UN'INTERVISTA ESTIVA A CITTà FUTURE
Mariano Mazzullo
Vorrei chiederti, se non
ti sembra una domanda
fuori luogo, se per te si possa parlare nel 2011 del concetto di “sommo
bene”?
Ma che domanda è?
Un’intervista alla Marzullo, più che alla Mazzullo?
Ti chiedo davvero,
guarda che io ci credo un po’. Il sommo bene inteso come un bene che
vale per tutti e non solo per qualcuno. Un’idea universale di bene.
Scusate voi fate politica con la vostra rivista e vi stupite di questa
domanda?
No, non credo che
esista un valore universale che valga per tutti. Almeno non esiste dal
punto di vista di un contenuto universale. Credo che esista
un’universalità relativa alla natura, oltre che all’uomo, e che riguarda
il fatto che ciascun essere della natura, così come ciascuno di noi
uomini, tenda ad esprimere, con la sua esistenza, qualcosa. Per questo
direi che il sommo bene nel senso di un ideale che valga per tutti, è un
ideale che fa parte dell’espressività, nel dare un senso alla propria
azione.
E come si può
condividere il bene, se ciascuno ha la propria particolarità, i propri
interessi e le proprie passioni?
Io credo, come diceva
Adorno, che lo stato migliore da immaginare sia lo stato in cui tutti
possano essere diversi ed esserlo senza paura. Diversi, non nel senso di
diversi da un modello, che altrimenti sarebbe poca cosa, diversi, più
semplicemente, in quanto tali, cioè come semplici e diverse esistenze,
individui capaci di uno sviluppo, di crescere, di migliorarsi. Persone
che si sviluppano, infatti, tendono a diventare diverse le une dalle
altre, nel senso che acquisiscono un’esperienza più complessa. Al giorno
d’oggi, d’altra parte, con internet, assistiamo alla diminuzione del
livello di complessità dell’esperienza e, dunque, anche a quello del
livello di complessità delle personalità.
Platone sosteneva che
il bene fosse l’idea delle idee. Per cui lo stato ideale si sarebbe
dovuto associare a questo ideale e assomigliarvi. Credi che nei nostri
tempi, in cui la politica è costituita prevalentemente da interessi
privati e corporativi, questo ideale possa essere attuale?
Assolutamente no, ma
non credo, tuttavia, la visione di Platone ci porti lontano. L’aspetto
interessante di Platone è quello di aver pensato la forma di vita come
una forma politica, tuttavia il contenuto della sua utopia sicuramente
non ci riguarda da vicino. Ne è trascorso di tempo ed il mondo è
cambiato. Non che non possa cambiare tornando simile a quello che era al
tempo di Platone, ma è molto difficile che accada.
Credi che la politica
possa corrispondere alla ricerca del bene?
Questo sì, ma una volta
affermato questo il problema è soltanto aperto nel senso che questa è la
lettera “a” del discorso… Ci sono poi tante altre lettere e molto ancora
da discutere; sì la politica è la realizzazione di un progetto su come
stare insieme nel mondo, per cui si conforma ad un’idea. Tuttavia il
problema è che la politica viene considerata oggi come una direttiva che
possa sorgere al di là delle forme di vita esistenti, mentre oggi si
percepisce con estrema chiarezza la difficoltà di trasformare con la
politica quella che sono le abitudini, le forme, le pratiche sociali
condivise; oggi è ancora più chiaro rispetto al passato che la politica
riesce ad influire nel mondo reale in un modo solo relativo. Oggi,
questo, è ancora più vero perché la vita reale si è indubbiamente
velocizzata, rendendosi, insieme, più articolata. In questo modo la
politica si limita ad essere l’espressione economica di una volontà di
un gruppo assai ristretto di persone.
In un’era come questa,
in cui la politica è espressione di una casta, quando non un semplice
gioco di potere, come si fa a credere ancora che questo sia il modo o il
canale attraverso cui ottenere un cambiamento per tutti? Quanto una
persona che fa politica oggi deve essere ottimista per agire? Cioè, deve
avere una fede politica?
