IMPRESSIONS DE VOYAGE.
La misconosciuta Francia del Nord
Giulia Inverardi
Ma ora sono qua in
Italia e per di più in cucina, con una gauffre al miele calda che sa di
tranquillo; il pomeriggio si aggomitola nella sera saturando i colori,
mentre il Nord torna vicino.
Un po’ cupa fra i comignoli ottocenteschi si mette davanti
agli occhi una grande stazione ferroviaria, solidamente dopo le ondate
del Tgv; un tram passa
liscio nella piazza segnata da una statua scura («Ugolin et ses fils»,
si legge), fra palazzi allungati di un bianco fumo, con qualche torretta
nera a guglie che si innalza sopra i tetti: siamo arrivati.
I boulevard si lanciano nel nulla alla destra e alla sinistra
del tram, con file di case brune ai lati. I boulevard leggermente in
salita accompagnano i nostri occhi verso un cielo vuoto e nero, bucato
da ciminiere e due campanili, uno bianco, uno nero.
Il tram è pieno. Il francese che si sente parlare è un
francese appena pesante, che dice
voilò invece che voilà.
Salgono alcuni ragazzi arabi. All’ultima fermata in città salgono due
donne giovanissime con passeggino. Il tram si inoltra nella periferia
mentre una immensa industria tutta ruggine e angoli appare e scompare.
Salgono un ragazzo e una ragazza di colore, seguiti da quattro o cinque
orientali. Un uomo di mezz’età guarda un sedile vuoto con un’ostinazione
che ci coinvolge, e ci preoccupa. La tangenziale a lato del tram ne
scavaca un’altra, poi si afferrano in uno svincolo complicato e si
rilanciano lontane; ora vediamo un ipermercato, un grosso ristorante
verde che promette moules à
volonté, e infine ecco la residenza. Scendiamo.
La residenza è una prigione grigio bagnato. È formata da
cinque enormi dita, ognuna delle quali termina in scale esterne: le
porte d’emergenza sono tappezzate di divieti che si muovono in
continuazione, sulla spinta delle sagome che entrano ed escono. Le celle
sono delineate da rettangoli incavati attorno alle finestre. Vicino alle
pareti, tra l’erba verde risaltano sacchetti dell’immondizia e lattine,
bicchieri di plastica e di vetro. Andando verso il palmo, tra un
casermone e l’altro, passiamo sul prato umido che diventa fango, e al
nostro passaggio un grosso topo lucido sguscia in una buca, nel mezzo
del sentiero che stiamo percorrendo. A uno degli alberi attorno, che
nascondono l’edificio alla vista dei passanti, c’è appeso un carrello da
supermercato.
All’accoglienza, una donna con occhi sporgenti non ci lascia
finire la domanda: le dita spazientite e la voce buttano indietro
l’entusiasmo dei primi incontri: deve pulire il vetro dell’accoglienza,
prima. Armi e bagagli a fianco, restiamo immobilizzati fra il senso di
idiozia e la pazienza, mentre dietro di noi si forma una lunga coda di
studenti preoccupati, ognuno per il proprio problema (l’affitto, una
lampada rotta che lampeggia, una coperta in più da noleggiare); più
studenti arrivano, più la signora pulitrice rallenta la mano e scuote il
capo. Ma noi, sbrigate le procedure minime saliamo nella stanza che ci
aspetta. Quella là, sarà l’eccezione, no?
La stanza è graziosa, rimodernata a colori vivaci. Abbiamo
tutto quello che ci serve: un letto, un cucinino, una presa per
internet, un wc e una doccia e un lavabo tutti in un metro quadro. Il
termosifone, però, è spento. Speriamo che il Nord sia clemente per
queste prime settimane.
Usciamo presto il mattino seguente, a prendere contatto con
la città, smaniosi di trovare colori e sguardi e simboli. Mentre
passeggiamo in un angolo di pietra bianca del centro storico, una
signora che abbiamo appena sopravanzato e che ora zoppica alle nostre
spalle al ritmo del suo bastone nero, scorreggia. Poco dopo si ferma
alle nostre spalle per permetterci di fare una foto; ci sorride,
grassottella e piena di simpatia per la nostra foto, forse anche per
noi.
