Esperienza e rappresentazione
VIGOTSKIJ E IL RUOLO DELL'ATTIVITà MEDIATA NELL'APPRENDIMENTO
Nicola Caruso
Introduzione
È sorprendente rileggere le parole di
Vygotskij contenute nel libro dal titolo italiano
Il processo cognitivo[1].
La sorpresa risiede nella capacità dello psicologo russo di introdurci
al suo pensiero sulle modalità attraverso cui apprendiamo
dall’esperienza. Nel concetto di attività mediata troviamo una valida
concettualizzazione dello sviluppo umano come radicato nella socialità e
nella cultura. Secondo l’Autore qualsiasi attività, affinché sia
possibile un apprendimento, passa per l’utilizzo di uno strumento
esterno, nel bambino rappresentato primariamente dal suo corpo, fino
all’acquisizione del linguaggio orale e scritto. Nella nostra epoca
post-post-moderna, un’epoca definibile come trans-moderna poiché in una
continua e veloce trasformazione, l’utilizzo degli strumenti tecnologici
ci porta a riflettere sul loro valore, su quale funzione, ora come ora,
ricoprano nell’esperienza di tutti in noi e, in particolare, come
possano cambiare le modalità d’apprendimento dell’essere umano. È
possibile, quindi, ritenere la tecnologia una causa dei cambiamenti
radicali della nostra società occidentale e soprattutto una delle cause
della trasformazione del nostro modo di pensare e di rappresentarci la
realtà? Questo interrogativo attraverserà la re-visione del pensiero di
Vygotskij, sperando, alla fine, di mettere in luce l’importanza dei suoi
studi per avere nuove chiavi di lettura della nostra realtà complessa e
caotica.
Per
introdurre il pensiero Vygotskij è necessario fare un breve excursus
storico sulla biografia del grande psicologo russo.
Vygotskij nacque il 17 novembre 1896 ad Orsha in Bielorussia
da una famiglia di ebrei benestanti.
Maturato al Ginnasio di Gomel,
si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza dell’
Università statale di Mosca nel 1913, dove si laureò
dopo quattro anni. In una prima fase, Vygotskij si occupò principalmente
di critica
letteraria e psicologia
dell'arte e
iniziò ad interessarsi all'applicazione della psicologia nell'educazione.
Vygotskij, nel 1924, ebbe modo di leggere una sua relazione, intitolata Metodologia
della ricerca riflessologica e psicologica, ad un importante
congresso panrusso di pedagogia,
psicologia, psiconeurologia, suscitando molto interesse nel pubblico
presente. La notorietà derivante da tale evento fu di tale entità che lo
stesso anno fu invitato a trasferirsi a Mosca,
insieme alla moglie Roza Smechova, per lavorare all'Istituto di
Psicologia, dove conobbe Leont'ev e Lurija. Nel 1925 Vygotskij tenne la
conferenza La coscienza come problema psicologico del comportamento,
il cui testo divenne il manifesto della scuola che prese il nome di
'storico-culturale' di cui Vygotskij è considerato il fondatore. Nello
stesso anno divenne direttore del Dipartimento per l'Istruzione dei
Bambini Handicappati e in seguito anche dell'Istituto di Difettologia.
In una seconda fase Vygotskij affrontò il problema della
storicità delle funzioni
psichiche con una serie di analisi critiche sulle teorie fisiologiche e
psicologiche del tempo. L'opera più rilevante di questo periodo è la
monografia Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori,
terminata di scrivere nel 1931.
In questo periodo Vygotskij diresse il laboratorio di psicologia
all'Accademia dell'educazione comunista. Nell’ultimo periodo della sua
vita Vygotskij si occupò di varie tematiche di psicologia, in
particolare si dedicò alla studio delle emozioni nell’articolo che prese
il nome di Teoria della emozioni
(1934). Morì di tubercolosi l'11
giugno 1934. Dopo la sua prematura morte fu pubblicato
Pensiero e linguaggio (1934),
tuttora considerato il capolavoro di Vygotskij.[2]
1.
Apprendere attraverso l’utilizzo dei segni e degli strumenti.
