Quest’ultima, riprendendo anche concetti presenti nel succitato Democratic Confederalism di Öcalan nel capitolo sul positivismo scientifico, ha proposto delle basi alternative per rifondare le scienze sociali. Innanzitutto, per la Kowarsch, è necessaria una nuova epistemologia che non consideri il razionalismo ed il ragionamento analitico come unici ed assoluti riferimenti per la comprensione del reale. Il focalizzarsi sulla sola ragione e la fiducia nella sola osservazione della realtà (ritenuta oggettiva) hanno portato a idolatrare una mera apparenza, che attraverso un procedimento di astrazione assurge però al rango di «realtà» e di «verità assoluta». Tutto ciò ha conseguenze nella vita reale non indifferenti: il dualismo che scaturisce da questo tipo di ragionamenti basati sulla sola esistenza di una verità e della negazione della stessa (il suo contrario), unito al procedere per contrasti tra un «bianco» ed un «nero» senza sfumature, non ha impiegato molto a diventare razzismo, rifiuto di tutto quanto è diverso, violenza contro di esso (specie se trattasi di esseri umani). I genocidi degli ultimi secoli in ultima analisi hanno a che fare con tale tipo di sguardo sul mondo, perfettamente in linea con le esigenze di omogeneità e di dominio dei vari poteri costituiti. Una nuova scienza dovrebbe perciò dare spazio a modi alternativi di conoscenza: alle intuizioni, ai sentimenti, ma anche all’etica ed alla filosofia, dalle quali il sapere è stato nel corso della storia progressivamente e forzatamente allontanato, al fine di asservirlo ad un sistema, quello capitalista, che si contraddistingue per il non essere etico. Alla comprensione ed alla spiegazione della realtà una rinnovata scienza sociale più affine all’uomo ed alla natura dovrebbe affiancare il compito di agire attivamente per far (con)vivere meglio le persone. Il metodo scientifico non dovrebbe essere separato da un’ideologia soggiacente di cambiamento radicale. Dall’illusione di una scienza neutra, ma che nella realtà è asservita ad un’ideologia che distrugge i legami tra le persone e sacrifica l’ambiente, bisognerebbe passare ad una scienza sociale consapevolmente orientata verso rapporti sociali e stili di vita liberi e alternativi a quelli attuali. La scienza sociale dovrebbe traghettare verso uno stato di cose in cui, ad esempio, oltre al razzismo ed alla discriminazione siano bandite anche le gerarchie ed il sessismo legato alla società patriarcale. In tutto quanto fin qui detto non sfugge l’eco della teoria critica di Adorno e della scuola di Francoforte, importanti riferimenti per una riflessione non convenzionale in questi ambiti. Tra gli spunti emersi rispetto ad una rifondazione della conoscenza di cui si è discusso in questa sessione segnaliamo inoltre: la necessità che i centri del sapere come le scuole e le università divengano indipendenti sia dallo stato nazionale che dai gangli del potere economico; la propensione verso una società aperta che non distingua in maniera dualistica l’interesse pubblico da quello privato; l’assenza della rigida divisione dei ruoli in ambito scientifico, con studenti da un lato e docenti dall’altro, in favore invece di un maggiore dialogo ed interscambio tra le due parti, dando spazio anche a metodi creativi e non convenzionali di insegnamento. Proposta generale emersa dal dibattito è stata quella di predisporre una nuova mentalità (mindset) per una società che sia finalmente libera. E questo non può che passare attraverso una scienza sociale rimessa a nuovo, caratterizzata da un legame diretto e performante in senso positivo rispetto alla vita quotidiana degli esseri umani e del pianeta.

All’interno di questa sessione è emerso l’interessante esempio, fornito questa volta invece dal dottorando in scienza politica dell’Università di Boğazici (Istanbul) Ahmet Alıs, di come teorie convenzionali come quelle che girano intorno al concetto di nazionalismo siano inadatte a spiegare realtà quali quella del movimento curdo, che ancora una volta risulta intrinsecamente fuori dagli schemi. In un intervento alquanto tecnico e per certi versi accademico il ricercatore ha spiegato come in realtà gli intellettuali e attivisti curdi, nella terra d’origine come nella diaspora, abbiano seguito un percorso diverso da quello tradizionale dei movimenti nazionalisti. Nella sua complessità, la questione curda avrebbe come perno più che altro rivendicazioni «etnoregionaliste», come il riconoscimento della propria esistenza e della propria cultura, la partecipazione alla vita civile e politica, l’autonomia: ancora una volta distanti dal modello di stato nazionale moderno che ad esempio ha difficoltà nell’accettazione di quelle che chiama con un termine poco appropriato «minoranze». Peculiare è poi la triade che sarebbe alla base dell’ideologia di larga parte del movimento «giallo-verde-rosso»: la «curdicità» (kurdishness), il socialismo/marxismo e l’islam sunnita e alevita.

