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06
Gennaio 2012

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Senescenza (del) capitale

NELL’EPOCA DEL TOTALITARISMO FINANZIARIO

Antonio Polichetti

 

I problemi da affrontare, come giustamente è stato rilevato nei precedenti numeri di questa rivista, sono strutturali e hanno origini lontane, radici profonde. Possono aiutarci a riflettere gli studi di Giorgio Ruffolo secondo cui le società dell’Alto medioevo realizzarono un’economia dell’autosufficienza basata sulla “corte”, nella quale la prosperità dei padroni (pars dominica) era sostenuta dall’austerità (oppressione e sfruttamento senza limiti) dei contadini (pars massaricia). Fu verso l’anno Mille che intervenne in Europa la svolta dalla quale ebbero origine più tardi il capitalismo e la democrazia, le due grandi forze della modernità. La società aristocratica fu travolta dalla borghesia e la chiusa economia feudale dal commercio internazionale. Da allora non fu più necessario compensare la ricchezza degli uni con la miseria degli altri. Grazie alla sostituzione dei rapporti di forza con quelli di mercato, fu possibile realizzare una crescita generale dell’economia. Ciò non ha tuttavia escluso che la ripartizione della crescita fosse ineguale a causa dei rapporti di proprietà. Questo fattore generava tensioni che davano luogo ad aspre lotte sociali. Ma nell’insieme, scrive Ruffolo, il capitalismo mantenne la sua promessa: di realizzare, sia pure attraverso l’ingiustizia – e possiamo aggiungere attraverso lo schiavismo, il colonialismo, le guerre e la rapina – la crescita generale di una più diffusa ricchezza. Di qui, secondo Ruffolo, la sua superiorità su ogni altro regime. Negli ultimi tempi, però, questa superiorità si è incrinata e, di questo passo, non avrà più alcun riscontro concreto.

La supposta superiorità del sistema capitalistico moderno, infatti, si trova oggi a dover scontare – e a farlo scontare a tutti – il suo peccato originale che si potrebbe riassumere schematicamente in questi termini: aver prodotto ricchezza, ma attraverso l’ingiustizia. Un’insufficienza di carattere politico ha, dunque, accompagnato il processo economico che nell’età moderna ha sconvolto e trasformato l’intero pianeta. E nel tempo questa insufficienza politica che non permetteva di porre la giustizia, primo tema ne la Repubblica di Platone, come valore centrale nella vita pratica ed economica delle società moderne ha fatto sì che i mali presenti mettessero robuste radici sin dagli albori dell’età moderna: vi è stato, continua Ruffolo, un graduale spostamento relativo dall’accumulazione di cose all’accumulazione di titoli rappresentativi delle cose (finanza); il capitalismo, in questo processo, ha tradito la sua fondamentale promessa: tradurre integralmente il profitto nella produzione di beni reali rivolgendolo, invece, sempre più verso la concentrazione dei redditi e delle proprietà nelle mani di una minoranza di plutocrati accumulatori di “liquidità”, cioè di moneta nelle forme più svariate. Non a caso, negli anni immediatamente precedenti l’ultima grande crisi, la liquidità mondiale superava il prodotto reale mondiale di dodici volte. Con l’aggiunta di un’aggravante fondamentale: questo squilibrio era colmato da un gigantesco indebitamento; l’economia si reggeva non, come nei tempi passati, sullo sfruttamento presente del ceto medio, dei proletari, dei lavoratori, ma sui redditi futuri di tutte le classi subalterne. E l’economia si reggeva sulla fiducia “assoluta” che questo debito sarebbe stato pagato. I debiti, infatti, si pagano e, ricorda Ruffolo, arriva inesorabile il momento in cui le onde del debito cessano di accavallarsi le une sulle altre per infrangersi sulla riva. Ed è il momento della crisi che stiamo attraversando[1].

