Lavoro - non lavoro
A PARTIRE DALL’ART. 18
Il nuovo mercato del lavoro tra diritto ed economia
Antonello Baldassarre
La riforma del mercato
del lavoro, su cui si discute in questi giorni nel nostro paese[1],
merita una serie di riflessioni. Questo scritto vuole offrirne, in
ordine sparso, alcune: che, sebbene sviluppate fondamentalmente su un
piano normativo, ossia delle tecniche di regolazione giuridica dei
fenomeni sociali, possano, al contempo, tentare di stimolare una
discussione su una duplicità di piani – uno più specifico e legato alle
tematiche gius-lavoristiche e
giussindacali, l’altro più
generale e riguardante i rapporti tra diritto ed economia – prescelti
quali angoli di osservazione dei profondi mutamenti sociali ed
istituzionali, verso i quali le democrazie occidentali sembrano, più o
meno consapevolmente, essersi incamminate, a seguito della crisi
economica e finanziaria del 2008.
1.
«On the labour side, power is collective power».
In questa citazione – che, in una saggio di qualche
anno fa[2],
Lord Wedderburn of Charlton, recentemente scomparso, faceva del suo
maestro Otto Khan Freund[3]
– è sicuramente racchiusa, con potenza immaginifica ed evocativa, la
profonda verità che animò la storia del lavoro organizzato e delle sue
lotte all’indomani delle rivoluzioni industriali, nei due secoli, e in
particolare nell’ultimo, che ci separano da quello presente. Il percorso
è stato intenso e glorioso, ma, ad un tempo, costellato di conquiste
che, nel lungo secolo breve del lavoro, sono durate, ad occhio e croce,
non più di quarant’anni, dalle politiche del New Deal sino alla seconda
metà degli anni Settanta e al duro risveglio dei primi anni Ottanta del
Novecento.
Tuttavia, già oggetto
di approfonditi studi e ricerche, interessate, in un tempo ormai
lontano, a verificare se, dietro il linguaggio di legislatori dalla
vocazione palingenetica[4],
«debbasi riconoscere un contenuto preciso, la formulazione di un
concetto utile per la sistemazione degli istituti, o piuttosto una
locuzione impropria o approssimativa»[5],
la categoria del collettivo
sembra riproporsi all’attenzione dello studioso del
fenomeno sindacale anche in una stagione storica non troppo incline
a favorire, dopo i fasti e le glorie del secolo scorso, una
rivitalizzazione delle strutture e delle istituzioni portanti della c.d.
società pluralistica. Di una società in cui, l’equilibrio tra le sue
principali componenti politiche, economiche, sociali, pur scandito da
compromessi raggiunti all’insegna di valori distinti e talora
contrastanti, rinveniva una fondamentale clausola di garanzia nella
centralità del ruolo riconosciuto agli interessi organizzati e alla
interazione tra gli attori collettivi o, meglio, alle divisioni tra le
forze sociali da questi rappresentate, nella determinazione delle
diverse soluzioni organizzative della società[6].
Da qui, la rappresentazione del soggetto sindacale come «l’agente
primario della conflittualità sociale»[7],
l’attore capace di tradurre «le parole d’ordine perentorie schizzate dal
calderone ribollente della base in progetti capaci di mettere in
subbuglio tutti i sistemi – il politico, l’economico, il socio-culturale
– o, per lo meno, di impedirne la stabilizzazione»[8].
I sindacati, però, in
cui questa storia ha deciso di prendere gran parte della sua sostanza,
non sembrano godere oggi di buona salute. A qualsiasi latitudine, almeno
nel panorama occidentale, in discussione è la stessa legittimazione
degli attori collettivi a rivendicare e far valere il ruolo di
interlocutori degli odierni centri decisionali del potere economico e
politico. Eppure, quando si parla di lavoro, almeno di lavoro
subordinato e delle sue tecniche di regolazione normativa, non è
pensabile, sul piano tanto delle analisi dei fenomeni quanto delle
proposte di riforma del diritto positivo, lasciare indietro la
dimensione collettiva e consentire che la scena sia occupata in
solitudine da quella individuale.
