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07
Maggio 2012

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IMPRESSIONS DE VOYAGE. La misconosciuta Francia del Nord

Giulia Inverardi

 

Ma ora sono qua in Italia e per di più in cucina, con una gauffre al miele calda che sa di tranquillo; il pomeriggio si aggomitola nella sera saturando i colori, mentre il Nord torna vicino.

 

Un po’ cupa fra i comignoli ottocenteschi si mette davanti agli occhi una grande stazione ferroviaria, solidamente dopo le ondate del Tgv; un tram passa liscio nella piazza segnata da una statua scura («Ugolin et ses fils», si legge), fra palazzi allungati di un bianco fumo, con qualche torretta nera a guglie che si innalza sopra i tetti: siamo arrivati.

I boulevard si lanciano nel nulla alla destra e alla sinistra del tram, con file di case brune ai lati. I boulevard leggermente in salita accompagnano i nostri occhi verso un cielo vuoto e nero, bucato da ciminiere e due campanili, uno bianco, uno nero.

Il tram è pieno. Il francese che si sente parlare è un francese appena pesante, che dice voilò invece che voilà. Salgono alcuni ragazzi arabi. All’ultima fermata in città salgono due donne giovanissime con passeggino. Il tram si inoltra nella periferia mentre una immensa industria tutta ruggine e angoli appare e scompare. Salgono un ragazzo e una ragazza di colore, seguiti da quattro o cinque orientali. Un uomo di mezz’età guarda un sedile vuoto con un’ostinazione che ci coinvolge, e ci preoccupa. La tangenziale a lato del tram ne scavaca un’altra, poi si afferrano in uno svincolo complicato e si rilanciano lontane; ora vediamo un ipermercato, un grosso ristorante verde che promette moules à volonté, e infine ecco la residenza. Scendiamo.

La residenza è una prigione grigio bagnato. È formata da cinque enormi dita, ognuna delle quali termina in scale esterne: le porte d’emergenza sono tappezzate di divieti che si muovono in continuazione, sulla spinta delle sagome che entrano ed escono. Le celle sono delineate da rettangoli incavati attorno alle finestre. Vicino alle pareti, tra l’erba verde risaltano sacchetti dell’immondizia e lattine, bicchieri di plastica e di vetro. Andando verso il palmo, tra un casermone e l’altro, passiamo sul prato umido che diventa fango, e al nostro passaggio un grosso topo lucido sguscia in una buca, nel mezzo del sentiero che stiamo percorrendo. A uno degli alberi attorno, che nascondono l’edificio alla vista dei passanti, c’è appeso un carrello da supermercato.

All’accoglienza, una donna con occhi sporgenti non ci lascia finire la domanda: le dita spazientite e la voce buttano indietro l’entusiasmo dei primi incontri: deve pulire il vetro dell’accoglienza, prima. Armi e bagagli a fianco, restiamo immobilizzati fra il senso di idiozia e la pazienza, mentre dietro di noi si forma una lunga coda di studenti preoccupati, ognuno per il proprio problema (l’affitto, una lampada rotta che lampeggia, una coperta in più da noleggiare); più studenti arrivano, più la signora pulitrice rallenta la mano e scuote il capo. Ma noi, sbrigate le procedure minime saliamo nella stanza che ci aspetta. Quella là, sarà l’eccezione, no?

La stanza è graziosa, rimodernata a colori vivaci. Abbiamo tutto quello che ci serve: un letto, un cucinino, una presa per internet, un wc e una doccia e un lavabo tutti in un metro quadro. Il termosifone, però, è spento. Speriamo che il Nord sia clemente per queste prime settimane.

Usciamo presto il mattino seguente, a prendere contatto con la città, smaniosi di trovare colori e sguardi e simboli. Mentre passeggiamo in un angolo di pietra bianca del centro storico, una signora che abbiamo appena sopravanzato e che ora zoppica alle nostre spalle al ritmo del suo bastone nero, scorreggia. Poco dopo si ferma alle nostre spalle per permetterci di fare una foto; ci sorride, grassottella e piena di simpatia per la nostra foto, forse anche per noi.