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Il capitalismo come crisi della civiltà

Ricca di riflessioni interessanti e punti di vista differenti è stata la seconda serie di interventi della conferenza amburghese, moderata dal rappresentante della sinistra basca Jon Andoni Lekue, volta a sviscerare i vari aspetti attraverso i quali il sistema capitalista è riuscito a condurre la civiltà umana in una fase piuttosto discendente della propria storia. Un paper del noto teorico Toni Negri (impossibilitato all’ultimo minuto ad intervenire di persona nel dibattito) dà il la alla discussione tracciando un po’ le linee guida per un’interpretazione del capitalismo così come si presenta nel 2012. In un contesto di globalizzazione, Negri utilizza il concetto di «impero» (il piccolo nucleo del potere capitalista) contrapposto a quello di «moltitudine» (la miriade di soggetti subalterni), tenendo presente che nel tempo si è giunti ad una vera e propria neutralizzazione del «politico». Tale fondamentale spazio è stato ora surclassato da una sorta di «estremismo di centro» che ha messo al bando le ideologie, in una situazione in cui tra l’altro il costituzionalismo e gli stati sovrani, arene nelle quali precedentemente si affrontavano visioni contrapposte della società, sono ormai logori ed esausti, distanti dal concreto e dalle necessità degli esseri umani. Proposta dell’intellettuale italiano è quella che i movimenti dell’alternativa (subalterni) si affidino al concetto di «comune» per recuperare uno spazio di azione sociale, che permetta di cambiare le cose in un sistema dominato dall’atomismo e dall’alienazione. Ragionare basandosi sul «comune» permetterebbe di andare oltre la dicotomia alienante delle categorie pubblico/privato, fondata sulla proprietà, per creare una nuova socialità. A complesse elucubrazioni su lavoro e potere Negri ha infine fatto seguire un cenno agli zapatisti e ai curdi come casi di resistenza intrinseca e costitutiva del sistema, da cui prendere esempio e ripartire.

Si è passati poi all’intervento deciso e appassionato della femminista curda Fadile Yıldırım, reduce da 10 anni di prigionia, che ha discusso del sessismo visto come elemento costante delle società «statuali». Passando in rassegna la subordinazione femminile nelle diverse epoche storiche, Yıldırım giunge alla conclusione che il sessismo è più radicale e radicato della divisione di classe. Da cinquemila anni, sostiene, è in atto la più grande delle guerre: quella che vede come vittima le donne. In particolare il sistema capitalista, con l’ausilio del suo più importante strumento, lo stato-nazione, segna il massimo grado di sfruttamento della donna, sotto vari aspetti, non ultimo quello della mercificazione del corpo delle donne cui l’attivista curda ha dedicato delle stimolanti congetture. Le religioni monoteiste, per Yıldırım, non sono esenti da responsabilità rispetto alla subalternità femminile: in esse spesso la donna risulta essere tabù e oggetto di oppressione. Detto ciò, le proposte lanciate dall’attivista per creare una nuova società che serva a quelli che finora sono stati oppressi, e non agli oppressori, vedono un nuovo modello di democrazia reale da realizzare con una forte partecipazione della donna, ma senza la cornice statuale che finora si è dimostrata foriera di ingiustizie.