Il legislatore
italiano, annunciando nei mesi scorsi i suoi piani di riforma del
mercato del lavoro, si è sin da subito preoccupato di porre l’accento,
prima ancora che sui contenuti, sul metodo da seguire nell’elaborazione
delle soluzioni normative: da sottrarre ai vecchi riti delle politiche
concertative e dei veti incrociati del passato per affidarle ad un
decisore politico onnisciente e risoluto, vero o addirittura unico
depositario della conoscenza di ciò che farebbe realmente bene al
sistema economico, più bisognoso di flessibilità che di rigidità o
anche, come è stato pure detto, più bisognoso di lavoro che di diritto
del lavoro.
La rottura o,
semplicemente, le forti diffidenze verso le politiche della
concertazione sociale non sono una invenzione italiana: oltre ad avere
una forte ascendenza europea, annoverano anche, tra i propri padri, le
istituzioni internazionali che oggi contano, dal Fondo monetario
internazionale all’Ocse sino alle Banche centrali. Tutti cenacoli,
questi, in cui, a farla da padroni, non sono certo studiosi di diritto
ma tecnici di formazione esclusivamente o prettamente economica e, per
di più, dai percorsi accademici chiaramente unidirezionali, segnati cioè
dagli insegnamenti della Scuola Neoclassica e delle sue varianti oggi in
voga presso la Scuola di Chicago o la London School of Economics.
Interrogarsi sulle
ragioni di successo di queste correnti di pensiero e, quindi, sulle
forti pressioni che sono in grado di esercitare su assemblee legislative
sempre più monocolore, induce certamente a chiedersi se i modelli di
tutela dei diritti del lavoro di un tempo, carenti oggi di sostrato
culturale, non siano venuti a mancare anche della capacità dei loro
patrocinatori – dai sindacati ai partiti di sinistra – di elaborare e
contrapporre, al vento neo-liberista di questi anni, non solo risposte
culturali, ma anche, se non soprattutto, proposte di tipo
economico-produttivo credibili sul piano del reperimento delle risorse
che, inevitabilmente, sono chiamate ad alimentare i diritti e, prima
ancora, i valori a questi sottesi (è, con variazione terminologica,
l’interrogativo latente nei discorsi, spesso ricorrenti, sull’assenza di
quella c.d. “terza via”, che si sarebbe dovuta tracciare nel solco della
rappresentanza o, meglio, della sfida della rappresentanza dei processi
– di profonda metamorfosi – che, negli ultimi decenni, hanno vissuto i
gruppi di interessi e i poteri sociali, sempre più frantumati, che gli
interessi organizzati esprimono: interrogativo frequente, quand’anche,
forse, non è vero che non sono state proposte, in questi anni, terze
vie; volgendo lo sguardo all’ultima tappa della storia delle famiglie
social-democratiche europee, una sicuramente si è fatta avanti – quella
blairiana, segnata dalla
maturazione delle politiche
anti-labour di epoca
thatcheriana – ma è stata, a ragione, respinta; altre terze vie sono
mancate).
Tornando, allora,
all’isolamento che il nostro sindacato ha vissuto in questi anni –
contrassegnati dalle profonde divisioni che hanno lacerato le politiche
delle tre grandi centrali Cgil, Cisl e
Uil sotto i governi di
centro-destra – la vera battaglia mancata, non sostenuta con adeguatezza
di forze o, addirittura, niente affatto intrapresa è stata quella della
rappresentanza dei “nuovi interessi”, così come di interessi non nuovi
ma che, nella nostra esperienza sindacale, sono rimasti sempre ai
margini delle lotte organizzate di lavoro.
Quando fu emanato nel
1970, quale grande conquista di civiltà, lo Statuto dei lavoratori si
presentava come la legge di cittadinanza dei sindacati nei luoghi di
lavoro – legislazione di sostegno dell’autonomia collettiva e delle sue
strutture di rappresentanza, dotate di propri diritti[9]
– ma anche, ad un tempo, come legge di cittadinanza dei singoli che,
prima e al di fuori di ogni circuito di rappresentanza sindacale,
varcavano i cancelli di fabbriche nelle quali alla Costituzione
repubblicana, e alle sue norme sul lavoro, il padronato non aveva mai
consentito l’accesso[10].