Un gruppo di una decina di ragazzi, una sera non troppo tardi
alla fermata del tram Gare,
urla che alcune ragazze non li assecondano e li snobbano perché forse
sono le figlie di Sarkozy. Li guardiamo: hanno tutti jeans a metà
sedere, camicie a quadri sotto bomber stinti e berretti con la becca.
Le auto, quando compariamo cauti sulle strisce pedonali, si
fermano quasi sempre e contemporaneamente intravediamo un gesto di
invito dall’interno; eppure, l’insegnante di tedesco si lamenta con noi
che non lo facciano mai, come scusandosi dell’inciviltà dei suoi
concittadini. Noi stiamo zitti, sorridiamo e basta.
Una signora appesantita, molto anziana, appoggia le borse
della spesa di fianco a noi, su una panchina nei pressi della stazione,
esortandoci immediatamente a non scomodarci, perché lei ha solo bisogno
di cercare gli orari dell’autobus nella borsetta e subito inizia a
parlarci dei suoi impegni della giornata, con uno sguardo vuoto di dubbi
e una confidenza antica, usata.
Alla banca, la nostra consulente finanziaria ci chiede come
ci troviamo qui, se ci siamo sistemati bene, e ci dà molti consigli
riguardo alle città da visitare; ci chiede cosa facciamo nella vita, da
che parte dell’Italia proveniamo, quanti mesi resteremo. Il suo
«Bienvenue dans le Nord!» non è di cortesia.
Quando si dice: «Merci» tutti rispondono: «S’il vous plaît».
Chiediamo a una signora di mezz’età dove trovare un negozio
d’informatica, e questa subito ci mette una mano sulla spalla e ci accompagna
ad un bar dove alcuni ragazzi, «ils son jeunes, eux!», potranno
aiutarci.
Le statue bronzee sono ovunque, ci chiediamo se cadano alle
nostre spalle mentre siamo voltati da un’altra parte. Ci seguono, ci
guardano, si spogliano quasi a voler convincere che esista un lato
nascosto della città, un lato di bellezza.
Il controllore, sul tram, più che controllare dice cose
gentili dalla larghezza serena di una facciona rubizza. A una ragazza fa
i complimenti per la scelta della macchina fotografica che porta al
collo, perché è uguale alla sua, le dice con aria di intesa.
Mentre stiamo per pagare, la cassiera del supermercato ci
chiede da dove proveniamo con un sorriso discreto, forse a non voler
sottolineare le impurità della nostra pronuncia. «Ah, je l’avais pensé!
Moi aussi, bon, c’est mon père qui était italien!»[1],
«Mais alors», richiama la nostra attenzione un’anziana signora in coda,
che dà forza alla sua vocina flebile con l’apertura delle braccia in
alto, a festa, «Bienvenues!! Bienvenues», e ci chiede da che parte
dell’Italia arriviamo, ci racconta delle sue origini pure italiane, «Eh
oueeeh, l’Italie c’est le mieux, c’est aussi mieux que l’Espagne!» fa
con sguardo di accordo un francese di origini spagnole, cassiere pure
lui. Ce ne andiamo con un’apertura di risa simultanea al camminare.
L’ultimo tram è alle 21.30, ma oggi è sabato e solo oggi
l’ultimo tram è alle 23.20. Chiediamo ad un taxista, risponde che
l’ultima corsa la fanno verso le 24. La residenza è a sei chilometri dal
centro.
Lille sorprende anche perché sa ospitare tanti aspetti. A
Lille stanno appropriati i tetti alti “a gradini” e i colori
caricatissimi delle facciate barocche, ma anche la pietra francese,
massiccia, e il pavé con le piccole luci appese ad un filo da un lato
all’altro della via, che fanno sembrare festa ogni giorno. Stanno bene a
Lille il sacrosanto beffroi[2] e i
bugigattoli ambulanti o meno che fanno
gauffre per ogni fantasia, ma
anche le lanterne graziose di ogni possibile disegno, coi riccioli
ferrosi, tonde e lisce, o severe. A Lille, oltre le vetrate legnose a
quadri affumicati, fioriscono ben radicate le
estaminet[3],
in sale che sembrano vecchie cucine di famiglia tutte stipate di
minuscoli tavoli e uomini donne e tegami esposti, ma fioriscono anche
bizzarre case ad una sola stanza, alte quattro o cinque piani fra
sorprendenti vetrate liberty.