Un gruppo di una decina di ragazzi, una sera non troppo tardi alla fermata del tram Gare, urla che alcune ragazze non li assecondano e li snobbano perché forse sono le figlie di Sarkozy. Li guardiamo: hanno tutti jeans a metà sedere, camicie a quadri sotto bomber stinti e berretti con la becca.

Le auto, quando compariamo cauti sulle strisce pedonali, si fermano quasi sempre e contemporaneamente intravediamo un gesto di invito dall’interno; eppure, l’insegnante di tedesco si lamenta con noi che non lo facciano mai, come scusandosi dell’inciviltà dei suoi concittadini. Noi stiamo zitti, sorridiamo e basta.

Una signora appesantita, molto anziana, appoggia le borse della spesa di fianco a noi, su una panchina nei pressi della stazione, esortandoci immediatamente a non scomodarci, perché lei ha solo bisogno di cercare gli orari dell’autobus nella borsetta e subito inizia a parlarci dei suoi impegni della giornata, con uno sguardo vuoto di dubbi e una confidenza antica, usata.

Alla banca, la nostra consulente finanziaria ci chiede come ci troviamo qui, se ci siamo sistemati bene, e ci dà molti consigli riguardo alle città da visitare; ci chiede cosa facciamo nella vita, da che parte dell’Italia proveniamo, quanti mesi resteremo. Il suo «Bienvenue dans le Nord!» non è di cortesia.

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Quando si dice: «Merci» tutti rispondono: «S’il vous plaît».

Chiediamo a una signora di mezz’età dove trovare un negozio d’informatica, e questa subito ci mette una mano sulla spalla e ci accompagna ad un bar dove alcuni ragazzi, «ils son jeunes, eux!», potranno aiutarci.

Le statue bronzee sono ovunque, ci chiediamo se cadano alle nostre spalle mentre siamo voltati da un’altra parte. Ci seguono, ci guardano, si spogliano quasi a voler convincere che esista un lato nascosto della città, un lato di bellezza.

Il controllore, sul tram, più che controllare dice cose gentili dalla larghezza serena di una facciona rubizza. A una ragazza fa i complimenti per la scelta della macchina fotografica che porta al collo, perché è uguale alla sua, le dice con aria di intesa.

Mentre stiamo per pagare, la cassiera del supermercato ci chiede da dove proveniamo con un sorriso discreto, forse a non voler sottolineare le impurità della nostra pronuncia. «Ah, je l’avais pensé! Moi aussi, bon, c’est mon père qui était italien!»[1], «Mais alors», richiama la nostra attenzione un’anziana signora in coda, che dà forza alla sua vocina flebile con l’apertura delle braccia in alto, a festa, «Bienvenues!! Bienvenues», e ci chiede da che parte dell’Italia arriviamo, ci racconta delle sue origini pure italiane, «Eh oueeeh, l’Italie c’est le mieux, c’est aussi mieux que l’Espagne!» fa con sguardo di accordo un francese di origini spagnole, cassiere pure lui. Ce ne andiamo con un’apertura di risa simultanea al camminare.

L’ultimo tram è alle 21.30, ma oggi è sabato e solo oggi l’ultimo tram è alle 23.20. Chiediamo ad un taxista, risponde che l’ultima corsa la fanno verso le 24. La residenza è a sei chilometri dal centro.

Lille sorprende anche perché sa ospitare tanti aspetti. A Lille stanno appropriati i tetti alti “a gradini” e i colori caricatissimi delle facciate barocche, ma anche la pietra francese, massiccia, e il pavé con le piccole luci appese ad un filo da un lato all’altro della via, che fanno sembrare festa ogni giorno. Stanno bene a Lille il sacrosanto beffroi[2] e i bugigattoli ambulanti o meno che fanno gauffre per ogni fantasia, ma anche le lanterne graziose di ogni possibile disegno, coi riccioli ferrosi, tonde e lisce, o severe. A Lille, oltre le vetrate legnose a quadri affumicati, fioriscono ben radicate le estaminet[3], in sale che sembrano vecchie cucine di famiglia tutte stipate di minuscoli tavoli e uomini donne e tegami esposti, ma fioriscono anche bizzarre case ad una sola stanza, alte quattro o cinque piani fra sorprendenti vetrate liberty.