Secondo
l’Autore, che dedicò, una buona parte della sua
ricerca al problema dell’apprendimento,
i processi di formazione delle funzioni
psichiche superiori, quali l’acquisizione dei principi logici, i
concetti sempre più astratti, lo stesso linguaggio e il pensiero, sono
resi possibili dall’interazione continua con l’ambiente e più
precisamente dalle relazioni che si costituiscono tra l’essere umano e
gli ambienti di cui fa esperienza. Vygotskij e i suoi collaboratori
hanno dato vita alla scuola storica culturale che, fortemente
influenzata dal materialismo dialettico, era attenta a due fattori
fondamentali nello sviluppo del bambino:
1.
la
prospettiva genetica,
che è costituita dal fattore storico in cui si radica l’esperienza
del bambino;
2.
La
prospettiva culturale, che
consente di individuare quali sono i meccanismi sociali che mediano la
conoscenza.
In questa duplice chiave di lettura
sono riassunti i principi utilizzati per comprendere lo sviluppo del
bambino e, più in generale, le relazioni tra
apprendimento-esperienza-sviluppo. Come esempio per comprendere il punto
di vista storico-culturale, partiamo dal concetto di
attenzione. Secondo
Vygotskij, l’attenzione nell’essere umano segue due direzioni:
1.
La prima
è definita attenzione naturale;
2.
La
seconda direzione è definita attenzione volontaria.
Prendendo in esame le ricerche del suo
tempo Vygostskij[3]
ne fa un sunto e una critica e ci inserisce nella sua linea di ricerca,
facendoci capire da dove, secondo lui, devono partire le ricerche
psicologiche sperimentali:
Alla base dello
sviluppo dell’attenzione sta quindi, in questo periodo [fase prescolare
del bambino], il processo puramente organico della crescita, della
maturazione e dello sviluppo degli apparati nervosi e delle funzioni del
bambino[4].
Possiamo vedere come, risalendo lungo
il corso dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori, Vygotskij
individua il nucleo centrale che differenzia l’attenzione volontaria
tipicamente umana e l’attenzione naturale, dominio anche degli altri
animali:
L’importanza di
questo processo organico, soggiacente allo sviluppo dell’attenzione,
passa in secondo piano di fronte ai nuovi processi di sviluppo
dell’attenzione, di tipo qualitativamente diverso: quelli precisamente
dello sviluppo culturale dell’attenzione[5].
Il bambino che va acquisendo le
capacità di dirigere la propria attenzione nel suo sviluppo impara a
padroneggiare l’attenzione, che, prima dominata dagli ordini provenienti
dall’esterno, e poi sciolta dagli obblighi esterni, consente di
risolvere sempre più autonomamente i compiti dinanzi ai quali è posto.
Possiamo definire il comportamento del bambino come autoregolantesi,
cioè capace di organizzare le informazioni e i comandi in modalità tali
che possono essere padroneggiate sempre meglio e tali da modificare
contemporaneamente l’ambiente dove agisce. Nella prospettiva
storico-culturale l’attenzione si forma, quindi, a partire da «due linee
fondamentali dello sviluppo: quella dello sviluppo naturale e quella
dello sviluppo culturale dell’attenzione»[6].
Tipicamente umana è la possibilità di
avere uno sviluppo culturale delle funzioni psichiche. Ma che vuol dire
sviluppo culturale?
È interessante capire cosa accade
nell’interazione tra interno ed esterno, cosa succede in quella area
intermedia tra il dentro e il fuori, cosa accade ad un bambino affinché
acquisisca nuove competenze, come l’attenzione volontaria
sorge dal fatto che
quanti circondano il bambino, vengono via via, mediante una serie di
stimoli e di mediazioni, a dirigere l’attenzione di lui, a regolarla, a
sottometterla al loro dominio, e così mettono fra le mani del bambino
tutti quei mezzi, con l’aiuto dei quali egli stesso, in seguito acquista
il dominio della propria attenzione di quel medesimo tipo[7].
È importante comprendere la relazione
tra sviluppo delle funzioni psichiche superiori, che si instaurano su
fattori genetici e biologici, e l’uso di segni e strumenti. Vygotskij
introduce una spiegazione della struttura che è alla base del segno.