Un gatto, da una finestra barocca più rossa e gialla nel
sole, guarda il mercatino dei libri che si svolge nel cortile del suo
palazzo: controlla lo svolgimento e chiude piano gli occhi, ci sembra
soddisfatto. C’è moltissima gente, in questo mercatino di questa
domenica pomeriggio tiepida, rincuorante.
Alcuni professori, nella cittadina, parlano fra loro degli
alunni e ne parlano con termini forti, che ci sorprendono. Non dubitiamo
che gli alunni siano davvero casi disperati, e che occuparsene
permanentemente, avere la responsabilità della loro educazione, subirne
la rudezza ogni giorno sia massacrante; dubitiamo però che serva a
qualcosa parlare di “poca intelligenza” o “quasi animalità”, o di
sorrisi “da non sprecare con loro”.
Prendiamo il tram dal capolinea della residenza fin quasi
all’altro capolinea nella zona nord della cittadina, fra il carcere e lo
svincolo dell’autostrada. Il cielo grigio schiaccia le case basse che
vediamo appena scesi, e che sembrano un errore della nostra vista: si
ripetono senza una differenza o un segno di unicità umana, all’infinito.
Siamo sopravanzati sul marciapiede da un gruppo di bambini, e una
ragazzina che avrà poco più di dieci anni ci passa affianco su tacchi
rossi alti, il viso sottile colorato di nero e rosso. Ci incamminiamo
per il passaggio pedonale che sovrasta il grigio dell’autostrada,
trafficata e rumorosa, e proseguiamo fra sottopassi e sterpaglie a lato;
in una di queste un uomo in tuta, avanti a noi d’una ventina di passi,
si ferma col figlio a urinare. Sbuchiamo finalmente in un vasto parco
già rosso e arancione, da un condominio un anziano urla qualcosa ad un
altro nel prato, che non capisce. Temiamo di non trovare la scuola
media, ma infine individuiamo un cancello massiccio, suoniamo, siamo gli
assistenti di lingua italiana, aprono, entriamo.
Molti alunni di questa scuola difficile, li vediamo ora nel
cortile con le griglie delle classi disegnate sull’asfalto, sono bassi e
magri, molte ragazze hanno uno sguardo di sfida, di ostilità chiusa.
Mentre attraversiamo il cortile, alcuni ragazzini indicano a dito una
delle assistenti, urlando: «Ohhhhhh! C’est l’italienne!!!».
In classe la maggior parte di loro urlano e ridono, si
prendono a calci, fingono di sputare del catarro, si insultano, dicono
«gros mots» in continuazione, sfidano la giovane insegnante che è alla
sua prima esperienza restando con le spalle voltate a lei e rifiutando
di sedersi al banco che indica. Ci vogliono minuti faticosi per avere la
classe silenziosa. Dopo, i ragazzini rivolgono all’assistente di
italiano moltissime domande, ma sono soprattutto stupidaggini e battute.
L’insegnante si arrabbia, l’assistente prova a parlare con il ragazzino
che scherza: questo si fa piccolo piccolo e si vergogna, ma solo per i
minuti di confronto diretto. La giostra di volgarità e manifestazioni di
disinteresse gira sempre, concede pochi minuti e un alunno per volta.
Nella scuola difficile ribattezzata con simpatia
Il Bronx, raccontano che
qualche giorno fa una ragazzina ne ha chiusa un’altra in bagno dopo
averle riempito la bocca e gli slip di erba, e che un ragazzino, salito
su un albero del cortile, ha defecato da un ramo; raccontano anche che
alcune ragazze, quando si chiede loro di alzarsi all’ingresso del
professore, rispondano: «J’peux’pas, j’ai un cancer au cul!»[4].
Nel liceo centrale della città, invece, gli alunni sono molto educati e silenziosi, tanto che quasi nessuno fa domande. Uno guarda l’assistente di italiano con un sorriso sornione e capisce quasi tutto, esprimendosi in un buon italiano. Molti, dopo poche lezioni, si azzardano a salutarla con uno strascicato: «Arrivederla!»