Un gatto, da una finestra barocca più rossa e gialla nel sole, guarda il mercatino dei libri che si svolge nel cortile del suo palazzo: controlla lo svolgimento e chiude piano gli occhi, ci sembra soddisfatto. C’è moltissima gente, in questo mercatino di questa domenica pomeriggio tiepida, rincuorante.

Alcuni professori, nella cittadina, parlano fra loro degli alunni e ne parlano con termini forti, che ci sorprendono. Non dubitiamo che gli alunni siano davvero casi disperati, e che occuparsene permanentemente, avere la responsabilità della loro educazione, subirne la rudezza ogni giorno sia massacrante; dubitiamo però che serva a qualcosa parlare di “poca intelligenza” o “quasi animalità”, o di sorrisi “da non sprecare con loro”.

Prendiamo il tram dal capolinea della residenza fin quasi all’altro capolinea nella zona nord della cittadina, fra il carcere e lo svincolo dell’autostrada. Il cielo grigio schiaccia le case basse che vediamo appena scesi, e che sembrano un errore della nostra vista: si ripetono senza una differenza o un segno di unicità umana, all’infinito. Siamo sopravanzati sul marciapiede da un gruppo di bambini, e una ragazzina che avrà poco più di dieci anni ci passa affianco su tacchi rossi alti, il viso sottile colorato di nero e rosso. Ci incamminiamo per il passaggio pedonale che sovrasta il grigio dell’autostrada, trafficata e rumorosa, e proseguiamo fra sottopassi e sterpaglie a lato; in una di queste un uomo in tuta, avanti a noi d’una ventina di passi, si ferma col figlio a urinare. Sbuchiamo finalmente in un vasto parco già rosso e arancione, da un condominio un anziano urla qualcosa ad un altro nel prato, che non capisce. Temiamo di non trovare la scuola media, ma infine individuiamo un cancello massiccio, suoniamo, siamo gli assistenti di lingua italiana, aprono, entriamo.

Molti alunni di questa scuola difficile, li vediamo ora nel cortile con le griglie delle classi disegnate sull’asfalto, sono bassi e magri, molte ragazze hanno uno sguardo di sfida, di ostilità chiusa. Mentre attraversiamo il cortile, alcuni ragazzini indicano a dito una delle assistenti, urlando: «Ohhhhhh! C’est l’italienne!!!».

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In classe la maggior parte di loro urlano e ridono, si prendono a calci, fingono di sputare del catarro, si insultano, dicono «gros mots» in continuazione, sfidano la giovane insegnante che è alla sua prima esperienza restando con le spalle voltate a lei e rifiutando di sedersi al banco che indica. Ci vogliono minuti faticosi per avere la classe silenziosa. Dopo, i ragazzini rivolgono all’assistente di italiano moltissime domande, ma sono soprattutto stupidaggini e battute. L’insegnante si arrabbia, l’assistente prova a parlare con il ragazzino che scherza: questo si fa piccolo piccolo e si vergogna, ma solo per i minuti di confronto diretto. La giostra di volgarità e manifestazioni di disinteresse gira sempre, concede pochi minuti e un alunno per volta.

Nella scuola difficile ribattezzata con simpatia Il Bronx, raccontano che qualche giorno fa una ragazzina ne ha chiusa un’altra in bagno dopo averle riempito la bocca e gli slip di erba, e che un ragazzino, salito su un albero del cortile, ha defecato da un ramo; raccontano anche che alcune ragazze, quando si chiede loro di alzarsi all’ingresso del professore, rispondano: «J’peux’pas, j’ai un cancer au cul!»[4].

Nel liceo centrale della città, invece, gli alunni sono molto educati e silenziosi, tanto che quasi nessuno fa domande. Uno guarda l’assistente di italiano con un sorriso sornione e capisce quasi tutto, esprimendosi in un buon italiano. Molti, dopo poche lezioni, si azzardano a salutarla con uno strascicato: «Arrivederla!»