Ebbene, delle due leggi di cittadinanza, che avrebbero dovuto marciare
insieme, la prima si è affermata, consentendo al sindacato di crescere
nei suoi apparati organizzativi, l’altra si è fermata o non ha mai
proceduto realmente, lasciando irrisolti nodi che, dalle discriminazioni
di genere alla scarsità di risorse da destinare alle misure di contrasto
degli infortuni sul lavoro, sino ai diffusissimi fenomeni di lavoro
irregolare e di sfruttamento della manodopera immigrata, denotano come,
ancora oggi, pur defunta la società industriale, si preferisce
continuare a parlare del lavoratore-produttore piuttosto che del
lavoratore-cittadino: ossia di chi entra o, meglio, dovrebbe entrare
nella società e nel mondo del lavoro non come accadeva in passato –
quando, chi vi entrava in veste di contadino, operaio, impiegato
riceveva un trattamento normativo corrispondente al proprio
status professionale e questo,
molto spesso, trasmetteva in eredità alla propria discendenza – ma in
qualità di soggetto che, innanzitutto quale persona integrata o da
integrare nell’organizzazione politica, economica e sociale della
Repubblica[11],
è centro di imputazione di diritti indisponibili, costituenti la base
della intelaiatura costituzionale su cui dovrebbe ergersi tanto lo
Stato-apparato quanto lo Stato-comunità.
In che misura tutto ciò
è presente nelle nuove norme sul lavoro, potremo dirlo solo a percorso
legislativo concluso: per il momento, però, una risposta, sicuramente
parziale, potrebbe darcela, accanto alle tendenze di lungo periodo, la
percezione di effetti divisivi che si avvertono se sostituissimo, alle
categorie sociali del passato, le diverse formule contrattuali
attraverso cui i c.d. knowledge
workers intraprendono, e a volte, ormai, terminano pure, i propri
percorsi professionali: percorsi inquadrati e normativamente
disciplinati – sebbene tutti resi in condizioni di subordinazione (dalla
variante forte o giuridica della subordinazione “tecnico-funzionale” a
quella, non meno reale, di tipo “economico-sociale”) – come lavoro
interinale o somministrato, in apprendistato, a termine, occasionale, a
progetto, coordinato e (più o meno) continuativo, e così via.
Certo, tra le proposte
messe in campo, ad emergere è stata senz’altro, quand’anche alla fine
non recepita, quella del cd. contratto unico[12],
trasfusa, nella riforma in itinere, in un tentativo, ma niente di più,
di razionalizzazione nell’uso della miriade di tipologie contrattuali
introdotte, dalla seconda metà degli anni ’90, dal pacchetto Treu[13],
prima, e, dalla legge Biagi[14],
poi. Tentativo di razionalizzazione volto, principalmente, a superare le
attuali dinamiche di segmentazione del mercato del lavoro e consentire
agli outsiders di espugnare la
cittadella fortificata degli
insiders, protetti da tutele elitarie e inaccessibili per i più, in
particolare giovani e donne.
Al di là, però, della
bontà dei propositi e, soprattutto, della correttezza delle analisi
impiegate – su cui non pochi esprimono dubbi, in particolare con
riguardo ai nessi che vi sarebbero, o si vorrebbero così forti, tra
assunzioni e vincoli ai poteri datoriali di recesso (o c.d. flessibilità
in uscita) – il dato che emerge con maggior nitidezza è l’avanzata, a
discapito delle dimensioni istituzionali e collettive, della logica del
contratto o delle soluzioni negoziate, rimesse agli esiti di rapporti di
forza individuali, nel diritto del lavoro asimmetrici e squilibrati per
definizione, soprattutto in contesti di relazioni industriali
caratterizzati da agenti sindacali indeboliti o delegittimati.