Mah, come dicevi tu
prima rispetto alla coscienza, se qualcosa si fa presente, certo si fa
presente attraverso la coscienza. Similmente, se qualcosa cambia, certo
cambierà attraverso la politica. Però non è detto che cambi, così come
non è detto che qualcosa diventi cosciente per un individuo. Da diversi
punti di vista non credo che oggi ci sia molto da essere ottimisti, però
credo pure che la politica non ha per forza a che fare con l’analisi
realistica della situazione. Certo deve anche nutrirsi di questo, cioè
dell’analisi di ciò che sta succedendo. Però la politica è anche
l’espressione di una presa sul mondo che riguarda la condizione
particolare degli individui, per cui tu lotti, investi, agisci pur
sapendo che non puoi conoscere in realtà l’andamento complessivo delle
cose, e dunque neppure la verità di ciò che sta effettivamente accadendo
nel mondo. Voglio dire si vive e si lotta magari per delle cose, che
poi, una volta ottenute, determinano l’opposto di ciò per cui si è
lottato; ma tutto questo non lo si può sapere prima. Con la nostra
stessa vita noi prendiamo parte alle cose, ci mettiamo in gioco nella
storia.
Dunque la politica
credi sia più un’arte o una natura?
Ma la politica di chi?
In genere la politica
come istinto umano.
La politica non credo
sia un istinto umano, credo, invece, che lo stare insieme sia un istinto
umano. La politica è il modo in cui si possono gestire l’organizzazione
e le infrastrutture di questo stare insieme. Credo, allora, che la
politica non debba essere un’arte, nel senso di qualcosa di esclusivo,
debba però essere un’arte nel senso di qualcosa di armonizzatore.
Dunque per te la
politica è congenita? In termini di logica astratta, secondo te lo stato
civile si è formato uscendo da uno stato di natura, attraverso quali
mezzi? Cosa è che ha determinato l’azione collettiva, istituire un certo
governo e farlo reggere da determinati principi?
Sulla questione dello
“stato di natura” e “stato di diritto” non sono molto convinto che si
tratti di uno schema che funzioni ancora oggi. Penso che la conquista
dell’occidente nella modernità sia stata quella di pensare di
trasformare la vita attraverso l’azione collettiva e, facendo così, di
rompere una tradizione, rompere, in qualche modo, lo schema della
ripetitività del tempo.
È mai esistito uno
stato di natura nel senso di uno stato in cui gli uomini non avevano un
governo? Nella natura umana è insito questo principio dell’istituzione
politica?
Il governo non è
semplicemente un parlamento, o un capo tribù; il governo è un ordine che
la comunità dà in qualche modo a se stessa. Il problema, tuttavia, è
come lo dà e chi lo rappresenta. Quindi, non può esserci qualcosa che
non abbia un governo, però questo non vuol dire che ciò che noi oggi
chiamiamo governo abbia molto a che fare con l’idea di governo in
generale; cioè si può benissimo sostenere che ci sono state epoche umane
in cui la comunità degli uomini non prevedeva stati e che queste
situazioni come ci sono state nel passato, così potranno o forse
dovranno anche esserci nel futuro. Questo, tuttavia, non vuol dire che
non avranno un governo. Lo stato non è una cosa in sé positiva o
negativa. Il problema è capire cosa significhi lo stato. Lo stato
diciamo diventa necessario in alcune fasi storiche, rimane, poi,
necessario anche in altre, per quanto in forme diverse. Ma lo stato in
quanto istituzione può essere assai meno separato dalla società civile,
per dirla in termini classici, da come noi oggi siamo stati abituati a
conoscerlo. D’altra parte delle tante funzioni odierne dello stato, per
dire, già oggi non ce n’è bisogno più come prima, e tutto sommato
l’ideale futuro potrebbe essere quello del riavvicinamento fra coloro
che sono dirigenti dello stato e coloro che sono governati da questo.