In una giornata di sole a metà ottobre passeggiamo per la via più stretta della città, nemmeno un metro. Non incontriamo nessuno: siamo solo noi, i mattoni con tonalità dal rosso cupo al bordeaux al marrone rossastro, pareti grigio scuro con scritte squadrate enormi, e casermoni a interrompere le casette regolari, a volte monotone a volte aggraziate. Ogni tanto, nelle poche vie sopravvissute intatte a bombardamenti e incendi[5], appaiono belle armonie di edera, mattoni, pietra e fiori, con numeri civici eleganti e bianchi, su classico fondo francese, blu.

La piazza più grande della cittadina è il suo miglior ritratto: il centro commerciale incatenato per la chiusura domenicale, un po’ mesta per noi abituati alla febbrile attività cittadina nei giorni festivi, ma zeppo delle pretese capitaliste che a testa bassa ripetono «C’è benessere! C’è ricchezza!» da dietro vetrine di dolci e gioielli; l’imponente Hôtel de Ville affollato di sculture sotto il frontone ricostruito che recita con orgoglio «Valenciennes défendant ses remparts»[6]; di fronte a questo rigore elegante, ottocentesco, sta un lungo casermone grigio-bianco del tutto abitativo ai piani superiori, del tutto commerciale al pianterreno, incongruente; un McDonald chiude un lato della lunga piazza, adibita per una buona metà della superficie a parcheggio; due grandi fioriere ricordano i giardini giapponesi, con arbusti dalle piatte fronde a nuvola; poco lontano, il moderno obelisco luminoso ricorda che lì prima,c’era un beffroi, e c’era davvero. Peccato.

Ci fermiamo ad apprezzare la bellezza dei serramenti, ci stupisce la fantasia dei colori e delle armonie: finestre dai legni in verde, rosa, azzurro, tutti pastello, e poi invece, nella casa affianco, si fanno rosso intenso, blu cobalto, fucsia. Le finestre grandi vestite da tende rinomate[7] sono sempre scenario, in queste vie, di qualche inattesa bellezza: un vaso, un gatto, una composizione di pot-pourri, un veliero in miniatura.

Non incontriamo nessuno, in un’altra passeggiata solitaria, finché non ci fermiamo ad un bar. Chiediamo un cappuccino: insieme alla faccia esitante della proprietaria arriva un caffè molto lungo con cinque centimetri di panna e del cacao sopra.

Ci viene in mente un bilancio visivo parziale. Uscendo da una stazione ferroviaria piccola o grande, il visitatore della regione ha alte probabilità di riceverne questa prima immagine: anziane signore con mollette da doccia colorate nei capelli bevono birre scure in bar scuri, ad altri tavoli signori con grossi baffi fanno lo stesso, e giovani dai cappellini con la becca anche; l’orario è indifferente. Ora, ad esempio, sono le dieci del mattino e noi siamo gli unici ad aver ordinato un caffè molto ristretto.

Il vento in certi giorni è fortissimo, un corpo che puoi toccare e spinge contro di noi che camminiamo da soli o in due o tre per i boulevard spazzati.

Le nuvole sono piatte, sembrano pressate col ferro da stiro contro l’orizzonte di questo paesaggio piatto. Le nuvole sono anche grevi, danno l’idea di non voler passare mai, di essersi ancorate a questa terra e ai suoi smilzi alberi.

Attraversiamo un boulevard nel centro della città: oltre il bavero della giacca e del cappuccio vediamo un cortile e dentro un edificio sventrato, assi di legno sparse a terra, pozzanghere e fango attorno, proseguiamo; una facciata sta perdendo tutto l’intonaco, oltre le reti di protezione si intravedono decorazioni e bassorilievi, proseguiamo; su un’altra bella facciata stanno crescendo erba e sterpaglie, proseguiamo; un palazzone da periferia milanese si innalza, bianco sporco e giallo, fra due belle casette dai tetti oblunghi. Proseguiamo.

Ci impressiona la quantità di cartelloni, appesi alla buona alle finestre, alle porte, alle enormi pareti laterali spoglie, che vogliono ossessivamente vendere case.

