Recensioni
Eleonora De Majo
Trascrizione di un intervento
seminariale
L'imponente presenza con cui Martin
Heidegger ha solcato il campo dell'ontologia occidentale, e con cui
ancora oggi impone un confronto onesto e mai pregiudiziale, non è
certamente di facile sinterizzazione; questo non soltanto a causa
dell'immensa produzione che ha caratterizzato la sua feconda attività
filosofica ed accademica , nel periodo che si apre tra il 1913 e la metà
degli anni ‘70, ma anche e soprattutto per la complessità di alcune
delle questioni ermeneutiche che coinvolgono buona parte dei suoi
scritti e di cui qui possiamo dare solo un quadro comprensivo e
generalissimo.
Quello a cui siamo invece profondamente
interessati è un ambito circoscritto del pensiero heideggeriano, che è
quello che concerne la complessa questione della "tecnica", facendo
particolare attenzione al discorso concernente la "tecnica moderna", che
egli stesso distingue ontologicamente categoricamente dalla
technè in un'accezione
puramente classica.
Il motivo per cui riteniamo essenziale
sciogliere alcuni dei nodi fondamentali del discorso heideggeriano sulla
tecnica, è semplicemente legato alla consapevolezza dell'assorbimento
generalizzato del mondo odierno sotto l'inquietante manto della tecnica
stessa, e della sua declinazione specificamente tecnologica, e dunque
legato alla stessa consapevolezza della modificazione fondamentale
dell'impianto gnoseologico, morale e teoretico conseguente l'avvento
totalizzante della tecnica, di cui Heidegger aveva certamente colto
alcuni dei tratti salienti.
Il testo a cui faremo maggiormente
riferimento, perché riteniamo che esso rappresenti la trattazione più
completa e ontologicamente fondata circa il problema della tecnica, è il
primo saggio, tratto da un discorso letto il 18 Novembre del 1953 a
Monaco in occasione di un ciclo seminariale chiamato
Le arti nell'età della tecnica,
e poi inserito nella raccolta:
Saggi e discorsi pubblicata nel 1954. Il saggio è intitolato appunto
La questione della tecnica.
La datazione di questa raccolta è
essenziale al fine di indagare il contesto che circondava Heidegger
negli anni '50, che è quello in cui esplodeva la grande polemica
intorno al cosiddetto secondo
Heidegger, intorno, per dirla con parole diverse, alla celebre tesi
della “svolta”: una sorta di capovolgimento della prospettiva
speculativa che sarebbe emerso compiutamente nello scritto
Lettera sull'Umanismo e ancor
prima nella pubblicazione degli scritti inediti degli anni Trenta. Il
nodo essenziale di questo capovolgimento, starebbe in effetti nel
passaggio più o meno inspiegabile da una prospettiva esistenzialista e
antropologica, che fa riferimento all'Analitica esistenziale di
Sein und Zeit, ad un piano
antiumanistico, in cui il discorso sull'essere scavalcherebbe
completamente quello sull'esistenza temporale dell'esser-CI. È quello
che si emblematizza nella pagina della Lettera in cui Heidegger critica
l'affermazione Sartriana: «Nous sommes sur un plan où il y a seulement
des hommes» e la sostituisce con quella che sostiene che «Nous sommes
sur un plan où il y a
principalement l'Etre». Le due scuole interpretative che si confrontano
intorno a questa annosa questione sostengono dunque
due differenti posizioni che sono quella della rottura/svolta tra
Sein und
Zeit e le opere successive, e
quella della continuità tra tutto il complesso eterogeneo delle opere di
Heidegger. La prima posizione dunque considera l'analitica esistenziale
come punto di compimento dell’“esistenzialismo” heideggeriano, e
considera l'esser-Ci esistente caratterizzato semplicemente da una
costante lotta di appropriazione di significato nel mondo, pur nella
consapevolezza della disperazione data dalla finitezza e
dall'esser-per-la-morte che definisce l'esistenza stessa. Da questa
prospettiva il capovolgimento del punto di vista speculativo appare una
inversione di rotta, dovuta probabilmente all'accettazione del destino
collettivo del popolo tedesco, impersonato dal Fuhrer, e dunque
l'abbandono al destino dell'essere sarebbe la trascrizione filosofica
dell'entusiasmo nazista che Heidegger manifestò negli anni Trenta, e
particolarmente documentato nel discorso di insediamento al Rettorato
dell'Università di Friburgo, nel '33:
Autoaffermazione dell'Università
Tedesca.