Andando a ritroso nei
tempi antichi, all’origine della vita, e facendo un esperimento mentale.
Credi che la proprietà sia un diritto che l’uomo si è ricavato con il
tempo, e quindi possa essere assimilata ad una delle varie istituzioni e
forme politiche (governo, parlamento), oppure che sia un diritto
inalienabile dell’uomo, come consideravano gli illuministi del ‘700?
Non ho capito in verità
l’opposizione delle due posizioni. Non capisco perché le metti in
contrasto…
Perché nel caso in cui
fosse un diritto inalienabile dell’uomo, questi non avrebbe bisogno di
svilupparsi politicamente per istituirlo, invece se frutto di
un’evoluzione sociale sarebbe semplicemente una codificazione del vivere
comune, della nostra società civile che tutela la proprietà.
Io credo che la
proprietà rappresenta una sorta di relazione con la finitezza da parte
dell’uomo; la proprietà è, infatti, quello che puoi tramandare, quello
che rimane tuo, in modo stabile, al di là dell’uso che ne fai, puoi
anche non usare una cosa che è tua, te la puoi tenere, la puoi fittare,
ad esempio, la puoi dare ai tuoi figli o lo puoi far fruttare in qualche
modo. Secondo me questo corrisponde ad una certa fase dell’evoluzione
del genere umano, per quanto non è detto che dopo ci sia una fase
migliore. Direi tuttavia che tutto ciò dipende da un certo rapporto che
l’uomo instaura con la vita. Per cui non credo che la proprietà sia un
bene inalienabile dell’uomo, cioè un suo diritto fondamentale.
Storicamente la proprietà ha avuto una sua importanza perché questo
significava che ci si potesse far forti di una proprietà che si aveva,
per potersi sviluppare in una certa direzione, mentre senza la proprietà
di nulla, forse non si sarebbe andati da nessuna parte perché tutto
sarebbe stato molto più confuso, disordinato e, diciamo così, poco
garantito. Tuttavia la proprietà in sé ha qualcosa di perverso e cioè il
principio dell’esclusività, si considera ciò che si ha importante per il
semplice fatto di averla e non per il fatto, ad esempio, che la si usi.
In questo modo non si riconosce, invece, come per la maggioranza dei
beni, specie per quelli di livello intellettuale o spirituale, la
condivisione non annulla la fruizione individuale. La condivisione di
un’idea, la condivisione di un’espressione artistica, come quella della
cultura, ma molto spesso anche quella di beni materiali, non diminuisce
l’uso che ciascuno di noi due ne può fare, anzi l’accresce, quando
costituisce l’occasione di una condivisione, e di un arricchimento.
Quindi secondo te la
proprietà è indipendente dal lavoro?
Storicamente non lo è
stato, o almeno non è lo stato rispetto al modo in cui si è sviluppata
la nostra società borghese. Ma adesso lo sta ridiventando perché ormai
il lavoro produce molto poco valore e il valore non si capisce più bene
da dove venga, dal momento che ormai quasi tutto deriva dal lavoro delle
macchine e dalla loro sempre più elevata resa. A parte questo credo che
la proprietà dovrebbe essere sganciata dal lavoro; questo potrebbe
essere un ideale da immaginare.
Ma come sarebbe
possibile? In questo caso cosa stabilirebbe una proprietà, cosa farebbe
la differenza fra ciò che è mio e ciò che tuo? Non capisco.
Direi che la differenza
sarebbe costituita da una formalità che la società stabilisce e
riconosce come tale. Poi è chiaro che ci sono cose che non possono
essere condivise, ciascuno deve avere una razione minima di latte o di
altre cose necessarie.
Lo so, però, allora la
proprietà non dovrebbe neanche più essere ereditaria a questo punto?
Io credo che la società
dovrebbe garantire a tutti gli individui che ci sono una certa razione
delle risorse disponibili.
Però dovrebbero essere
razioni equivalenti, e allora, in quanto uguali, non sarebbero più
proprietà.
E infatti così credo
dovrebbe essere.