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Amiamo molto i piccoli abbaini che si aprono in serie sulle vie, cento e cento occhi dalle alte soffitte la cui dimensione è un invito all’immaginazione: dentro, potrebbero essere nascosti interi universi di storie, fra bauli e marionette, tappeti, gatti e giochi artigianali.

I cavi dell’elettricità a volte penzolano molli, si accasciano sui muri, a volte si stendono da un lato all’altro della strada e fanno grovigli bizzarri.

È quasi novembre. Una signora coi sandali inizia dal nulla a parlarci sul tram. Non capiamo bene, biascica qualche parola; dopo aver appurato che non è la nostra competenza sfalsata della lingua a rendere difficile la comunicazione, pensiamo anche che sia un po’ pazza. Ci chiede se abitiamo nella residenza universitaria. Ci chiede come ci troviamo e quando ci lamentiamo del riscaldamento (a singhiozzo, in ritardo) se ne dispiace molto; dice che lei ospita una ragazza del Camerun che ha sempre freddo, e quando la vede infreddolita le dice: «Mais ma puce, si tu as froid tu dois me le dire, tu as droit au chauffage!»[8].

L’enclos du Beguinage è un dedalo di viuzze anguste che si snodano e arrotolano su se stesse, apparentemente senza motivo se non quello di renderci quasi impossibile, ogni volta che cerchiamo di mostrare a qualche amico il luogo, entrarci. È un mondo a sé ad un solo basso piano, le case hanno imposte turchesi e appesi alle pareti naturalmente in mattoni bruniti tanti piccoli vasi, molti dei quali senza fiori, e bici arrugginite e uccellini silenziosi in gabbia.

Alcuni di noi non avevano mai sentito parlare di “alcolismo fetale”; il ragazzino che ne ha sofferto è anche malmenato dai genitori. Ha il volto da roditore iperattivo, ora chiede all’assistente di italiano se, quando torna in Italia, può nascondersi (gratis) nella sua valigia. Qualcuno ha detto che è poco intelligente: ride quasi sempre, fa lo stupido, scatta nei gesti e con gli occhi, la spara sempre più grossa dell’amico. Ci chiediamo cosa saremmo, al posto suo.

C’è una ragazzina in ritardo: truccatissima sbatte la porta, sbatte la cartella sul banco, si sbatte sulla sedia e guarda con aria di sfida e quasi di schifo l’assistente di italiano, dondolando il capo. Sembra una gallina arrabbiata. L’insegnante la rimprovera facendole notare che c’è l’assistente d’italiano, e lei risponde: «Je m’en fous»[9]. L’assistente la ringrazia per la gentilezza, tranquillamente, ma quando la vede rispondere all’insegnante con smorfie da primadonna, da brutta fotocopia di qualcun’altro, orgogliosa di non avere il libro, orgogliosa di fregarsene di tutto, le fa il verso, lei ripete le smorfie, l’assistente le fa ancora di più la caricatura, lei scuote il capo schifata, l’assistente di più. Alla fine l’assistente e anche noi le sorridiamo, sperando che la ragazzina un giorno si ribelli davvero, non solo per l’apparenza o per conformismo.

Nelle classi del Bronx solo un alunno per classe, in media, sa cosa si festeggia in Francia il 14 luglio.

Nella provincia non troviamo facciate cadenti o boulevard identici, ma un’unica strada che fa il paese con case ai due lati, che strenuamente si tengono attaccate le une alle altre una dopo l’altra, come donne coraggiose strette per non lasciar passare; l’effetto però è quello di due muraglie che tolgono aria. Dietro le case sfumano colline che sembrano artificiali e dietro ancora si intravedono, ovunque, fumi di industrie o comignoli abbandonati, bacini di acque scure e alberi senza foglie, e poi una lunga pianura sterposa.

A Condé-sur-l’Escaut ci sono fortificazioni imponenti e dentro un paesello che sorride appena nel sole. Forse sarebbe più sorridente se l’acqua che lo circonda fosse limpida, non la melma compatta, immobile, nella quale tre anatre in fila indiana stanno avanzando a fatica, col povero collo allungato che freme per lo sforzo. O se non avesse il beffroi più piccolo della regione. Ma a noi piace, per questa giornata di viaggio.