Egli parte proprio dalle ricerche comportamentali classiche e spiega che
la più semplice forma di un comportamento ha come presupposto una
reazione diretta, non mediata, al compito proposto all’organismo:
Ma la struttura che soggiace alla costruzione di un segno presenta la necessità di trovare un legame intermedio tra stimolo e risposta. L’Autore definisce questo legame intermedio come stimolo di secondo grado (segno) che viene utilizzato in una qualsiasi operazione e che adempie a una speciale funzione: crea un nuovo rapporto tra S e R. Affinché ci sia questa aggiunta, è necessario che l’individuo che compie questa operazione sia attivamente coinvolto nello stabilire questo legame. Per descrivere la circolarità dell’interazione che parte da uno stimolo osserviamo che il concetto di anello di retroazione è molto utile. Ad esempio un problema da risolvere stimola una reazione che è a sua volta modificata dall’interazione con il problema tramite l’utilizzo di un fattore di mediazione, in questo caso definito segno, che amplifica le possibilità di riflessione interna all’individuo, cosicché l’interazione tra stimolo e risposta non vada nella sola direzione di modifica dell’ambiente, ma tramite il segno abbia effetto anche sull’individuo. Questa azione retroattiva viene definita da Vygotskij come «azione complessa e mediata»[8]. Così «in questo nuovo processo l’impulso diretto di reagire è inibito e si inserisce uno stimolo ausiliario che facilita il completamento dell’operazione con mezzi diretti»[9].
Ecco come appare il classico schema stimolo risposta una volta che viene aggiunta questa funzione di mediazione, definita come variabile X:
Questo stimolo che aiuta e media il
comportamento umano, ha una proprietà definita dall’Autore «dell’azione
contraria»[10]:
rende possibile la trasformazione dell’operazione mentale semplice in
forme più alte e qualitativamente nuove. L’essere umano acquisisce nuove
competenze, come quella di dominare il comportamento dall’esterno
tramite l’utilizzo di strumenti che ampliano le sue capacità di
controllo sulla realtà. Abbiamo, quindi, una struttura specifica, umana,
di comportamento che distanzia lo sviluppo biologico e «crea forme nuove
di un processo psichico culturalmente fondato»[11].
2. L’uso degli artefatti e l’attività
mediata
Secondo Vygotskij la definizione di
strumento come mezzo di lavoro, arnese, che estende il dominio sulla
natura può confluire e confondersi con il linguaggio come mezzo di
ausilio nelle relazioni sociali nel concetto generico di
artefatti. Nelle sue ricerche
l’autore si interroga sulle modalità con cui entrano in relazione l’uso
dello strumento e l’uso del segno, come essi siano reciprocamente
collegati e allo stesso tempo siano separati nell’ambito dello sviluppo
culturale del bambino. Sinteticamente si possono riunire le novità di
questa ricerca partendo da tre postulati:
1.
il primo
postulato riguarda le somiglianze tra i due tipi di attività;
2.
il
secondo ne chiarisce le differenze più importanti;
3.
il terzo
può essere utile a comprendere il reale legame psicologico esistente tra
segno e strumento.
Partiamo dal primo postulato che
Vygotskij sottolinea, la fondamentale analogia tra segno e strumento in
quanto funzione mediatrice.
Secondo l’Autore, la differenza tra i
due concetti consiste nelle differenti attività mediate che facilitano
l’adattamento. Infatti essi orientano in maniera differente il
comportamento degli esseri umani. Vediamo come la funzione dello
strumento consista nel condurre il dominio dell’uomo sull’oggetto
dell’attività mediata. Esso è necessariamente orientato verso l’esterno
e assume il compito di trasformare gli oggetti. Notiamo che la
definizione data di strumento è quella di un «mezzo attraverso il quale
l’attività umana esterna mira a padroneggiare e sottomettere la natura»[12].
Il segno, viceversa, non può cambiare
in nessun modo la natura dell’oggetto di un’operazione mentale.
Piuttosto esso appare come un mezzo che fa parte di un’attività interna
che mira «a padroneggiare se stesso»[13].