Il professore emerito di relazioni internazionali Achin Vanaik, indiano trapiantato in Gran Bretagna e attivista di sinistra fortemente impegnato sul tema del disarmo nucleare, è stato protagonista di un incoraggiante e speranzoso intervento che ha preso le mosse dagli strumenti da lui definiti di «saccheggio» del sistema capitalista: l’industrialismo e lo stato-nazione. La mentalità classica dell’industria, caratterizzata da una disparità tra le classi in campo, ha contribuito tra le altre cose a diffondere una logica della competizione portata ai massimi livelli. Tale logica si riflette anche nel sistema internazionale e nelle logiche di politica globale. Il capitalismo nella sua storia è stato inoltre capace di essere flessibile e di rigenerarsi, arrivando fino allo stato attuale in cui domina su tutto il pianeta. Tuttavia esso, per esistere, ha profondamente bisogno del sistema degli stati tipico della modernità, il quale sta dimostrando però il suo ineluttabile fallimento e la sua incapacità a gestire le questioni globali: in questo, trascendere il capitalismo risulta più che mai possibile se inteso come abbandono di un suo strumento basilare, lo stato nazionale. L’aumento sempre maggiore delle disuguaglianze; la questione della transizione ecologica; l’esclusivismo culturale ed i razzismi (che si manifestano in maniera progressivamente inquietante attraverso l’islamofobia e la repulsione contro i migranti); il nuclearismo ed il militarismo sono temi rispetto ai quali l’attuale sistema mondiale non è in grado di fornire risposte. Rispetto ai due possibili scenari che egli ipotizza per l’uscita da quest’impasse, ossia un radicalismo progressista o il suo contraltare di un radicalismo autoritario, Vanaik crede fermamente nella possibilità che il primo prevalga sul secondo. Condizioni necessarie all’avanzata di una concezione di cambiamento radicale in ottica progressista sono però l’audacia e la forza di volontà, soprattutto delle giovani generazioni, e l’impegno a connettere tutte le lotte globali (da quelle della resistenza curda o palestinese a quelle sui grandi temi) avendo come orizzonte la realizzazione di una vera democrazia partecipativa.

Felix Padel, che all’opposto del relatore che lo precedeva è un inglese trapiantato in India per il suo mestiere di antropologo sociale, ha inquadrato il sistema capitalista sotto il suo aspetto di acerrimo nemico delle «società ecologiche», questione quanto mai stringente. Partendo dall’esempio da lui meglio conosciuto, quello della comunità tribale indiana degli Adivasi, privati dell’acqua delle loro montagne per la produzione di metallo destinato all’industria bellica, Padel accusa il capitalismo di distruggere gli stili di vita originari e tradizionali. Lo sviluppo in senso capitalistico ha così attuato un vero e proprio «genocidio culturale», un termine molto caro ad Abdullah Öcalan ed esteso dall’antropologo britannico all’eliminazione della «cultura» in senso lato, anche nelle accezioni legate all’«agricoltura» ed al «culto» insite nel vocabolo. Ad un’economia reale, pienamente rispettosa dell’ambiente e legata alla condivisione, alla democrazia, alla riduzione dello spreco e ad un ruolo determinante della donna, la tensione verso il profitto ha sostituito uno stile di vita consumista, razzista e sessista tutt’altro che sostenibile dall’umanità e dalla Terra. A ciò si aggiungano i processi di «invenzione del nemico» (il musulmano per gli occidentali, così come il maoista o l’indigeno per gli indiani) che non hanno altro scopo se non quello di reprimere gli stili di vita alternativi. La soluzione? Felix Padel preferisce non affidarla alle parole, bensì alla musica! E tirando fuori dalla custodia un violino comincia a sorpresa a suonare e intonare un canto tradizionale indiano, etichettando in più l’eccessivo uso delle parole come qualcosa di maschilista e invitando invece a recuperare l’arte e l’azione, decisamente più «femminili».

Dal simpatico e inaspettato intervento di Padel si passa alla comunicazione più combattiva e impegnata di Solly Mapaila, quadro del Partito Comunista del Sudafrica. La sua presenza si inserisce nel solco della collaborazione storica tra l’African National Congress (anc) ed il pkk e della vicinanza più in generale tra il movimento sudafricano contro l’apartheid e quello per l’autonomia del Curdistan. Riferendo della sua esperienza militante, Mapaila accenna anzitutto alle difficoltà che i movimenti che propugnano un’alternativa di società possono incontrare sulla loro strada: dall’infiltrazione del nemico a fini di sabotaggio dall’interno, fino alle accuse ufficiali di terrorismo mosse dalle istituzioni[8]. Egli prosegue poi discutendo dei problemi riscontrati anche a seguito della vittoria del movimento anti-apartheid e dell’ottenimento dell’indipendenza. Si è passati, dice l’attivista, da un potere «bianco» ad un potere «nero», ma la sostanza dei rapporti di sfruttamento e di subordinazione non é cambiata, né si è realizzata una democrazia reale scevra dai condizionamenti dei mercati finanziari e delle gerarchie statali. Il problema sta nella riproposizione della forma statuale con i suoi meccanismi di potere intrinseci, che non possono non restare dei modelli di riferimento se prima non si cambia la società che è alla base di essi, con nuove forme di convivenza sociale e di democrazia diretta.