Le patatine fritte appaiono sulla tavola ad accompagnamento di qualsiasi cosa, alcune forse ancora fritte nel grasso di maiale o di cavallo, come da tradizione e come, ci dicono, ancora si fa nel vicinissimo Belgio. A tutti paiono così appetitose che nessuno le rifiuta, sia che arrivino insolite stese su una bella omelette, sia che arrivino calzanti insieme alla grande pentola di moules a comporre il tipico piatto del Nord, le moules (et) frites appunto, o insieme ad un altro piatto regionale, la carbonade flamande, uno spezzatino freddo di varie carni; scopriamo che le frites servono proprio a sciogliere la gelatina della carbonade, ma noi non abbiamo avuto bisogno di alcuna giustificazione per mangiare anche stavolta fino all’ultima patatina.

Più che una cultura della birra, qui al Nord c’è un vero culto della birra. Pare strano ad alcuni di noi, soprattutto a quelli che provengono da culture o culti vitivinicoli, vedere al supermercato cofanetti di birre in confezione regalo, o sentire un cameriere consigliare la versione speciale, quella natalizia, della birra che abbiamo ordinato.

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C’è un odore che picchia nel nostro naso ogni giorno in vari luoghi della città, ma soprattutto ad un punto di un boulevard nei pressi della stazione. In effetti, dopo un paio di mesi, ci accorgiamo che si tratta de “l’odore”, l’odore della città e che in quel punto del boulevard è solo più concentrato che altrove. Dopo un lungo dibattito, decidiamo che è essenzialmente odore di cibo invitante misto a un nonsappiamoche di rancido, e siamo sempre tutti tentati dall’annusarlo a fondo, ma ci tratteniamo.

Ad Arras passeggiamo per le due belle piazze, che sembrano così vissute e autentiche e invece sono in gran parte ricostruite. D’altronde non possiamo arrabbiarci, anzi piange il cuore a vedere le fotografie del dopoguerra con le belle facciate tranciate a volte di netto, diagonalmente, oppure del tutto svanite come fantasmi, impresse solo nella memoria dell’aria.

Stiamo esitando di fronte alla vetrina di un pasticcere, quando veniamo invitati alla scelta da uno sconosciuto apparso tanto all’improvviso, sull’onda del suo entusiasmo, che ci spaventiamo. Lo sogguardiamo, ma ha un sorriso bonaccione che smorza anche il peggior sospetto: vuole davvero solo aiutarci a scegliere un dolce. Infatti, ci argomenta che dobbiamo assolutamente provare quel tortino al caramello, perché è tipico del Nord; proviamo a indicargli l’origine della nostra incertezza, ma l’espressione allibita dell’interlocutore ci distoglie dall’intento ancora prima delle sue parole: «Mais non, ça non, c’est belge!». Entriamo per studiare meglio gli altri dolci; usciamo per riguardare il dolcetto belga, ma il signore è ancora là e ci fa un cenno cordiale con la mano, riferendo alla moglie che siamo italiani, e che assolutamente non possiamo non assaggiare il tortino al caramello. Assaggiamo il tortino al caramello.

I bar hanno nomi come La taverne bruxelloise, Le paradis de la bière o Ô Ch’ti heureux, hanno neon rossi o blu attorno alle insegne e alle porte e non hanno alcuna pretesa di eleganza. Pare che abbiano la sola onesta pretesa di essere uguali alle case della gente, alla gente stessa. Preferiamo questi ai pochi locali chic che si contendono la grande piazza centrale e ci han fatto pagare un croque-monsieur 7 €. Alla Taverne bruxelloise, con le sue righine gialle sul plexiglass che circonda le sedie di paglia sfilacciata, con la friggitoria che si intravede dalla porta sempre aperta e col grosso cameriere calvo-barbuto più simile ad un camionista o ad un harleysta duro e puro, il croque-monsieur costa 2 €, è più leggero e nel prezzo è compreso un sorriso sobrio, a noi più gradito di quello complimentoso della Place d’Armes.