Se ognuno ha un pezzo
di terra uguale a quello dell’altro allora che proprietà è? È una
concessione…
Sono d’accordo.
Proprietà non è quello
che lo stato mi può concedere a suo piacimento, proprietà è qualcosa che
lo stato deve tutelare.
Sono d’accordo che sia
così, ma non lo trovo un problema.
Ma come potrebbe essere
concretamente possibile?
Sarebbe possibile;
forse oggi ancor di più, dal momento che si è persa quella relazione
trasparente fra il soggetto al lavoro e modo di produzione effettiva del
valore. Questa relazione è, infatti, evidente quando si prende il caso
di un contadino che lavora la sua terra, o di un artigiano che
costruisce un vaso, ma non lo è oggi quando la maggior parte dei lavori
non produce proprio niente e si risolve o nel controllo delle macchine o
in una certa messa a valore di capacità della tecnologia, oggi
soprattutto informatica. Questo perché il tuo lavoro diventa un occupare
un certo luogo per un certo tempo, ma non produce necessariamente di per
sé. In questa maniera il tuo lavoro diventa effettivamente
intercambiabile, vale a dire che aumenta la quota sociale nella
produzione complessiva di valore in una certa società. Se prima, per
lavorare la terra, la società ci metteva la zappa, in quanto nuova
acquisizione tecnica, e il resto e tutta la forza ce la mettevi tu, oggi
la società ti dà il trattore o la scoperta dell’elettricità o,
l’elettronica. Per la qual ragione, con pochi gesti, si è in grado di
conferire alla materia che si lavora un enorme valore. Tuttavia, in
questa valorizzazione, la quota sociale (per lo più imprigionata nelle
macchine) che rientra nell’ammontare totale della produzione è molto
alta. Perché? Perché l’elettricità non l’hai scoperta tu, il trattore
non l’hai scoperto tu, internet nemmeno, così come non sei tu
materialmente che porti la corrente da un luogo all’altro. Aumentando il
potere della tecnologia, la produzione di valore diventa un processo
sempre più impersonale, e indipendente dalle caratteristiche particolari
di chi lavora.
Quindi dici che nel
mondo in cui siamo arrivati è indifferente che ormai qualcuno lavori o
non lavori la propria proprietà.
Non è indifferente,
però diventa meno differente di quanto non fosse prima…
...perché il valore non
è dato dalla quantità di valore che con il lavoro direttamente vi si
immette, bensì dall’occupare, in modo contingente, un certo spazio per
un certo periodo di tempo. Credo che questo sia vero, però quello che
cercavo di capire io è se credete che per natura noi abbiamo diritto a
ritagliarci un pezzo di terra e dire: questo è mio e nessuno me lo tocca
e ho diritto a lavorarlo…
Io credo che esista il
diritto alla vita, ma non nel senso banale del termine. Diritto a poter
usufruire delle risorse necessarie al mio sviluppo come essere umano;
non diritto, quindi, a dire questa terra è mia e non è tua, piuttosto
diritto a nutrirmi, avendo personalmente la proprietà di una terra o non
avendola. Aver diritto, cioè, a partecipare alle risorse collettive.
Perché? Perché avere una terra è un concetto molto aleatorio. Che vuol
dire possedere una terra? In origine gli alberi, la natura, le risorse
non appartengono certo agli uomini. Gli uomini sono un anello della
catena della natura, e quella della proprietà è una formalità giuridica
che l’uomo, giustamente, ha deciso di mettere in atto dal punto di vista
sociale. Però diciamo che l’uomo oggettivamente è un anello della
natura. Ad esempio perché la proprietà non esiste per gli animali, o
comunque non esiste da un certo punto di vista per loro? Perché gli
animali vivono, forse senza rendersene troppo conto, in modo più
immediato la loro condizione finita. Nel senso che vivono, mangiano, si
riproducono…
Però non è vero che non
esiste per gli animali, perché il nostro concetto di proprietà è
diverso, gli animali a loro volta occupano un territorio.