E la tematica dei
licenziamenti, con le proposte di riforma dell’art. 18 dello Statuto dei
lavoratori – senz’altro, peculiarità nazionale rispetto al panorama
normativo europeo – rappresenta bene il movimento di un pendolo che, nel
passaggio dalla tutela reale (reintegrazione quale sanzione della
illegittimità del licenziamento) alla tutela obbligatoria (la sanzione
consisterebbe in un mero indennizzo economico di carattere
risarcitorio), induce a riflettere sugli effetti di una possibile
monetizzazione dei valori sinora protetti dalle norme del diritto del
lavoro. E ciò perché, da un lato, il licenziamento si presenta come il
vero luogo della subordinazione e le regole che, anche in funzione di
deterrenza, ne sanzionano l’illegittimità, come norme di chiusura, da
cui dipende l’agibilità di
tutti gli istituti di tutela nel rapporto di lavoro; da un altro lato,
l’assorbimento della tutela reale da parte di quella obbligatoria, sia
pur rinunciando a considerare la prima come effetto costituzionalmente
orientato, finirebbe, con indennizzi e tentativi obbligatori di
conciliazione a farla da padrone, con il non condurre più le parti
davanti al giudice o a condurle in casi sempre più ristretti. Senza
contare, poi, là dove al giudice viene riconosciuto un ruolo di ultima
istanza a presidio della tutela del posto di lavoro, le pressioni
culturali esercitate, ormai da più di un decennio, sulla giurisprudenza
dai teorici di tecniche di interpretazione incentrate sullo «schema
argomentativo orientato alle conseguenze»[15]:
in particolare, su una specificazione dell’«argomento
consequenzialista», ossia su quell’approccio esegetico in cui
l’argomento pragmatico «si riferisce alle conseguenze pratiche mediate
(di secondo grado), esterne al sistema giuridico, che la decisione
ipotizzata presumibilmente produrrebbe nel tessuto sociale». Una delle
espressioni più diffuse di questa figura argomentativa o «la specie più
importante dell’argomentazione orientata alle conseguenze» è la c.d.
analisi economica del diritto: infatti, è proprio la differente
tipologia qualitativa degli
effetti assunti ad oggetto di
valutazione che segna il passaggio da un modo di argomentare interno
al sistema – e riferibile, attraverso l’impiego del tradizionale canone
interpretativo logico-sistematico o del canone teleologico, al
valore
decisionale di conseguenze giuridiche certe – ad uno schema che
invece ragiona su conseguenze empiriche appartenenti alla sfera del
“verosimile”, ossia «recependo ed elaborando informazioni provenienti
dall’ambiente circostante al sistema giuridico circa le possibili o
probabili ripercussioni sociali della decisione»[16].
Il nerbo scoperto, che
allora fuoriesce in tutta la sua problematicità, di quest’ ultima (ma
non solo di essa) riforma del mercato del lavoro non è più,
semplicemente, quello relativo alla mera conservazione del reddito da
lavoro, ma il tema riguardante la più complessiva compatibilità delle
“soluzione negoziate” con l’impianto costituzionale, in cui, prima
ancora che un reddito, è il lavoro, e l’identità della persona che nel
lavoro si costruisce, a rappresentare la base dei diritti di
cittadinanza, ossia di quei diritti[17]
di effettiva ed eguale «partecipazione di tutti i lavoratori alla
organizzazione politica, economica e sociale» della comunità organizzata
in Stato.
2. Il secondo piano di riflessione, qui assunto come
sintesi storico-giuridica dello scenario in cui si collocano le ultime
vicende normative delle nostre politiche del lavoro, investe i rapporti
tra diritto ed economia.
Volendo tracciare un
breve excursus, all’indomani
del manifestarsi delle prime forme di “pluralismo economico”, il
problema che sorge è quello di gruppi di interesse – ormai dotati dei
caratteri di poteri sociali
organizzati – tendenti ad orientarsi verso equilibri che mettono in
pericolo la stessa struttura unitaria degli Stati e, in particolare, di
un’ancora fragile Stato nascente, come il nostro a cavallo tra il
XIX e
il XX secolo: i gruppi economici sono incapaci di equilibrarsi da sé,
nel senso che si equilibrano secondo assetti di interesse incompatibili
con le esigenze di unità dello Stato (al riguardo, l’esperienza del
corporativismo fascista, ossia la soluzione stato-centrica data al
problema, offre un valido insegnamento).