La
seconda posizione invece considera la funzione preparatoria di
Sein und
Zeit, preparatoria alla
successiva meditazione heideggeriana sul problema della metafisica come
“storia” o “destino” dell'essere, storia caratterizzata dall'oblio di
questo stesso essere nella storia della metafisica, oblio affatto dovuto
ad errori speculativi dei pensatori precedenti ad Heidegger , ma
piuttosto dovuto al destino necessario dell'essere stesso.
La questione della tecnica
La filosofia classica è abituata a
mettere in discussione le cose mediante l’applicazione costante del
ti esti, a cui fa seguire il
dispiegamento di una risposta complessa a questo preliminare quesito.
Dunque, che cos’è la tecnica?
Tradizionalmente a questa domanda si
propongono due risposte, che sono poi connesse tra loro. La prima è che
la tecnica sia un mezzo in vista di fini, e la seconda è che essa sia
un’attività dell’uomo.
«Queste due definizioni della tecnica
sono connesse. Proporsi degli scopi e apprestare e usare i mezzi in
vista di essi, infatti, è un'attività dell'uomo. All'essenza della
tecnica appartiene l'apprestare e usare mezzi, apparecchi e macchine, e
vi appartengono anche questi apparati e strumenti stessi, come pure i
bisogni e i fini a cui essi servono. La totalità di questi dispositivi è
la tecnica. Essa stessa è un dispositivo, o in latino, un instrumentum».
(M. Heidegger,
Saggi e discorsi- La questione
della tecnica)
Definire tuttavia la tecnica come
instrumentum, non ci mostra certo la sua essenza, e comprendere
l’essenza della tecnica è fondamentale al fine di mettere in piedi un
ragionamento sul suo impiego nell’età contemporanea.
La domanda che deve seguire dunque
all’affermazione della strumentalità della tecnica deve essere quella
circa l’essenza della strumentalità. Analizzare la strumentalità sulla
base della teoria dello strumento/mezzo generatore di effetti, e dunque
direttamente connesso alla causalità in se stessa generalmente intesa
dalla metafisica, è essenzialmente un modo per restare nell’oblio
imposto dalla metafisica stessa.
Il concetto di causa quadripartita in
formale, materiale, efficiente e finale coniato dai greci e male
interpretato dai metafisici occidentali, non può ricondursi alla sfera
del fare/operare come tradizionalmente inteso dalla metafisica
post-aristotelica, bensì esso deve tornare all’originario significato di
αιτιον, e cioè di "ciò che è responsabile di qualcos'altro". Le quattro
cause, così brutalmente separate dalla tradizione metafisica, non sono
altro che modi connessi dell'esser responsabile. Questi modi , che nello
specifico definiamo come υλή (materia), ειδος (forma), τελος (fine
ultimo che definisce la cosa) e in ultima istanza come il modo proprio
della causa efficiente , che subentra in seguito alla considerazione
delle prime tre modalità dell'esser-responsabile tramite l'attività
riflessiva, propria del λογος , e che determina compiutamente
l'αποφαινεσθαι ( il far apparire) della cosa stessa.
È evidente che qui l'esser-responsabile
non è affatto pensato in senso morale, ma ha il carattere essenziale del
disvelamento dell'oggetto, che appare questo e non un altro, presente e
disponibile in quanto presente. Il far avvenire, il passaggio
dall'assenza alla presenza è ciò che si definisce, sulla base delle
parole pronunciate dello stesso Platone nel Simposio, produzione.
Platone infatti scrive" Ogni far
avvenire di ciò che - qualunque cosa sia - dalla non presenza passa e si
avanza alla presenza è ποιεσις, produzione"(Platone-Simposio).
Chiaramente, così intesa, la produzione
non ha solo ha che fare con la produzione artigianale, poiché è in
effetti tutto l'esistente, naturale e artificiale, a passare
dinamicamente e costantemente dall'assenza alla presenza. Ebbene,
conclude Heidegger, se è vero che la produzione è in effetti questo
passaggio, questo disvelamento, questa presenza dinamica di enti
nascosti e portati alla luce, allora tutto questo ha molto a che fare
con quello che egli ritiene essere il significato originario del termine
verità come αλήθεια, il non-nascosto appunto.
Riprendiamo dunque le fila di questo
complesso e a tratti oscuro iter, che dalla definizione essenziale della
tecnica ci ha portato alla definizione stessa dell' αλήθεια , tramite
l'individuazione della tecnica come instrumentum che nella sua essenza,
quella appunto della strumentalità è direttamente connessa alla
causalità, al disvelamento dell'oggetto tramite i quattro modi
dell'esser-responsabile, e dunque al passaggio dell'oggetto dall'assenza
alla presenza.