A chiudere la sessione giunge il paper di uno degli organizzatori della conferenza di Amburgo, l’attivista tedesco pro-curdi Reimar Heider. Egli individua nell’anticapitalismo la costante fondamentale del movimento di liberazione del Curdistan. Nato come anticolonialista con il socialismo reale come stella polare, e trasformatosi sempre più in chiave anarchica fino a diventare piuttosto municipalista e confederalista, l’attivismo curdo è perennemente rimasto fedele alla lotta contro il capitale. Questo si traduce, negli ultimi sviluppi ideologici e teorici, nell’obiettivo dichiarato di liberare la società e trasformare lo stile di vita, e non più di creare uno stato-nazione curdo. «Colonia del capitale», per citare Öcalan, un’amministrazione politica di tipo statuale creerebbe dei problemi che finora hanno solo relativamente sfiorato la popolazione curda, anziché risolverne. Heider, in linea con una consistente parte degli attivisti filocurdi, sostiene che uno stato aumenterebbe la discriminazione femminile; sostituirebbe la violenza e l’oppressione dell’attuale stato turco con quelle, identiche, di un apparato statuale curdo; propugnerebbe l’individualismo e la competizione come nuovi modelli di vita e cancellerebbe qualsiasi specificità culturale. In antitesi a tutto questo, il modello proposto è quello di una nuova fase, la «modernità democratica» curda: una società morale e politica; una società ecologica, in solida connessione con la storica vocazione agricola dei territori curdi; una società amministrata su base confederale, avente come capisaldi la responsabilità e la partecipazione costante alla vita politica e sociale. Una dichiarazione di intenti, ma che non potrà che restare tale, per l’attivista tedesco, se non si è disposti a ricostruire le proprie vite su basi «altre» e se non si è pronti a liberare da ogni vincolo le nostre capacità immaginative.

 

Il Medio Oriente oltre gli stati-nazione

Nel corso della terza sessione, moderata dal giornalista turco Murat Çakır, membro del partito Die Linke, i relatori hanno affrontato la politica mediorientale da una prospettiva ideologica e religiosa. Lo scrittore Ayhan Bilgen, in particolare, ha esordito sollevando un interrogativo tanto attuale, quanto complesso: per quali motivi la teologia della liberazione non ha attecchito nella regione? Poiché l’Islam, rispondeva poco dopo Muzaffer Ayata[9], costituirebbe una forza politica prettamente conservatrice, colpevole nei fatti di moderare movimenti inizialmente rivoluzionari. Affermazioni, a nostro avviso, quanto meno opinabili data la presenza nella storia del pensiero politico islamico contemporaneo di intellettuali quali l’iraniano Ali Shari’ati o il sudanese Mahmoud Muhammad Taha, latori di un’interpretazione dell’Islam con una chiara impronta socialista ed emancipatoria. Sta di fatto, comunque, che pur riscuotendo iniziale successo come salvatori, diversi movimenti islamici e islamisti hanno finito spesso per sostituirsi o affiancarsi ai vecchi oppressori, puntualizzava il professor Sadik Hassan Itaimish. Il caso odierno della Fratellanza Musulmana in Egitto ne è un esempio lampante. Ciononostante l’etichetta arbitraria ed eurocentrica di “Islam moderato” è stata sistematicamente apposta nel corso dell’ultimo decennio su governi, partiti e movimenti d’ispirazione islamica in linea con i canoni e gli interessi delle liberal-democrazie occidentali. A detta del giornalista Ferda Çetin, l’akp e il movimento Gülen[10] in Turchia rappresentano, in particolare, due evidenti manifestazioni di questo pericoloso mascheramento globale: dietro le mentite spoglie di civil society organizations dai dichiarati intenti progressisti si celerebbero in realtà movimenti profondamente oscurantisti.