In una giornata di sole a metà ottobre passeggiamo per la via
più stretta della città, nemmeno un metro. Non incontriamo nessuno:
siamo solo noi, i mattoni con tonalità dal rosso cupo al bordeaux al
marrone rossastro, pareti grigio scuro con scritte squadrate enormi, e
casermoni a interrompere le casette regolari, a volte monotone a volte
aggraziate. Ogni tanto, nelle poche vie sopravvissute intatte a
bombardamenti e incendi[5],
appaiono belle armonie di edera, mattoni, pietra e fiori, con numeri
civici eleganti e bianchi, su classico fondo francese, blu.
La piazza più grande della cittadina è il suo miglior
ritratto: il centro commerciale incatenato per la chiusura domenicale,
un po’ mesta per noi abituati alla febbrile attività cittadina nei
giorni festivi, ma zeppo delle pretese capitaliste che a testa bassa
ripetono «C’è benessere! C’è ricchezza!» da dietro vetrine di dolci e
gioielli; l’imponente Hôtel de Ville affollato di sculture sotto il
frontone ricostruito che recita con orgoglio «Valenciennes
défendant ses remparts»[6];
di fronte a questo rigore elegante, ottocentesco, sta un lungo casermone
grigio-bianco del tutto abitativo ai piani superiori, del tutto
commerciale al pianterreno, incongruente; un McDonald chiude un lato
della lunga piazza, adibita per una buona metà della superficie a
parcheggio; due grandi fioriere ricordano i giardini giapponesi, con
arbusti dalle piatte fronde a nuvola; poco lontano, il moderno obelisco
luminoso ricorda che lì prima,c’era un
beffroi, e c’era davvero.
Peccato.
Ci fermiamo ad apprezzare la bellezza dei serramenti, ci
stupisce la fantasia dei colori e delle armonie: finestre dai legni in
verde, rosa, azzurro, tutti pastello, e poi invece, nella casa affianco,
si fanno rosso intenso, blu cobalto, fucsia. Le finestre grandi vestite
da tende rinomate[7]
sono sempre scenario, in queste vie, di qualche inattesa bellezza: un
vaso, un gatto, una composizione di pot-pourri, un veliero in miniatura.
Non incontriamo nessuno, in un’altra passeggiata solitaria,
finché non ci fermiamo ad un bar. Chiediamo un cappuccino: insieme alla
faccia esitante della proprietaria arriva un caffè molto lungo con
cinque centimetri di panna e del cacao sopra.
Ci viene in mente un bilancio visivo parziale. Uscendo da una
stazione ferroviaria piccola o grande, il visitatore della regione ha
alte probabilità di riceverne questa prima immagine: anziane signore con
mollette da doccia colorate nei capelli bevono birre scure in bar scuri,
ad altri tavoli signori con grossi baffi fanno lo stesso, e giovani dai
cappellini con la becca anche; l’orario è indifferente. Ora, ad esempio,
sono le dieci del mattino e noi siamo gli unici ad aver ordinato un
caffè molto ristretto.
Il vento in certi giorni è fortissimo, un corpo che puoi
toccare e spinge contro di noi che camminiamo da soli o in due o tre per
i boulevard spazzati.
Le nuvole sono piatte, sembrano pressate col ferro da stiro
contro l’orizzonte di questo paesaggio piatto. Le nuvole sono anche
grevi, danno l’idea di non voler passare mai, di essersi ancorate a
questa terra e ai suoi smilzi alberi.
Attraversiamo un boulevard nel centro della città: oltre il
bavero della giacca e del cappuccio vediamo un cortile e dentro un
edificio sventrato, assi di legno sparse a terra, pozzanghere e fango
attorno, proseguiamo; una facciata sta perdendo tutto l’intonaco, oltre
le reti di protezione si intravedono decorazioni e bassorilievi,
proseguiamo; su un’altra bella facciata stanno crescendo erba e
sterpaglie, proseguiamo; un palazzone da periferia milanese si innalza,
bianco sporco e giallo, fra due belle casette dai tetti oblunghi.
Proseguiamo.
Ci impressiona la quantità di cartelloni, appesi alla buona
alle finestre, alle porte, alle enormi pareti laterali spoglie, che
vogliono ossessivamente vendere case.
