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06
Gennaio 2012

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Recensioni

UNA RILETTURA DI LE ARTI NELL’ERA DELLA TECNICA DI MARTIN HEIDEGGER 

Eleonora De Majo

Trascrizione di un intervento seminariale

 

Premessa

L'imponente presenza con cui Martin Heidegger ha solcato il campo dell'ontologia occidentale, e con cui ancora oggi impone un confronto onesto e mai pregiudiziale, non è certamente di facile sinterizzazione; questo non soltanto a causa dell'immensa produzione che ha caratterizzato la sua feconda attività filosofica ed accademica , nel periodo che si apre tra il 1913 e la metà degli anni ‘70, ma anche e soprattutto per la complessità di alcune delle questioni ermeneutiche che coinvolgono buona parte dei suoi scritti e di cui qui possiamo dare solo un quadro comprensivo e generalissimo.

Quello a cui siamo invece profondamente interessati è un ambito circoscritto del pensiero heideggeriano, che è quello che concerne la complessa questione della "tecnica", facendo particolare attenzione al discorso concernente la "tecnica moderna", che egli stesso distingue ontologicamente categoricamente dalla technè in un'accezione puramente classica.

Il motivo per cui riteniamo essenziale sciogliere alcuni dei nodi fondamentali del discorso heideggeriano sulla tecnica, è semplicemente legato alla consapevolezza dell'assorbimento generalizzato del mondo odierno sotto l'inquietante manto della tecnica stessa, e della sua declinazione specificamente tecnologica, e dunque legato alla stessa consapevolezza della modificazione fondamentale dell'impianto gnoseologico, morale e teoretico conseguente l'avvento totalizzante della tecnica, di cui Heidegger aveva certamente colto alcuni dei tratti salienti.

 

Il testo a cui faremo maggiormente riferimento, perché riteniamo che esso rappresenti la trattazione più completa e ontologicamente fondata circa il problema della tecnica, è il primo saggio, tratto da un discorso letto il 18 Novembre del 1953 a Monaco in occasione di un ciclo seminariale chiamato Le arti nell'età della tecnica, e poi inserito nella raccolta: Saggi e discorsi pubblicata nel 1954. Il saggio è intitolato appunto La questione della tecnica.

La datazione di questa raccolta è essenziale al fine di indagare il contesto che circondava Heidegger negli anni '50, che è quello in cui esplodeva la grande polemica intorno al cosiddetto secondo Heidegger, intorno, per dirla con parole diverse, alla celebre tesi della “svolta”: una sorta di capovolgimento della prospettiva speculativa che sarebbe emerso compiutamente nello scritto Lettera sull'Umanismo e ancor prima nella pubblicazione degli scritti inediti degli anni Trenta. Il nodo essenziale di questo capovolgimento, starebbe in effetti nel passaggio più o meno inspiegabile da una prospettiva esistenzialista e antropologica, che fa riferimento all'Analitica esistenziale di Sein und Zeit, ad un piano antiumanistico, in cui il discorso sull'essere scavalcherebbe completamente quello sull'esistenza temporale dell'esser-CI. È quello che si emblematizza nella pagina della Lettera in cui Heidegger critica l'affermazione Sartriana: «Nous sommes sur un plan où il y a seulement des hommes» e la sostituisce con quella che sostiene che «Nous sommes sur un plan où il  y a principalement l'Etre». Le due scuole interpretative che si confrontano intorno a questa annosa questione sostengono dunque  due differenti posizioni che sono quella della rottura/svolta tra Sein und Zeit e le opere successive, e quella della continuità tra tutto il complesso eterogeneo delle opere di Heidegger. La prima posizione dunque considera l'analitica esistenziale come punto di compimento dell’“esistenzialismo” heideggeriano, e considera l'esser-Ci esistente caratterizzato semplicemente da una costante lotta di appropriazione di significato nel mondo, pur nella consapevolezza della disperazione data dalla finitezza e dall'esser-per-la-morte che definisce l'esistenza stessa. Da questa prospettiva il capovolgimento del punto di vista speculativo appare una inversione di rotta, dovuta probabilmente all'accettazione del destino collettivo del popolo tedesco, impersonato dal Fuhrer, e dunque l'abbandono al destino dell'essere sarebbe la trascrizione filosofica dell'entusiasmo nazista che Heidegger manifestò negli anni Trenta, e particolarmente documentato nel discorso di insediamento al Rettorato dell'Università di Friburgo, nel '33: Autoaffermazione dell'Università Tedesca.