Il collimare perfetto della tecnica con
la sfera essenziale del ποιεσις, attiene, nella semplicità del
meccanismo, probabilmente solo alla tecnica artigianale tradizionalmente
intesa e non a quella moderna. Scrive Heidegger «Il disvelamento che
governa la tecnica moderna, tuttavia, non si dispiega in un produrre nel
senso del ποιεσις. Il disvelamento che vige nella tecnica moderna è
provocazione la quale pretende dalla natura che essa fornisca energia
che possa come tale essere estratta e accumulata». È questo
probabilmente il passaggio che rende questo testo, e la prospettiva
heideggeriana sulla tecnica moderna, tanto interessante ai nostri occhi.
Nel gioco produttivo messo in campo
dalla tecnica moderna, la natura diventa fonte di energia da accumulare,
differentemente dalla tecnica artigianale che semplicemente impiega la
forza della natura, ma non l'accumula.
L'accumulo è dunque la cifra specifica
della tecnica moderna. L'atto del richiedere alla natura è un atto
pro-vocante, e pro-muovente in un senso duplice: «Esso promuove in
quanto apre e mette fuori. Questo promuovere tuttavia, rimane fin da
principio orientato a promuovere, cioè a spingere avanti, qualcosa di
altro verso la massima utilizzazione e il minimo costo». Quello che
avviene è molto banalmente che gli elementi della natura vengono
incorporati nella produzione (ad esempio il fiume nella centrale
idroelettrica).
L'energia naturale viene disvelata,
trasformata, immagazzinata, ripartita e dunque diviene oggetto di
trasformazioni, che sono niente altro che modi del disvelamento.
Il materiale impiegato viene definito da
Heidegger come "fondo". Attribuire al reale trasformato questo termine
significa porre uno scarto anche dalla semplicistica categorizzazione di
questo come oggetto, liberamente gestibile e manipolabile dal soggetto
umano imperante.
Il fatto che la tecnica moderna
necessiti e metta in piedi costantemente questo impiego del reale come
"fondo" è chiaramente opera dell'uomo. Eppure noi possiamo senza dubbio
sostenere la presenza dell'uomo stesso in questa o in un'altra specifica
manifestazione, ma diventa più complicato ricondurre all'uomo
determinato e alla sua finitezza il meccanismo impiegante del
disvelamento. In un certo qual modo, e oggigiorno molto più che negli
anni della redazione del saggio in questione, l'uomo diventa parte del
"fondo" stesso,per servire impersonalmente un meccanismo senza soggetto.
Tuttavia l'uomo non può neanche essere abbassato completamente alla
stregua del puro e semplice "fondo" poiché senza la sua presenza nel
mondo, la domanda originaria non sarebbe neppure stata formulata. Ecco
quindi l'ambiguità profonda della sua posizione, responsabile primo di
un meccanismo di cui non conosce il funzionamento.
Ciò che spinge l'uomo all'utilizzo del
reale come "fondo" è la Ge-stell (letteralmente lo scaffale, lo
scheletro) che è la struttura che regge, che chiameremo imposizione.
L'imposizione è definita da Heidegger come «La riunione di quel
ri-chiedere che richiede, cioè provoca l'uomo a disvelare il reale, nel
modo dell'impiego... Im-posizione si chiama il modo di disvelamento che
vige nell'essenza della tecnica moderna senza essere esso stesso
qualcosa di tecnico».
Tale imposizione risulta, secondo
Heidegger, evidentissima nell’evoluzione della scienza moderna,
storicamente precedente all’evoluzione della tecnica moderna, eppure
impregnata della necessità di rendere l’esistente calcolabile e dunque
passibile di ogni forma di controllo. Pensando in senso storico,
l’avvento della scienza moderna è certamente precedente all’avvento
totalizzante della società delle macchine eppure essa si presenta come
pre-annuncio dell’imposizione della tecnica moderna di utilizzare la
natura e il reale tutto come “fondo”, sia come centro di informazioni
(fisica sperimentale) sia come mero oggetto di indagine (fisica
moderna). Dunque l’essenza originaria della tecnica è presente
precedentemente al suo stesso avvento, il che dimostra l’inadeguatezza
del pensare in senso storico e dimostra inoltre che non è la tecnica
moderna ad esser una applicazione delle scienze esatte, ma queste ultime
a dipendere inscindibilmente dall’essenza della tecnica moderna.
L’essenza della storia non è dunque il
suo progredire, ma il suo invio destinale, e tale invio è il suo stesso
ποιεσις. Appartenere a un destino significa essere un ascoltante e non
più un servo :«È l'accadere del disvelamento, ossia della verità, ciò
con cui la libertà ha la parentela più stretta e più profonda».