Amiamo molto i piccoli abbaini che si aprono in serie sulle
vie, cento e cento occhi dalle alte soffitte la cui dimensione è un
invito all’immaginazione: dentro, potrebbero essere nascosti interi
universi di storie, fra bauli e marionette, tappeti, gatti e giochi
artigianali.
I cavi dell’elettricità a volte penzolano molli, si
accasciano sui muri, a volte si stendono da un lato all’altro della
strada e fanno grovigli bizzarri.
È quasi novembre. Una signora coi sandali inizia dal nulla a
parlarci sul tram. Non capiamo bene, biascica qualche parola; dopo aver
appurato che non è la nostra competenza sfalsata della lingua a rendere
difficile la comunicazione, pensiamo anche che sia un po’ pazza. Ci
chiede se abitiamo nella residenza universitaria. Ci chiede come ci
troviamo e quando ci lamentiamo del riscaldamento (a singhiozzo, in
ritardo) se ne dispiace molto; dice che lei ospita una ragazza del
Camerun che ha sempre freddo, e quando la vede infreddolita le dice:
«Mais ma puce, si tu as froid tu dois me le dire, tu as droit au
chauffage!»[8].
L’enclos du Beguinage
è un dedalo di viuzze anguste che si snodano e arrotolano su se stesse,
apparentemente senza motivo se non quello di renderci quasi impossibile,
ogni volta che cerchiamo di mostrare a qualche amico il luogo, entrarci.
È un mondo a sé ad un solo basso piano, le case hanno imposte turchesi e
appesi alle pareti naturalmente in mattoni bruniti tanti piccoli vasi,
molti dei quali senza fiori, e bici arrugginite e uccellini silenziosi
in gabbia.
Alcuni di noi non avevano mai sentito parlare di “alcolismo
fetale”; il ragazzino che ne ha sofferto è anche malmenato dai genitori.
Ha il volto da roditore iperattivo, ora chiede all’assistente di
italiano se, quando torna in Italia, può nascondersi (gratis) nella sua
valigia. Qualcuno ha detto che è poco intelligente: ride quasi sempre,
fa lo stupido, scatta nei gesti e con gli occhi, la spara sempre più
grossa dell’amico. Ci chiediamo cosa saremmo, al posto suo.
C’è una ragazzina in ritardo: truccatissima sbatte la porta,
sbatte la cartella sul banco, si sbatte sulla sedia e guarda con aria di
sfida e quasi di schifo l’assistente di italiano, dondolando il capo.
Sembra una gallina arrabbiata. L’insegnante la rimprovera facendole
notare che c’è l’assistente d’italiano, e lei risponde: «Je m’en fous»[9].
L’assistente la ringrazia per la gentilezza, tranquillamente, ma quando
la vede rispondere all’insegnante con smorfie da primadonna, da brutta
fotocopia di qualcun’altro, orgogliosa di non avere il libro, orgogliosa
di fregarsene di tutto, le fa il verso, lei ripete le smorfie,
l’assistente le fa ancora di più la caricatura, lei scuote il capo
schifata, l’assistente di più. Alla fine l’assistente e anche noi le
sorridiamo, sperando che la ragazzina un giorno si ribelli davvero, non
solo per l’apparenza o per conformismo.
Nelle classi del Bronx
solo un alunno per classe, in media, sa cosa si festeggia in Francia il
14 luglio.
Nella provincia non troviamo facciate cadenti o boulevard
identici, ma un’unica strada che fa il paese con case ai due lati, che
strenuamente si tengono attaccate le une alle altre una dopo l’altra,
come donne coraggiose strette per non lasciar passare; l’effetto però è
quello di due muraglie che tolgono aria. Dietro le case sfumano colline
che sembrano artificiali e dietro ancora si intravedono, ovunque, fumi
di industrie o comignoli abbandonati, bacini di acque scure e alberi
senza foglie, e poi una lunga pianura sterposa.
A Condé-sur-l’Escaut
ci sono fortificazioni imponenti e dentro un paesello che sorride appena
nel sole. Forse sarebbe più sorridente se l’acqua che lo circonda fosse
limpida, non la melma compatta, immobile, nella quale tre anatre in fila
indiana stanno avanzando a fatica, col povero collo allungato che freme
per lo sforzo. O se non avesse il
beffroi più piccolo della regione. Ma a noi piace, per questa
giornata di viaggio.