 La seconda posizione invece considera la funzione preparatoria di Sein und Zeit, preparatoria alla successiva meditazione heideggeriana sul problema della metafisica come “storia” o “destino” dell'essere, storia caratterizzata dall'oblio di questo stesso essere nella storia della metafisica, oblio affatto dovuto ad errori speculativi dei pensatori precedenti ad Heidegger , ma piuttosto dovuto al destino necessario dell'essere stesso.

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La questione della tecnica

La filosofia classica è abituata a mettere in discussione le cose mediante l’applicazione costante del ti esti, a cui fa seguire il dispiegamento di una risposta complessa a questo preliminare quesito.

Dunque, che cos’è la tecnica?

Tradizionalmente a questa domanda si propongono due risposte, che sono poi connesse tra loro. La prima è che la tecnica sia un mezzo in vista di fini, e la seconda è che essa sia un’attività dell’uomo.

«Queste due definizioni della tecnica sono connesse. Proporsi degli scopi e apprestare e usare i mezzi in vista di essi, infatti, è un'attività dell'uomo. All'essenza della tecnica appartiene l'apprestare e usare mezzi, apparecchi e macchine, e vi appartengono anche questi apparati e strumenti stessi, come pure i bisogni e i fini a cui essi servono. La totalità di questi dispositivi è la tecnica. Essa stessa è un dispositivo, o in latino, un instrumentum».

(M. Heidegger, Saggi e discorsi- La questione della tecnica)

Definire tuttavia la tecnica come instrumentum, non ci mostra certo la sua essenza, e comprendere l’essenza della tecnica è fondamentale al fine di mettere in piedi un ragionamento sul suo impiego nell’età contemporanea.

La domanda che deve seguire dunque all’affermazione della strumentalità della tecnica deve essere quella circa l’essenza della strumentalità. Analizzare la strumentalità sulla base della teoria dello strumento/mezzo generatore di effetti, e dunque direttamente connesso alla causalità in se stessa generalmente intesa dalla metafisica, è essenzialmente un modo per restare nell’oblio imposto dalla metafisica stessa.

Il concetto di causa quadripartita in formale, materiale, efficiente e finale coniato dai greci e male interpretato dai metafisici occidentali, non può ricondursi alla sfera del fare/operare come tradizionalmente inteso dalla metafisica post-aristotelica, bensì esso deve tornare all’originario significato di αιτιον, e cioè di "ciò che è responsabile di qualcos'altro". Le quattro cause, così brutalmente separate dalla tradizione metafisica, non sono altro che modi connessi dell'esser responsabile. Questi modi , che nello specifico definiamo come υλή (materia), ειδος (forma), τελος (fine ultimo che definisce la cosa) e in ultima istanza come il modo proprio della causa efficiente , che subentra in seguito alla considerazione delle prime tre modalità dell'esser-responsabile tramite l'attività riflessiva, propria del λογος , e che determina compiutamente l'αποφαινεσθαι ( il far apparire) della cosa stessa.

È evidente che qui l'esser-responsabile non è affatto pensato in senso morale, ma ha il carattere essenziale del disvelamento dell'oggetto, che appare questo e non un altro, presente e disponibile in quanto presente. Il far avvenire, il passaggio dall'assenza alla presenza è ciò che si definisce, sulla base delle parole pronunciate dello stesso Platone nel Simposio, produzione. Platone infatti scrive" Ogni far avvenire di ciò che - qualunque cosa sia - dalla non presenza passa e si avanza alla presenza è ποιεσις, produzione"(Platone-Simposio).

Chiaramente, così intesa, la produzione non ha solo ha che fare con la produzione artigianale, poiché è in effetti tutto l'esistente, naturale e artificiale, a passare dinamicamente e costantemente dall'assenza alla presenza. Ebbene, conclude Heidegger, se è vero che la produzione è in effetti questo passaggio, questo disvelamento, questa presenza dinamica di enti nascosti e portati alla luce, allora tutto questo ha molto a che fare con quello che egli ritiene essere il significato originario del termine verità come αλήθεια, il non-nascosto appunto.

Riprendiamo dunque le fila di questo complesso e a tratti oscuro iter, che dalla definizione essenziale della tecnica ci ha portato alla definizione stessa dell' αλήθεια , tramite l'individuazione della tecnica come instrumentum che nella sua essenza, quella appunto della strumentalità è direttamente connessa alla causalità, al disvelamento dell'oggetto tramite i quattro modi dell'esser-responsabile, e dunque al passaggio dell'oggetto dall'assenza alla presenza.