Adam Haslett fornisce una ricostruzione interessante di quanto accaduto nella storia più recente. Per due decenni e mezzo dopo la seconda guerra mondiale, l’Occidente ha conosciuto un periodo di straordinaria espansione economica. Ma già dagli ultimi anni ’60 questa avanzata aveva cominciato a segnare il passo. Come ha di recente affermato Wolfgang Streeck, amministratore delegato dell’Istituto Max Planck per gli Studi sociali, il rallentamento della crescita ha innescato, nel sistema capitalistico, crisi a ripetizione. Prima fra tutte, l’inflazione. Dovendo fronteggiare la recessione dei primi anni ’70, i governi hanno preferito stampare denaro per stimolare i consumi e tenere a bada la disoccupazione. Ma entro la fine del decennio l’inflazione aveva strangolato i nuovi investimenti, facendo aumentare la disoccupazione. Nei primi anni ’80, ancora una volta davanti allo spettro della recessione, i governi hanno fatto ricorso alla spesa pubblica, gonfiando il deficit dello Stato per rilanciare i consumi. Però, già nei primi anni ’90, debito pubblico e difficoltà di bilancio avevano cominciato a “innervosire” i mercati finanziari. Nel tentativo di sostenere la crescita e al contempo ridurre il deficit, sia gli Stati Uniti che l’Inghilterra hanno liberalizzato in maniera decisiva il settore finanziario. Lasciando carta bianca ai finanzieri di inventarsi e immettere sul mercato un’infinità di nuovi strumenti di gestione del debito privato, i governi hanno distolto lo sguardo dagli Stati sovrani preferendo chiedere prestiti da aziende e individui in grado di finanziarli senza tener conto di un’adeguata regolamentazione e finendo per indebitare le future generazioni. Da questa sorta di allegra anarchia finanziaria sono venute fuori due bolle speculative: la prima nel settore informatico e la seconda nel mercato immobiliare americano, quella che ha causato il crollo della banca d’investimento Lehman Brothers nel 2008 e dato avvio all’attuale crisi[2].

Gianni Ferrara, in uno splendido articolo pubblicato su «il manifesto» del 30 agosto 2011, parla di crisi strutturale, incombente, globale che ha avuto come detonatore la scelta operata dagli Stati Uniti nel 1971 di ripudiare il sistema dei cambi fissi a favore della convertibilità delle valute in dollari e dei dollari in oro. Ne conseguì la liberalizzazione dei capitali dagli Stati, cioè la liberazione dei capitali dalla democrazia degli Stati, qualunque grado, estensione, intensità avesse raggiunto il loro processo di democratizzazione. Iniziò così la “rivoluzione passiva” che il capitale sta compiendo, la controrivoluzione diretta a cancellare le conquiste della lotta secolare del movimento operaio e democratico: lo Stato sociale. Si aprì, infatti, la strada maestra alla finanziarizzazione dell’economia, come immediata contro-spinta alla tendenziale caduta del tasso di profitto del capitale. Una finanziarizzazione massiccia, invasiva, pervasiva, dagli effetti devastanti, determinati sugli Stati che nelle istituzioni sopranazionali congiungono l’esercizio dei poteri di loro pertinenza per immunizzare la loro responsabilità e, invece, li delegano in via permanente agli attori del sistema finanziario (organizzazioni internazionali, grandi gruppi industriali e finanziari) il cui «scopo preminente […] è consistito nell’estrarre valore dalle classi medie e medio-inferiori […] non soltanto attraverso lo sfruttamento del lavoro, ma anche mediante il coinvolgimento del maggior numero possibile degli aspetti della loro esistenza nel sistema finanziario»[3].