La consapevolezza
culturale, nella storia delle idee giuridiche ed economiche, di questa
“incapacità”, innesca una duplice riflessione: a) intorno al (nuovo)
tipo di rapporto che deve intercorrere tra diritto ed economia, con il
diritto che diviene, da strumento di sottrazione di spazio giuridico,
mezzo positivo di intervento nella sfera degli interessi e delle
finalità dell’agire economico; b) intorno al contenuto della disciplina
sostanziale delle scelte giuridiche in materia economica e, quindi,
intorno alla dimensione qualitativa delle finalità e degli interessi
economici promossi dall’ordinamento giuridico.
Le riflessioni sono,
allora, di metodo e di contenuto e sfociano nella elaborazione del
concetto di “costituzione economica”: intesa come ordine giuridico
dell’economia, che assegna al diritto il compito di “mediare” tra la
realtà economica – ossia le valutazioni normative ad essa sottese e le
finalità perseguite dagli attori economici – e un sistema di “valori
morali” – con il loro bagaglio di intrinseche valutazioni normative –
autonomi rispetto all’economia. Il passaggio, dal piano del metodo a
quello del contenuto, è segnato dalla selezione di questi valori,
attraverso il riconoscimento della garanzia costituzionale ai «valori
universali della persona umana».
Un terzo ordine di
riflessioni, poi, investe, quasi naturalmente – su un piano che è di
metodo e di contenuto allo stesso tempo – il problema della
legittimazione dei
procedimenti giuridico-legislativi diretti a disciplinare i rapporti tra
diritto ed economia. Questi passano, a seguito della crisi del
“positivismo legislativo”, da una concezione di
giustizia della legge, fondata
sulla formale validità di
questa (assicurata dal mero rispetto delle procedure), alla acquisizione
che la legge giusta poggia,
invece, sull’affermazione consapevole di
valori giuridici condivisi e
autonomi rispetto alla sfera di normatività dell’agire economico. I
valori, così, da “meta-legislativi” assumono il carattere specifico del
diritto, cioè di “forza formativa della realtà”. Nel riconoscimento
costituzionale e nella successiva recezione, da parte della legislazione
ordinaria, dell’identificato universo di valori, l’esperienza giuridica,
forte anche di una propria essenza immanente e di un’intima coerenza
logica tra i vari istituti che ne definiscono la trama, va oltre lo
statuto di mera tecnica di “organizzazione sociale”, di adeguamento cioè
del diritto al fatto.
Alla immagine di
distinte sfere, rispettivamente
giuridica ed economica,
che si compenetrano, nelle diverse fasi storiche, in modo variamente
intenso, sino a giungere, ai giorni nostri, a processi di influenza
reciproca – in cui la dimensione economica, grazie a dominanti discorsi
di depoliticizzazione e
conseguente traduzione della sua essenza in
termini scientifici, avrebbe preso il sopravvento su quella del
diritto – ricorre il recente tentativo, da parte di alcuni studiosi del
diritto, di fornire una chiave di lettura giuridica della crisi
economica degli ultimi anni[18].
La sfera dell’economia
non può fare a meno, per funzionare correttamente, di una solida base
istituzionale, che nell’autorità pubblica e nelle leggi realizza la
garanzia di rapporti economici non affidati agli esiti incerti della
regola del più forte, bensì agli “auspici” di un soggetto terzo garante
delle convenzioni, della “parola data”. Da qui, la suggestiva
evocazione, da parte di Alain Supiot, della struttura architettonica di
una antico mercato medioevale come quello di Bruxelles, ricco di
simbologia là dove riproduce la conformazione tridimensionale e non semplicemente
binaria dei
rapporti di scambio, in altre parole i “fondamenti dogmatici” del
mercato: i cui confini, rappresentati non solo dagli edifici che un
tempo ospitavano le sedi delle antiche professioni e del lavoro
organizzato (le corporazioni), ma anche dagli uffici dell’«Autorità
pubblica garante dell’onestà degli scambi (la sede del Municipio)»,
mostrano immediatamente che «il mercato non è la fonte spontanea di
regole universali, ma una particolare costruzione istituzionale, la cui
stabilità dipende direttamente dalla solidità delle sue basi giuridiche
e del ben più vasto insieme istituzionale all’interno del quale si
inscrive»[19].