Il collimare perfetto della tecnica con la sfera essenziale del ποιεσις, attiene, nella semplicità del meccanismo, probabilmente solo alla tecnica artigianale tradizionalmente intesa e non a quella moderna. Scrive Heidegger «Il disvelamento che governa la tecnica moderna, tuttavia, non si dispiega in un produrre nel senso del ποιεσις. Il disvelamento che vige nella tecnica moderna è provocazione la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia che possa come tale essere estratta e accumulata». È questo probabilmente il passaggio che rende questo testo, e la prospettiva heideggeriana sulla tecnica moderna, tanto interessante ai nostri occhi.

Nel gioco produttivo messo in campo dalla tecnica moderna, la natura diventa fonte di energia da accumulare, differentemente dalla tecnica artigianale che semplicemente impiega la forza della natura, ma non l'accumula.

L'accumulo è dunque la cifra specifica della tecnica moderna. L'atto del richiedere alla natura è un atto pro-vocante, e pro-muovente in un senso duplice: «Esso promuove in quanto apre e mette fuori. Questo promuovere tuttavia, rimane fin da principio orientato a promuovere, cioè a spingere avanti, qualcosa di altro verso la massima utilizzazione e il minimo costo». Quello che avviene è molto banalmente che gli elementi della natura vengono incorporati nella produzione (ad esempio il fiume nella centrale idroelettrica).

L'energia naturale viene disvelata, trasformata, immagazzinata, ripartita e dunque diviene oggetto di trasformazioni, che sono niente altro che modi del disvelamento.

Il materiale impiegato viene definito da Heidegger come "fondo". Attribuire al reale trasformato questo termine significa porre uno scarto anche dalla semplicistica categorizzazione di questo come oggetto, liberamente gestibile e manipolabile dal soggetto umano imperante.

Il fatto che la tecnica moderna necessiti e metta in piedi costantemente questo impiego del reale come "fondo" è chiaramente opera dell'uomo. Eppure noi possiamo senza dubbio sostenere la presenza dell'uomo stesso in questa o in un'altra specifica manifestazione, ma diventa più complicato ricondurre all'uomo determinato e alla sua finitezza il meccanismo impiegante del disvelamento. In un certo qual modo, e oggigiorno molto più che negli anni della redazione del saggio in questione, l'uomo diventa parte del "fondo" stesso,per servire impersonalmente un meccanismo senza soggetto. Tuttavia l'uomo non può neanche essere abbassato completamente alla stregua del puro e semplice "fondo" poiché senza la sua presenza nel mondo, la domanda originaria non sarebbe neppure stata formulata. Ecco quindi l'ambiguità profonda della sua posizione, responsabile primo di un meccanismo di cui non conosce il funzionamento.

Ciò che spinge l'uomo all'utilizzo del reale come "fondo" è la Ge-stell (letteralmente lo scaffale, lo scheletro) che è la struttura che regge, che chiameremo imposizione. L'imposizione è definita da Heidegger come «La riunione di quel ri-chiedere che richiede, cioè provoca l'uomo a disvelare il reale, nel modo dell'impiego... Im-posizione si chiama il modo di disvelamento che vige nell'essenza della tecnica moderna senza essere esso stesso qualcosa di tecnico».

Tale imposizione risulta, secondo Heidegger, evidentissima nell’evoluzione della scienza moderna, storicamente precedente all’evoluzione della tecnica moderna, eppure impregnata della necessità di rendere l’esistente calcolabile e dunque passibile di ogni forma di controllo. Pensando in senso storico, l’avvento della scienza moderna è certamente precedente all’avvento totalizzante della società delle macchine eppure essa si presenta come pre-annuncio dell’imposizione della tecnica moderna di utilizzare la natura e il reale tutto come “fondo”, sia come centro di informazioni (fisica sperimentale) sia come mero oggetto di indagine (fisica moderna). Dunque l’essenza originaria della tecnica è presente precedentemente al suo stesso avvento, il che dimostra l’inadeguatezza del pensare in senso storico e dimostra inoltre che non è la tecnica moderna ad esser una applicazione delle scienze esatte, ma queste ultime a dipendere inscindibilmente dall’essenza della tecnica moderna.