Sono sotto gli occhi di tutti gli effetti disastrosi di questa vera e propria diserzione delle classi dirigenti rispetto al gravoso compito di dare un indirizzo all’economia che tenga conto dell’interesse generale: nel 1980, la ricchezza posseduta dal Paese più ricco del mondo era pari ad 88 volte quella del Paese più povero, oggi «la disparità è salita a 270 volte. I 1000 individui più ricchi del mondo hanno un patrimonio netto di poco inferiore al doppio del patrimonio totale dei 2,5 miliardi di individui più poveri»[4]. Tutti i rapporti internazionali sulla fame e la povertà nel mondo attestano che circa un miliardo di individui oggi vive con meno di un dollaro al giorno. Solo in America Latina ci sono duecento milioni di poveri. Mentre negli anni Sessanta l'insieme dei Paesi più sviluppati era trenta volte più ricco dei paesi più poveri, oggi lo è di settanta, ottanta volte. Un bambino americano, per esempio, oggi consuma quello che consumano 422 suoi coetanei etiopi[5]. E nel Paese che rappresenta il simbolo del capitalismo moderno occidentale, gli Stati Uniti, uno studio del “Financial Times” ha calcolato la quota di reddito nazionale dei lavoratori – i salari – rispetto a quella che va ai profitti: gli stipendi sono stagnanti e le differenze di reddito nelle società capitalistiche salgono, e non a favore di quelli che un tempo venivano chiamati ceti medi produttivi; la quota di reddito nazionale americano che quest’anno andrà in salari è del 58 per cento, la più bassa del dopoguerra, si confronta con una media del 63 per cento nei 65 anni precedenti (e con un 68 per cento nel 1947). In compenso, i profitti, che nel 1947 erano il 27 per cento del reddito nazionale, sono oggi al massimo storico del 37 per cento. A tutto questo vanno ad aggiungersi due nuovi elementi: 1) durante le recessioni, i profitti sono sempre calati, perché le imprese li comprimevano per mantenere quote di mercato: ma non nella recessione 2008-2009, quando anzi è successo il contrario; 2) le innovazioni tecnologiche in passato davano una spinta ai salari e al reddito delle classi medie mentre oggi accade il contrario: quando Bill Gates lanciò Windows 3.0 nel 1990, usato soprattutto negli uffici e nei processi produttivi, la quota dei salari iniziò a scendere. I numeri si riferiscono all’America, ma la tendenza vale per tutto l’Occidente, Italia compresa[6]. Sembra proprio che in un’inarrestabile processo di involuzione politica, in nome degli interessi di un’oligarchia finanziaria, gli Stati Uniti stiano sacrificando la base stessa della loro forza storica: il ceto medio produttivo, appunto, seguendo invece un modello economico, basato sulle disuguaglianze, tipico di Paesi economicamente sottosviluppati. E così ci si trova di fronte ad una realtà in cui la metà della popolazione americana vive in condizioni di povertà, ma una famiglia – la Walton della catena di supermercati Wal-Mart – svetta per ricchezza sommando beni per 93 miliardi di dollari, superiori a quanto possiede il 30% di coloro che hanno redditi più bassi. A fotografare queste crescenti disparità economiche nella società americana è la lettura comparata dei risultati del più recente censimento condotto dal governo americano e di uno studio della rivista economica «Forbes»[7]. Anche da questi ultimi rapporti emerge l’ulteriore conferma del vero motivo che sta muovendo le proteste di cittadini indignati in tutto l’Occidente: un ceto mondiale di super ricchi decide il nostro destino e ignora, squalifica e reprime ogni contestazione e ogni possibilità di intravedere un sistema politico-economico alternativo. Ci troviamo di fronte ad un passaggio epocale dalla democrazia rappresentativa ad una sorta di oligarchia finanziaria, come si dice da più parti, ma, viste le dimensioni del potere in discussione, si potrebbe forse parlare di totalitarismo del ventunesimo secolo, di totalitarismo finanziario. Gli studi fatti negli ultimi anni da apprezzati economisti e politologi possono aiutarci a comprendere meglio il momento storico.

E in Inghilterra le cose non sembrano andar meglio se è vero che «nell’ultimo quarto di secolo, i compensi dei top manager in Gran Bretagna sono aumentati del 1200 per cento, ovvero di 27 volte in 25 anni, fino a raggiungere una media di 4 milioni di sterline (circa 4 milioni e mezzo di euro) a testa». Lo rivelano nuove statistiche che mettono ancora una volta in risalto la questione del divario tra ricchi e poveri nel Regno Unito sottolineando quanto sia cresciuta la distanza tra i dirigenti della maggiori aziende nazionali e il reddito medio della popolazione nello spazio di poco più di una generazione. Si tratta di un rapporto preparato dalla Business School dell’Università di Exeter, da cui risulta che il compenso medio (salario, bonus e ricompenso in azioni) dei presidenti e amministratori delegati del Ftse 100, l’indice dei 100 blue chips della Borsa di Londra, è salito da 300 mila sterline nel 1987 a 4 milioni di sterline oggi, dopo averlo adeguato al tasso d’inflazione. Lo studio della Exeter University definisce il formidabile incremento dei compensi dei supermanager una «bomba ad orologeria», con un legame «opaco» tra salario e rendimento, aggiungendo tuttavia che è improbabile un cambiamento di questa cultura dell’aumento, nonostante la denuncia di eccessi e proteste come quelle del movimento Occupy a Wall Street, a Londra e in altre capitali della finanza. La nuova statistica viene pubblicata proprio mentre il governo britannico ha annunciato piani per contenere bonus eccessivi per banchieri e top manager, tra una crescente preoccupazione da parte di azionisti e opinione pubblica che tali ricompense siano diventate una spirale incontrollabile, senza una relazione diretta con la prestazione delle aziende”[8].