La devastante crisi
finanziaria ed economica esplosa sul finire del 2008, sarebbe, secondo
questa prospettiva ricostruttiva, l’effetto di un latente processo di
rottura di equilibri giuridici ed istituzionali, innescato da un
costante movimento espansivo della sfera economica e delle sue regole
verso la sfera del diritto, anch’esso, attraverso il radicale
svolgimento di finzioni giuridiche, tramutato in prodotto di scambio
nell’ambito dei c.d. fenomeni di “law
shopping”. La denuncia di autori come Supiot, ad ogni modo, si
rivolge contro la c.d. ideologia del “contrattualismo”, vale a dire
l’altro volto o parvenza giuridica dello “scientismo” in campo
economico: più precisamente, è «l’idea che il legame contrattuale
rappresenterebbe la manifestazione più compiuta del legame sociale e
sarebbe votata a sostituirsi ovunque agli imperativi unilaterali della
legge»[20].
Per un impiego più
specifico della categoria del “contrattualismo”, assunta come chiave di
lettura di un diritto del lavoro sempre più aperto, nel suo tessuto
dogmatico, verso percorsi di “individualizzazione regolativa”, molto
penetranti sono anche le riflessioni di Lorenzo Zoppoli[21],
secondo cui il «contrattualismo tende ad essere il mare entro cui viene
fatto nuotare un rivitalizzato contratto di lavoro», contratto che a sua
volta, «proprio perché veicolato dall’ideologia contrattuali sta», tende
ad essere «acontestualizzato (cioè slegato dallo
status) e ad assumere la pura
e semplice valenza di strumento fondativo del potere di fatto – che deve
essere libero di esprimersi nella dialettica negoziale bilaterale –
perdendo qualunque idoneità a filtrare le logiche di puro mercato».
Non sfugge, ad una
attenta lettura delle pagine di Supiot, la
circolarità di un percorso che è più cose in una: ossia politico,
economico, giuridico e, perché no, filosofico – almeno nella misura in
cui, prima di «divenire una dismal
science, una scienza triste, l’economia è stata intrisa di
riflessioni di natura politica e morale»[22],
con piste di indagine empirica sovente intrecciate con altre di
carattere valutativo.
Un percorso ben
sintetizzato, nelle pagine dedicate alla sua fase iniziale, quella
liberale, da giuristi come
Luigi Mengoni e Tullio Ascarelli, e descritto da Supiot, nella sua
attuale direzione di marcia, attraverso espressioni che evocano un
ritorno al passato. E così, se «il XIX secolo aveva accolto il modello
di un equilibrio economico naturale, frutto del gioco delle forze individuali, nei
cui confronti funzione precipua della legge era quella della garanzia,
quella dell’eliminazione degli ostacoli che la regolamentazione legale
tramandata frapponeva alla realizzazione di questo ordine»[23],
i principi fondamentali della imperante dottrina neoliberale rivendicano
la legittimità scientifica di un mercato come suprema autorità di
regolazione, costruendo, in questo modo, l’utopia di un “mercato
totale”, fondata sulla cieca fede – propria di ogni forma di scientismo
– nella esistenza naturale di immanenti leggi economiche. Quelle stesse
leggi che, «come un re Mida, trasformerebbero in oro qualunque cosa esse
tocchino»[24],
tramutando così in risorse economiche anche le persone. Eppure, questo
indistinto processo di
commodification, di produzione illimitata di risorse, ha un alto
prezzo, che consiste nello scalzare, dalle relazioni di mercato, quel
«soggetto terzo» di cui parla Supiot, ossia il Diritto, garante sì di
finzioni che «autorizzano ad agire come se il lavoro, la terra, la
moneta fossero beni scambiabili» ma, al tempo stesso, garante di un
insopprimibile vincolo di realtà, che ci suggerisce di non «dimenticare
che si tratta, appunto, di finzioni o artifici giuridici, in quanto tali
subordinati ai valori fondanti dell’ordine giuridico» oltre che ai
limiti entro cui è racchiusa la realtà umana e i beni naturali di cui
questa si alimenta: «sì che, trattare gli uomini e la natura come
semplici merci non è soltanto detestabile sul piano morale ma conduce
necessariamente a catastrofi ecologiche e umanitarie di proporzioni
colossali».