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Verso un nuovo paradigma: la modernità democratica

Filo conduttore della quarta ed ultima sessione, moderata dal giornalista britannico Mark Campbell[11], è stata l’esplorazione di alternative pratiche e teoriche alle forme accademiche, economiche e socio-politiche dominanti. Nel suo preambolo, la professoressa Kariane Westrheim sottolineava come le ragioni per cui esiste una letteratura specialistica così vasta sulla questione curda sono di natura chiaramente politica, anche se molti di questi studi si limitano a descrivere lo status quo, senza basi di ricerca sul campo. Troppe di queste analisi vengono calate dall’alto e dall’esterno, ammutolendo di fatto le popolazioni che ne sono oggetto. Pertanto, non solo l’establishment accademico internazionale analizza spesso la realtà tenendosene a debita distanza, ma lo stato turco ha sempre ostacolato ricerche indipendenti al riguardo, effettuando spesso arresti ed espulsioni di personae non gratae. La questione curda, pertanto, ci ricorda che è impossibile studiare situazioni di conflitto senza prendere posizione: detto altrimenti, in quanto ricercatore devi necessariamente schierarti, altrimenti nulla potrà mai cambiare.

L’appassionato intervento di Eirik Eiglad si concentrava, invece, sui punti fondamentali del programma municipalista. La costituzione di comunità autogovernantesi, un progetto tanto vasto e antico quanto la stessa rivoluzione urbana, dovrebbe essere oggetto di un processo di riscoperta e apprendimento infinito:

1) Rafforzamento e democratizzazione dei comuni esistenti (collettivi di cittadini).

2) Creazione di confederazioni di comuni.

3) Convergenza (senza appiattimento del dissenso) dei movimenti sociali progressisti.

4) Costruzione delle condizioni materiali per la liberazione (es. proprietà collettiva, assemblee, decentramento decisionale).

Eppure, uno dei più grandi ostacoli per l’applicazione di tale progetto nel Curdistan turco sta nella repressione del movimento politico curdo da parte delle autorità di Ankara. Altra debolezza, aggiungeva Gönül Kaya, giornalista e femminista curda, consiste nella struttura patriarcale e maschilista ancora fortemente radicata tra le comunità curde. Un approccio che impregnava inizialmente la stessa guerriglia, con atteggiamenti protettivi verso le donne combattenti ormai superati. Sin dai primi anni ‘90, infatti, centinaia di donne hanno aderito alla lotta armata, fondando persino un folto Esercito di Liberazione Femminile. La lotta per l’emancipazione della donna, incarnazione dei principi di armonia e cooperazione esistenti in natura, del legame con la terra, con il suolo, rappresenterebbe, quindi, al contempo una lotta sociale, culturale ed ecologica.

Una tematica, questa, ripresa e approfondita nel corso dell’accorato intervento di Janet Biehl, compagna di vita del filosofo anarchico statunitense Murray Bookchin, padre dell’ecologia sociale. Ogni prospettiva ecologica dovrebbe mirare, secondo il pensatore del Vermont, ad una trasformazione radicale delle relazioni sociali; qualsiasi forma di oppressione tra esseri umani (dell’uomo sulla donna, degli anziani sui giovani, dei genitori sui figli, degli imprenditori sui lavoratori, della burocrazia sui cittadini, delle élite sulle masse, dei colonizzatori sui colonizzati, degli eterosessuali sugli omosessuali, della maggioranza sulle minoranze etniche e religiose) è la fonte primaria dell’umana dominazione sulla natura, entità benigna cui apparteniamo, ma troppo a lungo trattata come oggetto da soggiogare. Senza modificare le relazioni “molecolari” del vivere sociale, scremate da manifestazioni gerarchiche ed elitarie, il dominio sulla natura continuerà a perpetuarsi fino all’irrimediabile estinzione ecologica. È a questo punto che il municipalismo di Bookchin incontra il confederalismo democratico di Öcalan, due personalità che, pur distanti, hanno conosciuto un’evoluzione intellettuale dal marxismo al comunitarismo, passando per l’anarchismo, sorprendentemente analoga. Appunti per uno studio di vite parallele, quindi, che attende soltanto un ulteriore sviluppo.