Nel giro di un ventennio, dunque, le condizioni generali delle popolazioni del pianeta sono di gran lunga peggiorate, come osserva giustamente Giuseppe Cantarano: meno lavoro. Più disoccupazione. Generalizzata precarietà e sfruttamento. Aumento delle povertà, vecchie e nuove. Crescita delle disuguaglianze. E, come se non bastasse, un pianeta ridotto a una pattumiera globale: aria irrespirabile, acqua potabile che tende a scarseggiare, il suolo intriso di veleni, destinato, prima o poi, alla sterilità se la tendenza dell'odierno sviluppo capitalistico procederà ancora verso questa dissennata e catastrofica direzione[9].

Scrive Francesco Indovina che «la finanziarizzazione dell'economia non è solo una evoluzione del capitalismo ma la modificazione della sua natura. Il processo è passato dalla proposizione denaro-merce-denaro (d-m-d), attraverso il quale il capitale, con una distribuzione non equa del valore prodotto tra capitale e lavoro, accumulava ricchezza, a quella odierna denaro-denaro-denaro (d-d-d), che senza la "mediazione" della produzione di merci (e servizi), permette di accumulare ricchezza in poche mani»[10].

Il dominio dell’economia finanziaria ha creato una situazione di squilibrio generale in cui, come spiega anche Joseph Stiglitz

 

 «l’1 per cento della popolazione controlla più del 40 per cento della ricchezza e riceve più del 20 per cento del reddito. Inoltre, coloro che si collocano in questo strato così unico ricavano spesso tali enormi benefici non per aver dato alla società un contributo maggiore, ma perché sono, per dirla senza giri di parole, dei cacciatori di rendite di successo (e qualche volta corrotti). […] L’influenza politica e le pratiche che mortificano la concorrenza (sostenute spesso dalla politica) sono state, tuttavia, un fattore centrale nell’approfondirsi delle disparità economiche in tutto il mondo. Inoltre, il trend è stato rafforzato da sistemi fiscali nei quali un miliardario come Warren Buffett paga meno tasse della sua segretaria (in percentuale sul reddito) e gli speculatori, che hanno contribuito a far collassare l’economia globale, hanno imposizioni fiscali più basse di chi lavora per vivere. Le ricerche condotte negli ultimi anni evidenziano l’importanza e il radicamento dei concetti relativi all’equità tra i cittadini. I dimostranti spagnoli e quelli degli altri paesi hanno ragione a essere indignati: hanno di fronte un sistema nel quale i banchieri sono stati salvati, mentre coloro cui essi facevano la predica sono stati lasciati ad arrangiarsi da soli. Peggio ancora, quei banchieri sono seduti oggi nuovamente alle loro scrivanie e portano a casa dei bonus che la maggior parte delle persone che lavorano possono solo sperare di guadagnare in una intera vita lavorativa, mentre per i giovani che hanno studiato con impegno e attenendosi alle regole non ci sono prospettive di un lavoro soddisfacente. […] L’approfondirsi delle disuguaglianze è il prodotto di un circolo vizioso: i ricchi cacciatori di rendite usano la loro ricchezza per influenzare le leggi in modo tale da proteggere ed espandere la loro ricchezza […] e influenza. Con la nota sentenza del caso Citizens United, la Corte suprema degli Stati Uniti ha allentato le redini che limitavano le corporation nell’uso delle risorse al fine di influenzare la politica. Questo quadro può essere solo costruito in una democrazia in grado di riflettere gli interessi generali e non solo gli interessi dell’1 per cento. Non è più sufficiente avere il miglior governo che si può comprare con il denaro»[11].