La dimensione dell'ascolto è quella con
cui Heidegger definisce la condizione essenziale della libertà umana,
mantenendosi su un terreno ambiguo e pericolosissimo, dal momento che
tale dimensione è forse quella che mette maggiormente in evidenza la
passività di un individuo non parlante o replicante ma semplicemente
posto in un silenzio meditativo affatto agente.
Di questo destino fa parte anche il
dominio della tecnica per cui nei suoi confronti non si deve avere alcun
atteggiamento giudicante, né di entusiastica esaltazione, né di
sprezzante rifiuto. Il destino con il suo percorso disvelante mette
l'uomo dinanzi all'apertura costante della possibilità disvelata, e tra
queste possibilità si rintana il pericolo. Il vero pericolo del destino
della nostra epoca è che ciò che si disvela, e dunque l'uomo stesso
rischia costantemente di diventare materiale da accumulo e quindi
"fondo". Il paradosso è che: «Proprio quando è sotto questa minaccia
l'uomo si veste orgogliosamente della figura di signore della terra.
Così si viene diffondendo l'apparenza che tutto ciò che si incontra
sussista solo in quanto è un prodotto dell'uomo. Questa apparenza fa
maturare un'ultima ingannevole illusione. È l'illusione per la quale
sembra che l'uomo, dovunque, non incontri più altri che sé stesso».
L'impiegare della tecnica è tanto
totalizzante da non porre l'uomo soltanto in dissintonia con se stesso,
ma pure da inibire ogni altra espressione del disvelamento stesso. La
tecnica e la sua imposizione accumulante impregna tutto l'esistente
impedendo ogni forma di originarietà.
La singolarità dell'atteggiamento di
Heidegger si esprime pienamente nella citazione dei versi dell'amato
poeta Holderlin: «Là dove c'è il pericolo, cresce anche ciò che salva»,
e ciò che salva sta nel cogliere l'essenza della tecnica e nel non
restare semplicemente affascinati dalle cose tecniche e dalla stessa
strumentalità, che pensata in quanto tale costringe a restare sempre
legati alla volontà di dominare l'esistente.
L'essenza della tecnica è ambigua,
poiché da un lato la sua l'imposizione pro-voca a impegnarsi nel furioso
movimento dell'impiegare, che impedisce ogni visione dell'evento del
disvelare e in tal modo minaccia nel suo fondamento stesso il rapporto
con l'essenza della verità.
D'altro lato, l'im-posizione accade da
parte sua in quel concedere il quale fa sì che l'uomo - finora senza
rendersene conto, ma forse in modo più consapevole in futuro - duri nel
suo essere l'adoperato-salavaguardato per la custodia dell'essenza della
verità. Così appare l'aurora di ciò che salva.
Ciò che salva sta dunque in una essenza
che non ha nulla di tecnico, ma attiene ad un ambito che da un lato è
affine alla tecnica e dall'altro ne è fondamentalmente distinto:
«Tale ambito è l'arte. S'intende solo
quando la meditazione dell'artista dal canto suo, non si chiude davanti
alla costellazione della verità riguardo alla quale noi poniamo la
nostra domanda.
Così domandando, noi attestiamo lo stato
di difficoltà per cui, con tutta la nostra tecnica, non sappiamo ancora
cogliere ciò che costituisce l'essere della tecnica, con tutta la nostra
estetica non custodiamo più ciò che costituisce l'essere dell'arte.
Tuttavia, quanto più interrogativamente consideriamo l'essenza della
tecnica, tanto più misteriosa diventa l'essenza dell'arte. Quanto più ci
avviciniamo al pericolo, tanto più chiaramente cominciano ad illuminarsi
le vie verso ciò che salva, e tanto più noi domandiamo.
Perché domandare è la pietà del
pensiero».
Sono queste le parole con cui Heidegger
chiude il complesso percorso speculativo del saggio sulla tecnica,
suggerendo in maniera velata un ritorno essenziale all'origine della
τηχνη, non solo come produzione artigianale ma pure come tutto quanto
attiene alle belle arti. Perché ci sia questo ritorno non bisogna
rifiutare la dimensione totalizzante della tecnica ma bisogna penetrarla
in modo essenziale.
Questa posizione, di almeno apparente
accettazione della tecnicizzazione della società, è quella che ha
suscitato la seconda polemica politica intorno alla figura
heideggeriana, accusata di mettere in piedi una seconda entusiastica
accettazione del sistema di potere, non più quello nazionalsocialista,
ma quello della nascente società dei consumi tardo-capitalista.