Le patatine fritte appaiono sulla tavola ad accompagnamento
di qualsiasi cosa, alcune forse ancora fritte nel grasso di maiale o di
cavallo, come da tradizione e come, ci dicono, ancora si fa nel
vicinissimo Belgio. A tutti paiono così appetitose che nessuno le
rifiuta, sia che arrivino insolite stese su una bella omelette, sia che
arrivino calzanti insieme alla grande pentola di
moules a comporre il tipico
piatto del Nord, le moules (et)
frites appunto, o insieme ad un altro piatto regionale, la
carbonade flamande, uno
spezzatino freddo di varie carni; scopriamo che le
frites servono proprio a
sciogliere la gelatina della carbonade, ma noi non abbiamo avuto bisogno di alcuna
giustificazione per mangiare anche stavolta fino all’ultima patatina.
Più che una cultura della birra, qui al Nord c’è un vero
culto della birra. Pare strano ad alcuni di noi, soprattutto a quelli
che provengono da culture o culti vitivinicoli, vedere al supermercato
cofanetti di birre in confezione regalo, o sentire un cameriere
consigliare la versione speciale, quella natalizia, della birra che
abbiamo ordinato.
C’è un odore che picchia nel nostro naso ogni giorno in vari
luoghi della città, ma soprattutto ad un punto di un
boulevard nei pressi della stazione. In effetti, dopo un paio di
mesi, ci accorgiamo che si tratta de “l’odore”, l’odore della città e
che in quel punto del boulevard è solo più concentrato che altrove. Dopo
un lungo dibattito, decidiamo che è essenzialmente odore di cibo
invitante misto a un nonsappiamoche di rancido, e siamo sempre tutti
tentati dall’annusarlo a fondo, ma ci tratteniamo.
Ad Arras passeggiamo per le due belle piazze, che sembrano
così vissute e autentiche e invece sono in gran parte ricostruite.
D’altronde non possiamo arrabbiarci, anzi piange il cuore a vedere le
fotografie del dopoguerra con le belle facciate tranciate a volte di
netto, diagonalmente, oppure del tutto svanite come fantasmi, impresse
solo nella memoria dell’aria.
Stiamo esitando di fronte alla vetrina di un pasticcere,
quando veniamo invitati alla scelta da uno sconosciuto apparso tanto
all’improvviso, sull’onda del suo entusiasmo, che ci spaventiamo. Lo
sogguardiamo, ma ha un sorriso bonaccione che smorza anche il peggior
sospetto: vuole davvero solo aiutarci a scegliere un dolce. Infatti, ci
argomenta che dobbiamo assolutamente provare quel tortino al caramello,
perché è tipico del Nord; proviamo a indicargli l’origine della nostra
incertezza, ma l’espressione allibita dell’interlocutore ci distoglie
dall’intento ancora prima delle sue parole: «Mais non, ça non, c’est
belge!». Entriamo per studiare meglio gli altri dolci; usciamo per
riguardare il dolcetto belga, ma il signore è ancora là e ci fa un cenno
cordiale con la mano, riferendo alla moglie che siamo italiani, e che
assolutamente non possiamo non assaggiare il tortino al caramello.
Assaggiamo il tortino al caramello.
I bar hanno nomi come
La taverne bruxelloise, Le
paradis de la bière o Ô Ch’ti
heureux, hanno neon rossi o blu attorno alle insegne e alle porte e
non hanno alcuna pretesa di eleganza. Pare che abbiano la sola onesta
pretesa di essere uguali alle case della gente, alla gente stessa.
Preferiamo questi ai pochi locali chic che si contendono la grande
piazza centrale e ci han fatto pagare un
croque-monsieur 7 €. Alla
Taverne bruxelloise, con le
sue righine gialle sul plexiglass che circonda le sedie di paglia
sfilacciata, con la friggitoria che si intravede dalla porta sempre
aperta e col grosso cameriere calvo-barbuto più simile ad un camionista
o ad un harleysta duro e puro,
il croque-monsieur costa 2 €,
è più leggero e nel prezzo è compreso un sorriso sobrio, a noi più
gradito di quello complimentoso della Place d’Armes.