Quindi il segno ha una direzione inversa allo strumento; esso è
orientato internamente. Riassumendo, in questa visione dell’attività
umana vediamo che tale attività si differenzia dall’ordine biologico
della natura attraverso il ruolo
della mediazione. Un tipo di mediazione ci consente di dominare
l’esterno, la realtà delle cose (res
extensa). Questo è lo
strumento. Un altro tipo di mediazione ci consente l’operazione
inversa, che sarebbe l’estensione del dominio sull’attività interna (res
cogitans). Quest’ultimo viene definito
segno. Ora bisogna chiedersi
qual è il reale legame, qual è la relazione tra queste due attività, che
origine possono avere nella filogenesi e quale sviluppo possono prendere
nell’ontogenesi. Se per filogenesi si intende l’origine biologica e
quindi la comprensione della neurofisiologia, dobbiamo però ricordare
che siamo interessati al processo che lega queste due operazioni, perché
la padronanza della
natura e la padronanza del comportamento sono unite mutualmente, proprio
come la modificazione della natura da parte dell’uomo modifica la natura
stessa dell’uomo[14].
L’uso degli strumenti durante lo
sviluppo del bambino si connota come diverso dal mero rivelarsi di un
sistema di attività organicamente dato e programmato a priori. Allo
stesso modo, il primo uso che si fa dei segni dimostra che anche le
funzioni psichiche interne non sono predeterminate. Infatti l’utilizzo
dei «mezzi artificiali», «la transizione all’attività mediata»[15],
rende possibile nuove trasformazioni di ciò che è dato biologicamente;
tutte le operazioni mentali, così come le attività comportamentali, sono
estese illimitatamente dall’uso degli strumenti, tramite i segni
acquisiscono nuove qualità che allargano i loro domini in nuove aree
all’interno dell’uomo. In queste nuove aree possiamo vedere l’emergere
di nuove funzioni, chiamate
funzioni psichiche superiori. Quando ci riferiamo all’attività
mediata che mette in relazione sia i segni, sia gli strumenti abbiamo
una nuova unità: «il comportamento superiore»[16].
Vygotskij e colleghi, attraverso
moltissime situazioni sperimentali forniscono una vasta mole di esempi
che contribuiscono a evidenziare il valore dei segni nella risoluzione
dei problemi. In seguito, già verso i 5 o 6 anni, può iniziare a usare i
segni e vi fanno completo affidamento. L’operazione viene così portata
all’esterno. Con lo sviluppo ulteriore, i segni sembrano ormai inutili
per risolvere un problema, poiché il bambino compie le operazioni
seguendo uno schema interno e non ha più bisogno di mezzi ausiliari
esterni. Ma questa scomparsa dei segni vale solo per una considerazione
che valuti il solo comportamento esterno, visto che il cammino dello
sviluppo del bambino,
come spesso accade,
procede qui non in un cerchio ma in una spirale, passando attraverso lo
stesso punto ad ogni nuova rivoluzione mentre ascende a un livello
superiore[17].
Il processo alla base di questa
operazione interna è l’interiorizzazione.
Un altro esempio efficace che fornisce Vygotskij è dato dallo sviluppo
dell’indicare. Se in un primo momento questo è un tentativo non riuscito
di afferrare qualcosa a lui prossimale ed ha a che fare con i movimenti
del bambino, quando la madre fornisce il suo aiuto al bambino e capisce
che i suoi movimenti sono indirizzati verso qualcosa, la situazione muta
completamente. Qui l’indicare diviene un gesto che ha un senso per le
altre persone. Così il significato dell’azione viene attribuito
dall’altro, in questo caso la madre. Il movimento che era caoticamente
orientato verso un oggetto diventa un movimento che è diretto a un’altra
persona, «un mezzo per stabilire rapporti»[18].
L’azione utile per afferrare si
trasforma nell’atto dell’indicare. Volendo riassumere le qualità del
processo di interiorizzazione, vediamo che:
1.
essa
consiste in un’operazione che in un primo momento è costituita da
un’attività portata all’esterno; questa, poi, viene ricostruita e
comincia a «prodursi internamente»[19];
2.
«un processo interpersonale si
trasforma in un processo intrapersonale»[20];
3.
«la trasformazione di un
processo interpersonale in uno interpersonale è il risultato di una
lunga serie di eventi evolutivi»[21].
Arriviamo qui al punto finale che
sintetizza il valore dei segni e degli strumenti per lo sviluppo umano.
Precisando che una funzione può, nel suo sviluppo culturale,
ripresentarsi due volte, si sottolinea come si abbia prima uno sviluppo
sociale della funzione (come l’attenzione volontaria) e poi uno sviluppo
interno all’individuo, dato che l’interiorizzazione si basa
sull’attività mediata dai segni che consentono la ricostruzione
dell’operazione psicologica prima agita nelle realtà esterna e poi
riportata all’interno. Vygotskij usa un metodo dialettico, hegeliano,
che ci mostra un andamento e un evoluzione a spirale dello sviluppo del
bambino. Questo processo di interiorizzazione consente l’emergere di una
nuova funzione: il pensiero.