Sì ma non è proprietà
perché non la tramandano…
La differenza io credo
sia che non abbiano avuto un’evoluzione razionale, politica; sicuramente
se un domai i leoni stabilissero un codice razionale in cui la proprietà
venisse sancita, stai sicuro che la tramanderebbero anche…
Questo sì, e infatti
non dico che gli animali sono meglio degli uomini. Credo che gli uomini
possano recuperare quello che gli animali esprimono solo in una certa
forma, una forma più inconsapevole, cose che esprime la natura tutta. Si
può mai pensare che l’aria possa essere privatizzata, ad esempio? Di chi
è l’aria che io respiro? È mia sì, ma io da chi l’ho presa? C’è un
livello della natura in cui non si può fissare “il mio” e “il tuo”.
D’accordo, ma poniamo
l’ipotesi che domani il buco dell’ozono diventando enorme, cominci ad
alterare l’equilibrio dell’atmosfera terrestre, e che diminuisca la
quantità d’ossigeno; credo che in questo caso sicuramente, ognuno si
guarderà bene la propria aria, volendone diventare in un certo senso
proprietario…
Sì, è vero ma l’aria è
un elemento così impalpabile che sarebbe difficile quantificarla in
qualche modo.
Sì, ma, al di là di
questo, vorrei che ti esprima ancora sul diritto che noi avremmo,
rispetto a chi possiede una terra ricevuta in eredità, e che ovviamente
non ha detenuto in maniera infruttuosa, a prendergliela, anche se domani
ci trovassimo di fronte ad una crisi alimentare, una crisi che necessita
una requisizione forzata…
Il problema, credo, sia
che diritto aveva lui di prenderla all’inizio. La proprietà di questo
tipo non nasce storicamente dal lavoro. A questo riguardo non credo ci
sia un diritto. Questo tipo di diritto si è costituito in ragione della
maggiore forza; in questo modo si è formata storicamente la proprietà.
E quindi un individuo,
che lavorando dignitosamente la propria terra, e che non ha alcuna
ambizione di sopraffare gli altri, ma semplicemente ha solo voglia di
lavorare, non ha diritto a possedere una terra per poter lavorare?
Ma questo è un altro
discorso. Il discorso della piccola terra è differente; anche per quanti
oggi siamo nel mondo (e siamo tanti) ciascuno potrebbe tranquillamente
avere il diritto di coltivare il suo appezzamento di terra. Il problema
riguarda le grandi proprietà. Storicamente i problemi sono sorti,
infatti, quando qualcuno ha cominciato a prelevare le proprietà e le
terre comuni rendendole terre private. Tutto il seguito è dipeso da
questo, perché avendo qualcuno molto più di altri, questi ha potuto
porli sotto ricatto e, accumulando sempre maggiori ricchezze, accrescere
il divario di potere oggettivo fra sé e loro. La situazione odierna è
divenuta quella di un’incredibile sproporzione fra il potere e la
quantità di ricchezza di alcuni rispetto a molti altri. Personalmente
sarei molto d’accordo con il ridare un valore al lavoro, e non annullare
questo valore, proprio perché questo valore oggi tende ad essere
annullato. L’importanza sociale del proprio lavoro potrebbe anche essere
recuperata, anche se non in un senso stakanovista o astrattamente
ideale. Piuttosto per la ragione che così come noi prendiamo dalla
natura, al contempo, noi possiamo e dobbiamo dare anche al mondo che ci
circonda. Dunque non per un dovere, ma perché è proprio delle specie
viventi,e non solo, ridare ciò che è stato preso. Anche da un punto di
vista biologico il ciclo della vita non è altro, in fondo, che questo.
Ma non è cosa da poco: riuscire a prendere e, contemporaneamente, a
dare, dà un senso di compiutezza alla nostra esistenza. D’altra parte
lavorare significa tante cose: significa concentrarsi, così come può
significare svilupparsi. Per tante generazioni, tra l’altro, ha
significato educarsi alla vita e al mondo.
AGOSTO 2012