Le persone, ci sembra a quasi tutti, hanno scritto in faccia
il degrado, sociale, umano. Molti hanno sguardi fissi e si dondolano
drammaticamente, ma alcuni di noi dicono che è un’impressione
tendenziosa; altri ancora dicono che è un dato di fatto, mentre sono
sfiorati da corpi e occhi che sono altrove e annaspano camminando; molte
ragazze hanno il trucco pesante che non riesce a coprire lo sguardo
appesantito da una disperazione sorda; alla stazione, ma non solo, gli
ubriachi sono moltissimi, alcuni sdraiati sulle panchine che sono fatte
apposta per farli star scomodi, altri pendenti sul vuoto al limite delle
rotaie del tram.
In tutti i parcheggi, immaginiamo per impedire che le auto
vengano posteggiate anche fuori dagli appositi spazi, sono piantati
enormi massi grigi, che sembrano caduti lì dal cielo come meteoriti di
un’apocalisse continua.
Un giorno l’autista dell’autobus intavola l’ormai abituale
conversazione, sempre sorprendente e piacevole, sulla nostra origine, su
come ci troviamo qui, sul nostro lavoro e persino sulle nostre
aspirazioni future. Poco dopo la partenza, destinazione un’altra scuola
media in un piccolo comune limitrofo immerso letteralmente nel nulla
erboso e sterposo, la radio trasmette notizie dall’Italia: il conducente
senza dir nulla alza il volume.
È il momento, all’improvviso. Ce ne andiamo una mattina di
sole gelido sgattaiolando via dalla tentazione, che diventa
insopportabile, di buttarci in una via qualsiasi: in quella che non
abbiamo mai percorso, in quella che forse abbiamo percorso
distrattamente, in quell’altra magari in alto non abbiamo ben guardato,
e sappiamo che sbuca sempre fuori qualcosa di meraviglioso, a guardare
bene angoli e persone.
Sgattaioliamo via anche dallo sguardo interrogativo di questa
città, di questa regione.
E ora che è passato tempo e chilometri e pensieri vogliamo
rassicurarle: noi non le abbiamo tradite o travisate, noi non siamo
stati come i molti altri. Noi invece vogliamo tradurle in empatia da
spartire come si spartisce il pane o le
frites o le birre d’abbazia,
in empatia da mettere in mano a chi non vuole saperne di scoprire città
e regione e partirà per andarle a scoprire. Le vogliamo rassicurare, che
non sono state la loro faccia colpita, le loro steppe sterpose spazzate
dal vento e dai fumi, non sono stati i depressi gli urlanti o i baristi
camionisti, a farci andare via. Anzi, anzi il loro insolito ci ha
tenuti, il loro insolito ci tiene.
APRILE 2012
[1]
«Ah, l’avevo pensato! Anche io, insomma, è mio padre che era
italiano!»
[2]
Il beffroi è la torre
campanaria della città, rigorosamente laica.
[3]
L’estaminet è la
trattoria tipica del Nord Pas-de-Calais, che propone i piatti e
le bevande regionali, solitamente a prezzi ragionevoli;
l’ambiente è, di norma, decisamente familiare e accogliente.
[4]
«Non posso, ho un cancro al culo».
[5]
La regione del Nord Pas-de-Calais è stata devastata dai
bombardamenti sia nella Prima che nella Seconda Guerra Mondiale;
per avere un’idea della portata dei danni bellici, si pensi che
il centro storico della città di Maubeuge venne distrutto per
più del 90%. La stessa Valenciennes venne gravemente deturpata
nella sua bellezza urbana, già dalle truppe anglo-austriache nel
1793, ma soprattutto in occasione degli scontri della Prima
Guerra Mondiale, fra il 1914 e il 1918, e ancor di più nel 1940,
quando le truppe tedesche bombardano la città che venne
danneggiata da un incendio terrificante.
[6]
«Valenciennes che difende le sue fortificazioni».
[7]
La regione è celebre per la produzione di pizzi pregiati, la
cosiddetta dentelle.
[8]
«Ma tesoro [pulce mia, lett.], se hai freddo devi dirmelo, hai
diritto al riscaldamento!»
[9]
«Me ne frego»