Conclusioni e riflessioni
Lo spunto conclusivo del saggio
heideggeriano invita a nostro avviso all'apertura di una istanza
interessante, che una parte della filosofia critica contemporanea ha
tematizzato alla luce della declinazione ultima della tecnica e del suo
risvolto tecnologico.
Partendo infatti dalla prospettiva
realistica circa l'impossibilità di rifiutare in toto l'impianto della
stessa tecnica, facendosi promotori di una regressio francamente
inattuabile, sarebbe invece da immaginare la possibilità di inventare
pratiche di singolarità e di individuazione, entro l'orizzonte
disumanizzante aperto dallo strapotere delle tecnologie di controllo,
dalle forme di comunicazione di massa, e da quelle produttrici di
servizi.
Accogliere il suggerimento heideggeriano
di un ritorno ad un’accezione originaria della τηχνη, probabilmente
senza condividerne l'ambiguità delle premesse, può essere uno spunto di
analisi che cerchi una giustificazione filosofica all'ambizione di
spiritualizzare le produzioni umane odierne, tutte al servizio diretto o
indiretto della tecnica e dei suoi personali o impersonali burattinai.
Ancor più necessaria e radicale risulta
essere la proposta di un ripensamento della scissione tra
tecne ed
episteme, in un'ottica
pre-platonica, di sintetizzazione di entrambe nel campo del sapere in
generale, a cui attengono parimenti tutte le forme di produzione umana,
poietiche e teoretiche.
Questo ritorno ad un sapere
indifferenziato appare necessario alla luce della specializzazione
tecnicistica e monca che impone la società iperindustriale nella
declinazione ultima delle forma di accumulazione che non sono più solo
materiali, ma pure e soprattutto immateriali.
Tramite queste produzioni immateriali si
regge solidamente il meccanismo totalizzante del consenso,
dell'adesione, della canalizzazione della libido, della pauperizzazione
degli affetti. Le produzioni immateriali sono in grande parte attuate
dallo strumento tecnico e tecnologico, che si è ineluttabilmente
appropriato dei tempi di coscienza, delle forme linguistiche e
relazionali, della costruzione di identità non più solo virtuali (basti
pensare a facebook), di tutte le espressioni dell'umano che solevano
mantenere una eccedenza sempre impiegabile in forme più o meno
controllata di insorgenza.
Per cui oggi, nel tempo in cui la
televisione, (che Deleuze alla fine della sua vita definì come il più
terribile dei mali dell'umanità), ha mostrato la sua inoffensività,
messa a paragone con tutto quanto è stato messo in campo dalle
tecnologie di controllo telematico e dei servizi, è necessario
confrontarsi in maniera onesta e non tecnica con la tecnica, senza
accettarne in termini heideggeriani l’elemento di destino che le fa
assumere questo tratto e non un altro che rischia di trasformarsi in una
cieca accettazione del suo presentarsi ora in questa forma specifica.
Molto più interessante risulta il confronto con quello che alcuni
critici hanno definito l’”ecologismo” dell’ultimo pensiero
heideggeriano, che mostra oggi tutta la sua lungimiranza, nell’era della
rifunzionalizzazione del Capitalismo sulla base di uno sfruttamento
sistematico e costante degli elementi primi della natura, quelli che i
presocratici chiamavano αρχαι, e che invece oggi sono diventati “fondo”
da impiegare per un accumulo che serve l’industria del futile e del
desiderio.
Se e quanto di questo “fondo” faccia
oramai parte anche l’uomo resta ambiguo nelle pagine heideggeriane,
poiché, come già detto, in effetti l’impiego della forza umana
all’interno del ciclo progressivo della tecnica non assume oggi alcun
protagonismo soggettivo, anzi ne evidenzia l’estrema debolezza ed
impersonalità, se messa a paragone con la potenza computazionale della
macchina. È vero pure che però l’uomo resta artefice remoto di un
meccanismo di cui è egli stesso divenuto ingranaggio, che è l’esistenza
umana e la deviazione dei suoi stessi bisogni che ha portato l’uomo
verso la deriva di cui in parte ci dice Heidegger e che è quella deriva
con cui il pensiero deve fare i conti, non pensando in modo tecnico
certamente ma comprendendo definitivamente che lingua parla il mondo
dopo l’avvento delle tecnologie di controllo nella forma del Social
network, della democratizzazione dell’accesso alle informazioni, del
ruolo inedito e non ancora subalterno della televisione e delle sue
declinazioni telecratiche.
OTTOBRE 2011