Le persone, ci sembra a quasi tutti, hanno scritto in faccia il degrado, sociale, umano. Molti hanno sguardi fissi e si dondolano drammaticamente, ma alcuni di noi dicono che è un’impressione tendenziosa; altri ancora dicono che è un dato di fatto, mentre sono sfiorati da corpi e occhi che sono altrove e annaspano camminando; molte ragazze hanno il trucco pesante che non riesce a coprire lo sguardo appesantito da una disperazione sorda; alla stazione, ma non solo, gli ubriachi sono moltissimi, alcuni sdraiati sulle panchine che sono fatte apposta per farli star scomodi, altri pendenti sul vuoto al limite delle rotaie del tram.

In tutti i parcheggi, immaginiamo per impedire che le auto vengano posteggiate anche fuori dagli appositi spazi, sono piantati enormi massi grigi, che sembrano caduti lì dal cielo come meteoriti di un’apocalisse continua.

Un giorno l’autista dell’autobus intavola l’ormai abituale conversazione, sempre sorprendente e piacevole, sulla nostra origine, su come ci troviamo qui, sul nostro lavoro e persino sulle nostre aspirazioni future. Poco dopo la partenza, destinazione un’altra scuola media in un piccolo comune limitrofo immerso letteralmente nel nulla erboso e sterposo, la radio trasmette notizie dall’Italia: il conducente senza dir nulla alza il volume.

È il momento, all’improvviso. Ce ne andiamo una mattina di sole gelido sgattaiolando via dalla tentazione, che diventa insopportabile, di buttarci in una via qualsiasi: in quella che non abbiamo mai percorso, in quella che forse abbiamo percorso distrattamente, in quell’altra magari in alto non abbiamo ben guardato, e sappiamo che sbuca sempre fuori qualcosa di meraviglioso, a guardare bene angoli e persone.

Sgattaioliamo via anche dallo sguardo interrogativo di questa città, di questa regione.

E ora che è passato tempo e chilometri e pensieri vogliamo rassicurarle: noi non le abbiamo tradite o travisate, noi non siamo stati come i molti altri. Noi invece vogliamo tradurle in empatia da spartire come si spartisce il pane o le frites o le birre d’abbazia, in empatia da mettere in mano a chi non vuole saperne di scoprire città e regione e partirà per andarle a scoprire. Le vogliamo rassicurare, che non sono state la loro faccia colpita, le loro steppe sterpose spazzate dal vento e dai fumi, non sono stati i depressi gli urlanti o i baristi camionisti, a farci andare via. Anzi, anzi il loro insolito ci ha tenuti, il loro insolito ci tiene.

 

APRILE 2012

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[1] «Ah, l’avevo pensato! Anche io, insomma, è mio padre che era italiano!»

[2] Il beffroi è la torre campanaria della città, rigorosamente laica.

[3] L’estaminet è la trattoria tipica del Nord Pas-de-Calais, che propone i piatti e le bevande regionali, solitamente a prezzi ragionevoli; l’ambiente è, di norma, decisamente familiare e accogliente.

[4] «Non posso, ho un cancro al culo».

[5] La regione del Nord Pas-de-Calais è stata devastata dai bombardamenti sia nella Prima che nella Seconda Guerra Mondiale; per avere un’idea della portata dei danni bellici, si pensi che il centro storico della città di Maubeuge venne distrutto per più del 90%. La stessa Valenciennes venne gravemente deturpata nella sua bellezza urbana, già dalle truppe anglo-austriache nel 1793, ma soprattutto in occasione degli scontri della Prima Guerra Mondiale, fra il 1914 e il 1918, e ancor di più nel 1940, quando le truppe tedesche bombardano la città che venne danneggiata da un incendio terrificante.

[6] «Valenciennes che difende le sue fortificazioni».

[7] La regione è celebre per la produzione di pizzi pregiati, la cosiddetta dentelle.

[8] «Ma tesoro [pulce mia, lett.], se hai freddo devi dirmelo, hai diritto al riscaldamento!»

[9] «Me ne frego»