L’essenza della storia non è dunque il suo progredire, ma il suo invio destinale, e tale invio è il suo stesso ποιεσις. Appartenere a un destino significa essere un ascoltante e non più un servo :«È l'accadere del disvelamento, ossia della verità, ciò con cui la libertà ha la parentela più stretta e più profonda».

La dimensione dell'ascolto è quella con cui Heidegger definisce la condizione essenziale della libertà umana, mantenendosi su un terreno ambiguo e pericolosissimo, dal momento che tale dimensione è forse quella che mette maggiormente in evidenza la passività di un individuo non parlante o replicante ma semplicemente posto in un silenzio meditativo affatto agente.

Di questo destino fa parte anche il dominio della tecnica per cui nei suoi confronti non si deve avere alcun atteggiamento giudicante, né di entusiastica esaltazione, né di sprezzante rifiuto. Il destino con il suo percorso disvelante mette l'uomo dinanzi all'apertura costante della possibilità disvelata, e tra queste possibilità si rintana il pericolo. Il vero pericolo del destino della nostra epoca è che ciò che si disvela, e dunque l'uomo stesso rischia costantemente di diventare materiale da accumulo e quindi "fondo". Il paradosso è che: «Proprio quando è sotto questa minaccia l'uomo si veste orgogliosamente della figura di signore della terra. Così si viene diffondendo l'apparenza che tutto ciò che si incontra sussista solo in quanto è un prodotto dell'uomo. Questa apparenza fa maturare un'ultima ingannevole illusione. È l'illusione per la quale sembra che l'uomo, dovunque, non incontri più altri che sé stesso».

L'impiegare della tecnica è tanto totalizzante da non porre l'uomo soltanto in dissintonia con se stesso, ma pure da inibire ogni altra espressione del disvelamento stesso. La tecnica e la sua imposizione accumulante impregna tutto l'esistente impedendo ogni forma di originarietà.

La singolarità dell'atteggiamento di Heidegger si esprime pienamente nella citazione dei versi dell'amato poeta Holderlin: «Là dove c'è il pericolo, cresce anche ciò che salva», e ciò che salva sta nel cogliere l'essenza della tecnica e nel non restare semplicemente affascinati dalle cose tecniche e dalla stessa strumentalità, che pensata in quanto tale costringe a restare sempre legati alla volontà di dominare l'esistente.

L'essenza della tecnica è ambigua, poiché da un lato la sua l'imposizione pro-voca a impegnarsi nel furioso movimento dell'impiegare, che impedisce ogni visione dell'evento del disvelare e in tal modo minaccia nel suo fondamento stesso il rapporto con l'essenza della verità.

D'altro lato, l'im-posizione accade da parte sua in quel concedere il quale fa sì che l'uomo - finora senza rendersene conto, ma forse in modo più consapevole in futuro - duri nel suo essere l'adoperato-salavaguardato per la custodia dell'essenza della verità. Così appare l'aurora di ciò che salva.

Ciò che salva sta dunque in una essenza che non ha nulla di tecnico, ma attiene ad un ambito che da un lato è affine alla tecnica e dall'altro ne è fondamentalmente distinto:

«Tale ambito è l'arte. S'intende solo quando la meditazione dell'artista dal canto suo, non si chiude davanti alla costellazione della verità riguardo alla quale noi poniamo la nostra domanda.

Così domandando, noi attestiamo lo stato di difficoltà per cui, con tutta la nostra tecnica, non sappiamo ancora cogliere ciò che costituisce l'essere della tecnica, con tutta la nostra estetica non custodiamo più ciò che costituisce l'essere dell'arte. Tuttavia, quanto più interrogativamente consideriamo l'essenza della tecnica, tanto più misteriosa diventa l'essenza dell'arte. Quanto più ci avviciniamo al pericolo, tanto più chiaramente cominciano ad illuminarsi le vie verso ciò che salva, e tanto più noi domandiamo.

Perché domandare è la pietà del pensiero».

Sono queste le parole con cui Heidegger chiude il complesso percorso speculativo del saggio sulla tecnica, suggerendo in maniera velata un ritorno essenziale all'origine della τηχνη, non solo come produzione artigianale ma pure come tutto quanto attiene alle belle arti. Perché ci sia questo ritorno non bisogna rifiutare la dimensione totalizzante della tecnica ma bisogna penetrarla in modo essenziale.

Questa posizione, di almeno apparente accettazione della tecnicizzazione della società, è quella che ha suscitato la seconda polemica politica intorno alla figura heideggeriana, accusata di mettere in piedi una seconda entusiastica accettazione del sistema di potere, non più quello nazionalsocialista, ma quello della nascente società dei consumi tardo-capitalista.