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Sembra lecito affermare che tutto questo non rappresenta semplicemente una contrazione particolarmente grave del ciclo economico ordinario, destinata ad esaurirsi. No. Assistiamo, invece, all’accelerazione di una crisi endemica di natura politica delle economie occidentali che va aggravandosi da un quarantennio.

Inoltre, nel corso degli ultimi decenni, l’industria finanziaria sgravata dai necessari vincoli normativi, si è conquistata un potere politico talmente grande da bloccare qualsiasi riforma delle sue operazioni imponendo la pratica della distribuzione verso l’alto dei profitti raccolti. Questo fatto ha creato un ulteriore gravissimo squilibrio negli Stati Uniti dove l’egemonia del mercato fa sentire tutto il suo peso attraverso i contributi illimitati che il mondo finanziario e industriale può offrire alla campagna elettorale dei partiti e, tramite le pressioni esercitate sul Congresso, si rivela capace di aggirare e vanificare i tentativi politici in favore di una più equa ridistribuzione della ricchezza.

Noam Chomsky lo chiama «Senato virtuale», Les Leopold il «governo segreto di Wall Street»: si tratta del totalitarismo finanziario che controlla lo Stato americano, ma ormai non solo. La propaganda mediatica è un mezzo potentissimo che i potentati finanziari usano in modo massiccio e con ogni mezzo per mistificare la realtà della crisi, per convincere tutti che essa è provocata dal debito pubblico e che, per salvarci, dobbiamo fare duri sacrifici tagliando le spese sociali. Ma il debito pubblico, scrive giustamente Manlio Dinucci, è conseguenza, non causa della crisi. Essa è dovuta al funzionamento stesso del mercato finanziario, dominato da potenti banche e gruppi multinazionali. Le operazioni speculative, effettuate con enormi capitali, creano un artificioso aumento dei prezzi delle azioni e di altri titoli che non corrisponde a un’effettiva crescita dell'economia reale: una «bolla speculativa» che, divenendo economicamente insostenibile, prima o poi esplode provocando una crisi finanziaria. A questo punto intervengono gli Stati con operazioni di «salvataggio», riversando denaro pubblico (e quindi accrescendo il debito) proprio nelle casse delle grandi banche e dei gruppi finanziari privati che hanno provocato la crisi. Solo negli Stati Uniti, l'ultimo «salvataggio» ammonta a oltre 7 mila miliardi di dollari, dieci volte più di quanto ufficialmente dichiarato e circa la metà dell’ammontare complessivo del debito pubblico americano: 15 mila miliardi di dollari. Come questo esproprio e questa rapina assurda possano avvenire lo si può spiegare soltanto ricordando che

 

«i candidati presidenziali sono finanziati, attraverso «donazioni» e in altri modi, dalle grandi banche, tra cui la Goldman Sachs, e che l'amministrazione Obama, appena entrata in carica, ha nominato in posti chiave loro persone di fiducia, facenti parte della Commissione Trilaterale. La stessa in cui Mario Monti, consulente internazionale della Goldman Sachs e ora capo del governo italiano, riveste il ruolo di presidente del gruppo europeo. Non c'è quindi da stupirsi se il governo segreto di Wall Street impiega, in funzione dei suoi interessi, tutti i mezzi disponibili per incrementare i superprofitti, cui ormai è abituato, anche in tempi di crisi. Non a caso le ultime guerre, effettuate dagli Stati Uniti e dalla Nato, hanno colpito Stati situati nelle aree ricche di petrolio – e non solo – come l’Iraq e la Libia, o con una importante posizione geostrategica, come la Jugoslavia e l’Afghanistan. Stati come l'Iraq di Saddam Hussein, che minacciava di sganciarsi dal dollaro vendendo petrolio in euro e altre valute, o come la Libia di Gheddafi, che programmava di creare il dinaro d'oro quale concorrente del dollaro e promoveva organismi finanziari autonomi dell'Unione africana, il cui sviluppo avrebbe ridotto l'influenza della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. Per analoghe ragioni si prendono ora di mira Siria e Iran»[12].