APRILE 2012
[1]
Cfr., al momento, il d.d.l. governativo
recante disposizioni in
materia di riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di
crescita
[2]
Labour Law 2008: 40 Years On,
in Industrial Law Journal,
n. 4, 2007
[3]
Labour and the Law, Stevens,
London 1972
[4]
Irene Stolzi, L’ordine
corporativo. Poteri organizzati e organizzazione del potere
nella riflessione giuridica dell’Italia fascista, Giuffré, Milano
2007
[5]
Nicola Jaeger, Contributo alla
determinazione del concetto di “rapporto collettivo”, in
Rivista di diritto
commerciale, 1936, I, pag. 619
[6]
Wolfgang Streeck, Lo studio
degli interessi organizzati: prima e dopo il passaggio del
secolo, in Quaderni di
rassegna sindacale – Lavori, 2006, n. 1, pag. 35 ss.
[7]
Piero Craveri, Sindacato e
istituzioni nel dopoguerra, Il Mulino, Bologna 1977, pag. 5
[8]
Giuseppe Federico Mancini,
Costituzione e movimento operaio, Il Mulino, Bologna 1976, pag. 3
[9]
Titolo III della legge, sotto la rubrica
Dell’attività sindacale
[10]
Prima parte dello Statuto, Titolo I, rubricato
Della libertà e dignità
del lavoratore
[11]
Art. 3 della Costituzione
[12]
Pietro Ichino, Progetto per la
transizione al nuovo sistema di protezione della stabilita’ del
lavoro, il superamento del mercato duale e il contratto di
lavoro a stabilità crescente con l’anzianità di servizio (d.d.l.
n. 1481/2009), in
http://www.pietroichino.it/?p=1079
[13]
L. n. 196/1997
[14]
D. Lgs. n. 276/2003
[15]
Seguito, anche nella manualistica, da autori come Pietro Ichino,
Lezioni di diritto del
lavoro. Un approccio di labour law and economics, Giuffré, Milano
2004
[16]
Luigi Mengoni,
L’argomentazione orientata alle conseguenze, in
Rivista trimestrale di
diritto e procedura civile, 1994, pagg. 1-18
[17]
Vedi ancora l’art. 3 Cost.
[18]
Alain Supiot,
A legal perspective on the
economic crisis of 2008, in
International Labour
Review, 2010, n. 2, pagg. 151-162
[19]
Alain Supiot,
Homo juridicus.
Saggio sulla funzione
antropologica del Diritto,
Bruno Mondadori, Milano 2006, pagg. 119
[20]
Supiot, cit., pag.
109
[21]
Contratto,
contrattualizzazione, contrattualismo: la marcia indietro del
diritto del lavoro, destinato agli
Studi in onore di Tiziano
Treu, p. 8 del dattiloscritto
[22]
Michele Salvati, Prefazione
ad Adam Smith, La ricchezza
delle nazioni, Ed. speciale Corriere della Sera, Milano
2010, p. 6; alcuni spunti in questo senso anche in Riccardo Del Punta,
L’economia e le ragioni
del diritto del lavoro, in
Giornale di diritto del
lavoro e delle relazioni industriali, 2001, n. 1, p. 3 ss.
[23]
Tullio Ascarelli, Ordinamento
giuridico e processo economico, in
Problemi giuridici,
Milano 1959, pag. 43
[24]
Alain
Supiot, A legal
perspective on the economic crisis, pag. 154