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Conclusioni e riflessioni

Lo spunto conclusivo del saggio heideggeriano invita a nostro avviso all'apertura di una istanza interessante, che una parte della filosofia critica contemporanea ha tematizzato alla luce della declinazione ultima della tecnica e del suo risvolto tecnologico.

Partendo infatti dalla prospettiva realistica circa l'impossibilità di rifiutare in toto l'impianto della stessa tecnica, facendosi promotori di una regressio francamente inattuabile, sarebbe invece da immaginare la possibilità di inventare pratiche di singolarità e di individuazione, entro l'orizzonte disumanizzante aperto dallo strapotere delle tecnologie di controllo, dalle forme di comunicazione di massa, e da quelle produttrici di servizi.

Accogliere il suggerimento heideggeriano di un ritorno ad un’accezione originaria della τηχνη, probabilmente senza condividerne l'ambiguità delle premesse, può essere uno spunto di analisi che cerchi una giustificazione filosofica all'ambizione di spiritualizzare le produzioni umane odierne, tutte al servizio diretto o indiretto della tecnica e dei suoi personali o impersonali burattinai.

Ancor più necessaria e radicale risulta essere la proposta di un ripensamento della scissione tra tecne ed episteme, in un'ottica pre-platonica, di sintetizzazione di entrambe nel campo del sapere in generale, a cui attengono parimenti tutte le forme di produzione umana, poietiche e teoretiche.

Questo ritorno ad un sapere indifferenziato appare necessario alla luce della specializzazione tecnicistica e monca che impone la società iperindustriale nella declinazione ultima delle forma di accumulazione che non sono più solo materiali, ma pure e soprattutto immateriali.

Tramite queste produzioni immateriali si regge solidamente il meccanismo totalizzante del consenso, dell'adesione, della canalizzazione della libido, della pauperizzazione degli affetti. Le produzioni immateriali sono in grande parte attuate dallo strumento tecnico e tecnologico, che si è ineluttabilmente appropriato dei tempi di coscienza, delle forme linguistiche e relazionali, della costruzione di identità non più solo virtuali (basti pensare a facebook), di tutte le espressioni dell'umano che solevano mantenere una eccedenza sempre impiegabile in forme più o meno controllata di insorgenza.

Per cui oggi, nel tempo in cui la televisione, (che Deleuze alla fine della sua vita definì come il più terribile dei mali dell'umanità), ha mostrato la sua inoffensività, messa a paragone con tutto quanto è stato messo in campo dalle tecnologie di controllo telematico e dei servizi, è necessario confrontarsi in maniera onesta e non tecnica con la tecnica, senza accettarne in termini heideggeriani l’elemento di destino che le fa assumere questo tratto e non un altro che rischia di trasformarsi in una cieca accettazione del suo presentarsi ora in questa forma specifica. Molto più interessante risulta il confronto con quello che alcuni critici hanno definito l’”ecologismo” dell’ultimo pensiero heideggeriano, che mostra oggi tutta la sua lungimiranza, nell’era della rifunzionalizzazione del Capitalismo sulla base di uno sfruttamento sistematico e costante degli elementi primi della natura, quelli che i presocratici chiamavano αρχαι, e che invece oggi sono diventati “fondo” da impiegare per un accumulo che serve l’industria del futile e del desiderio.

Se e quanto di questo “fondo” faccia oramai parte anche l’uomo resta ambiguo nelle pagine heideggeriane, poiché, come già detto, in effetti l’impiego della forza umana all’interno del ciclo progressivo della tecnica non assume oggi alcun protagonismo soggettivo, anzi ne evidenzia l’estrema debolezza ed impersonalità, se messa a paragone con la potenza computazionale della macchina. È vero pure che però l’uomo resta artefice remoto di un meccanismo di cui è egli stesso divenuto ingranaggio, che è l’esistenza umana e la deviazione dei suoi stessi bisogni che ha portato l’uomo verso la deriva di cui in parte ci dice Heidegger e che è quella deriva con cui il pensiero deve fare i conti, non pensando in modo tecnico certamente ma comprendendo definitivamente che lingua parla il mondo dopo l’avvento delle tecnologie di controllo nella forma del Social network, della democratizzazione dell’accesso alle informazioni, del ruolo inedito e non ancora subalterno della televisione e delle sue declinazioni telecratiche.

 

OTTOBRE 2011

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