Militante nel movimento Occupy Wall Street e co-fondatore dell’Organization for a Free Society, tra le poche realtà apertamente socialiste esistenti negli Stati Uniti, John Cronan Jr. ha focalizzato l’attenzione su alcune forme alternative di economia partecipativa, dal sindacalismo di base ai gruppi di acquisto solidale, dalle imprese collettive alle casse di mutuo soccorso, dai meccanismi di autogestione della produzione al baratto. Esperienze di questo genere sarebbero in atto, secondo Gülbahar Örmek, presso la piccola municipalità di Sur nella città di Diyarbakır, dove la donna ricopre la carica di vice-sindaco. Consacrando il proprio mandato all’affrancamento della donna da mariti, fratelli e padri che la vogliono ancora sottomessa, l’energica esponente politica del bdp ha esposto[12] conquiste e ambizioni della propria amministrazione, a partire dalla costituzione di cooperative femminili che forniscono servizi alimentari, artigianali e sociali essenziali per l’intera comunità. In segno di tacita polemica contro la controversa politica di apertura alle minoranze più volte annunciata da Erdoğan, la relatrice ha accennato, inoltre, con orgoglio alla traduzione di tutti i testi scolastici disponibili a Sur in armeno, in segno di solidarietà con la sola famiglia armena insediatavi. Toni velatamente propagandistici si percepivano anche durante l’intervento/comizio di Gültan Kişanak, co-presidente del bdp e parlamentare, tra i personaggi politici curdi più rinomati e rispettati. Incoraggiando da sempre l’inclusione della società civile, delle minoranze (lazi, roma, alevi, cristiani, armeni, circassi, curdi) e di movimenti dal basso, il bdp costituirebbe un’alternativa potente all’ideologia ufficiale dello stato turco. Un’ideologia efficacemente ridicolizzata da un aneddoto emblematico del clima diffuso di ironia che circonda ormai le vessazioni della polizia turca. Nel corso di una manifestazione, una donna anziana era stata arrestata nell’atto di sventolare il tricolore curdo. «Perché aveva quella bandiera tra le mani, non lo sa che è illegale?» avevano chiesto i poliziotti durante l’interrogatorio; «L’avevo appena raccolta da terra, pensavo qualcuno l’avesse persa» era stata la risposta coraggiosa della signora. «Ma allora perché l’agitava?» avevano incalzato i poliziotti, perplessi; «Stavo soltanto chiedendo in giro di chi fosse» aveva replicato la donna. Gli applausi e le ovazioni che le parole della Kişanak suscitavano nella platea gremita testimoniavano, tra l’altro, il sostegno di cui gode il bdp tra gli stessi curdi in diaspora.

Gli interventi di Ana Mezo, esponente di spicco della sinistra abertzale basca, e di Tom Waibel, antropologo vissuto per anni tra le comunità zapatiste in Chiapas, tracciavano, infine, affascinanti parallelismi con altre storiche esperienze di lotta e resistenza per l’autodeterminazione. La guerriglia dell’ezln presenta, in particolare, diverse analogie rispetto alle dinamiche interne al pkk. Se da un lato, infatti, ci troviamo dinnanzi a due movimenti armati che, nascosti tra i monti, si difendono dagli attacchi dell’esercito, dall’altro la leadership collegiale e a rotazione, l’alto grado di solidarietà internazionale, l’avanzato autogoverno in ambito educativo, sanitario e alimentare e la convergenza con i teologi della liberazione latino-americani, fanno dell’esperienza zapatista un unicum eterogeneo a cui ispirarsi, una tra le infinite utopie reali che possono guidare i movimenti di lotta verso il superamento del capitalismo e dello stato-nazione.

 

LUGLIO 2012

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[1] Grande città dellAnatolia, secondo i confini ufficiali è situata nella parte sudorientale dello stato turco, ma viene considerata simbolicamente la capitale del Curdistan settentrionale.

[2] Per approfondire largomento, si veda L. Nocera, La Turchia Contemporanea, Carocci, Roma 2011 e, ad es., i vari scritti di Hamit Bozarslan e Martin van Bruinessen relativi al movimento politico curdo.

[3] Tale divieto è stato eliminato nel 1991, ma esclusivamente per quanto riguarda fininon politici”.