3. Strumenti moderni e attività
mediata: in quale luogo è il pensiero?
Dopo questa breve rivisitazione di una
parte del pensiero dell’Autore, possiamo supporre che la rete con i suoi
social network, con i suoi spazi cloud e i nuovi
strumenti-computer-telefoni come i touchscreen, i tablet e
i netbook, ci stia tuttora trasformando? Ipotizzare la rete come
agente di cambiamento, vuol dire che si prova a vederla come un ente con
un propria volontà sovrasistemica. Possiamo teorizzare che questa
tecnologia possa rendere il pensiero meno radicato nell’individuo, più
diffuso, in rete, on line. Lo spazio virtuale creato da questi
strumenti-periferiche connessi in rete, potenzialmente in ogni tempo e
in ogni spazio, si muove e cambia continuamente, proprio come i nostri
pensieri che non riescono più ad essere rinchiusi in uno spazio-tempo
definito e stabile, come ad esempio un’ideologia, una teoria, una
teologia. La molteplicità dei luoghi in cui si fanno esperienze parziali
ha moltiplicato e diffuso all’infinito i luoghi di incontro (social
Hub), ma allo stesso tempo questa diffusione e parzializzazione dei
luoghi, tra virtuale e reale, ci rende vuoti, a volte semplici automi di
qualcosa che sembra trascenderci. Un quesito aperto serpeggia in questa
orizzontalizzazione dell’esperienza: chi pensa? Il pensiero appartiene
solo all’individuo? La coscienza emerge solo nel singolo? È possibile
ipotizzare una coscienza della rete? Questi quesiti vanno di pari passo
con una ricerca sui nostri modi di apprendere e restringe il campo delle
domande ora poste. Chi apprende, cosa sta apprendendo? Come è possibile,
oggi, apprendere dall’esperienza?
AGOSTO 2012
Bibliografia
W.
Bion,
Learning from experience, tr.
it. Apprendere dall’esperienza,
Armando, Roma, 2009.
L.
S. Vygotskij, Istorija razvitija
vyssich psichiceskich funkij, 1974, tr. it.
Storia delle funzioni psichiche superiori,
Giunti editore, Firenze-Milano, 2009.
L. S. Vygotskij,
Mind in society,
Harvard University Press-Cambridge, London 1978, tr. it.
Il processo cognitivo,
Editori Boringhieri S.pa., Torino, 1987.
L. S. Vygotskij,
Problemy psichiceskogo razvitija
rebenka, 1973, tr. it. Lo
sviluppo psichico del bambino, Editori Riuniti university press,
Roma, 2010.
L.
S. Vygotskij,
Thought and language, 1962,
tr. it.
Pensiero e linguaggio,
Giunti editore S.p.a., Firenze-Milano
2011.
L. S. Vygotskij,
Voobrazenie i tvorcestvo v
detskom vozraste, 1972, tr. it.
Immaginazione e creatività nell’età infantile,
Editori riuniti University press, Roma, 2010.
[1]
L. S. Vigotskij, Mind in
society, Harvard University Press-Cambridge, London, 1978,
in Il processo cognitivo,
Bollati Boringhieri S.p.a., Torino 1987
[3]
L. S. Vigotskij,
Voobrazenie i tvorcestvo v detskom vozraste, 1972, in
Immaginazione e
creatività nell’età infantile, Editori Riuniti University
press, Roma 2010.
[4]
Vigotskij, Immaginazione
e creatività…, cit., p. 73
[5]
Ibidem
[6]
Ibidem, p. 74
[7]
Ibidem
[8]
Vigotskij, Il processo
cognitivo…, cit., p. 64
[9]
Ibidem
[10]
Ibidem
[11]
Ibidem,
p.65
[12]
Ibidem,
p. 85
[13]
Ibidem
[14]
Ibidem
[15]
Ibidem,
p. 86
[16]
Ibidem
[17]
Ibidem,
p. 64
[18]
Ibidem,
p. 88
[19]
Ibidem,
p. 87
[20]
Ibidem,
p. 88
[21]
Ibidem