[4] La versione inglese dellopera, Democratic Confederalism, è disponibile gratuitamente online: http://www.freedom-for-ocalan.com/english/download/Ocalan-Democratic-Confederalism.pdf, così come quella francese: http://www.freedom-for-ocalan.com/francais/Abdullah-Ocalan-Confederalisme-democratique.pdf

[5] Baser, Bahar. Kurdish Diaspora Political Activism in Europe with a Particular Focus on Great Britain. Diaspora Dialogues for Development and Peace Project, Berlin, Berghof Peace Support/Luzern, Centre for Just Peace and Democracy, 2011;

 http://www.berghof-peacesupport.org/publications/SL_Diaspora_Papers_Baser.pdf.

[6] Stando alla letteratura specialistica in materia, lo spettro di tendenze politiche tra i curdi in diaspora risulta estremamente eterogeneo. Si va dagli acritici difensori del PKK (anche detti “Apocular”) a quei sostenitori in disaccordo con le affermazioni post-İmralı di Öcalan, dagli ex-quadri ormai sospettosi verso l’organizzazione a quei nazionalisti contrari ai metodi del pkk, che simpatizzano con la linea non-violenta del komkar (federazione fondata in Germania e Svezia per salvaguardare i diritti dei lavoratori curdi in Europa), dagli attivisti ancora fedeli all’idea di uno Stato curdo indipendente ai curdi che sostengono apertamente l’apk.

[7] I video ed i testi degli interventi della conferenza sono disponibili al sito http://networkaq.net/videos.html

[8] A ulteriore conferma di quanto detto, ricordiamo che il pkk è enumerato all’interno delle formazioni di natura terroristica dallo stato turco come dall’Unione Europea, gli usa ed altri.

[9] Politico e giornalista curdo, ha scontato venti anni di prigione in Turchia dal 1980 al 2000 per affiliazione al pkk. Rifugiatosi in Germania a causa di continue vessazioni da parte delle forze di polizia turche, collabora oggi con diversi quotidiani in lingua curda pubblicati in Europa. Nel corso della conferenza, denunciò come in precedenza fosse stato più volte soggetto a censura accademica in varie università tedesche.

[10] Sinistro groviglio di criminalità e massoneria per alcuni, cerchia eletta di menti illuminate per altri, la neoconfraternita nurcu, guidata da uno dei leader spirituali più potenti e influenti della Turchia contemporanea, Fethullah Gülen, cominciò a far presa in territorio nazionale dopo il golpe del 1980, quando le idee anticomuniste e nazionaliste divulgate dal predicatore trovarono terreno fertile nella “sintesi turco-islamica” imposta dalla giunta militare come ideologia di Stato. A partire da quel momento, i Fethullahci compresero che l’unico modo per contrastare l’élite laica in Turchia era accumulare potere attraverso l’educazione, la ricchezza economica e i mass media, acquisendo posizioni influenti nelle alte sfere dell’establishment statale. L’impero imprenditoriale, finanziario e mediatico controllato da politici e imprenditori affiliati alla comunità, ingigantitosi con l’ascesa dell’akp, ha raggiunto ormai dimensioni colossali. Lo sterminato capitale materiale e immateriale di cui oggi dispone il movimento sia all’interno che all’esterno del paese deriva, a ben vedere, dall’enorme potenziale attrattivo generato da insegnamenti che si propongono di armonizzare l’Islam non soltanto con la modernità laica, il pensiero scientifico e il dialogo interreligioso, ma soprattutto con l’etica capitalista, la democrazia rappresentativa e il nazionalismo turco. Nel corso degli anni ‘90, le autorità turche si avvalsero di questa straordinaria leva di soft power per facilitare la loro politica di espansione verso l’Asia Centrale, il Caucaso e i Balcani, gettando le basi per una vastissima rete di scuole private estesasi col tempo a più di novanta paesi in quattro continenti.

[11] Curatore del blog “Hevallo. Turkey and the Kurdish Question”, http://hevallo.blogspot.it/, ha partecipato all’organizzazione del Kurdish Social Media Gathering nel Gennaio 2012 per evidenziare il ruolo cruciale che i media indipendenti curdi e filo-curdi possono giocare nel contenere la guerra psicologica e la disinformazione in atto in Turchia in merito alla questione curda.

[12] Quello di Gülbahar Örmek è stato l’unico intervento pronunciato in lingua kurmanji. Occorre ricordare, a questo proposito, che l’intera conferenza è stata tradotta simultaneamente in quattro lingue: inglese, tedesco, turco e curdo kurmanji.