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Crisi e guerra sono due facce della stessa medaglia, anche perché le multinazionali più importanti, attraverso società controllate, sono proprietarie delle compagnie private di contractors, i mercenari o signori della guerra in Occidente, che intascano ingentissime commesse pubbliche per fare la guerra in vece degli eserciti regolari[13]. E la guerra fa crescere la spesa militare che, appesantendo il debito pubblico, impone ulteriori sacrifici. Basti pensare che l'Italia, come stima l’ultimo rapporto del Sipri (Stockholm International Peace Research Institute), è arrivata a una spesa militare annua di 28 miliardi di euro, all'incirca il costo dell’attuale manovra finanziaria alla faccia dei ricercatori che scappano all’estero, di coloro che vorrebbero godersi un periodo di serenità e riposo con una pensione dignitosa dopo una vita di lavoro e sacrifici per fare soltanto un paio di esempi eclatanti.

Luciano Gallino ha definito tutto questo “finanzcapitalismo”: un sistema economico deformato che sembra aver abbandonato l’idea della produzione di beni e servizi concentrandosi sul profitto immediato, sulla rendita di posizione, sul parassitismo a scapito dello Stato. Un sistema che ha superato tutte le precedenti in pervasività e radicalizzazione del proprio scopo, costituendosi come la struttura capillare di tutti i sottosistemi sociali, di tutti gli strati della società, della natura e della persona.

La mega-macchina del finanzcapitalismo è giunta ad asservire ai propri scopi di estrazione del valore ogni aspetto come ogni angolo del mondo contemporaneo. Ma il totalitarismo finanziario ha trionfato non perché è stato in grado di creare un modello di società più evoluto che ha superato la tradizionale funzione della politica, ma perché si è trovato di fronte ad un vuoto ideale e culturale delle nostre classi dirigenti negli ultimi decenni. Il vuoto, come si sa, non resta mai tale e, infatti, la politica e lo Stato sono serviti sempre più da mero strumento amministrativo di interessi privilegiati. Sempre più sono stati identificati i fini dello Stato con quelli dell’economia finanziaria, dando quindi vita a quella che può definirsi una dittatura, sembra a tempo indeterminato, del ceto finanziario. Non è vero che è finita l’epoca dei totalitarismi: siamo dentro fino al collo, infatti, nell’epoca del totalitarismo finanziario. In tal modo la politica ha abdicato al proprio compito storico di incivilire, anche governando l’economia, la vita delle società umane tradendo proprio il compito di direzione etica insito nella concezione dello Stato moderno. Ma non ci si è limitati a questo. Il finanzcapitalismo ha trasformato su scala globale il modo di fare politica, svuotando di sostanza e di senso il processo democratico. Mentre la democrazia, intesa nel senso classico del termine, «pur attraverso una via contorta, parla dell’uomo. Ovvero, parla del cittadino, ma del cittadino di uno Stato che esiste per far fiorire in libertà l’uomo»[14]; cosa che, come risulta evidente da quanto riportato sinora, attualmente non è possibile. La stragrande maggioranza dei cittadini non può fiorire in libertà nella moderna polis, ma, quando va bene, riesce a sopravvivere; e vive appiattita sul problema fondamentale della sopravvivenza. Sono scarse le possibilità di una formazione completa di una coscienza storica e politica, scarse le possibilità di esprimere la propria personalità al massimo livello quando l’obiettivo massimo raggiungibile è quello di sopravvivere. E questo va a maggior danno di tutti perché lo Stato è privato apriori di una quantità di potenziali talenti che sfioriscono e che non possono dare il loro contributo.

Il dominio della finanza, infatti, è passato dal potere sociale al potere politico ed è giunto ad avere una solidissima quanto impalpabile egemonia culturale che ha impregnato il pensiero comune e corrente delle nostre società: «L’ideologia dominante cerca di venderci proprio l’insicurezza causata dallo smantellamento dello Stato del Welfare come un’opportunità per nuove libertà: devi cambiare ogni anno, facendo affidamento su contratti a breve termine invece che su un impiego stabile a lungo termine. E se questa impasse ti causa ansia, gli ideologi postmoderni o della “seconda modernità” ti accuseranno immediatamente di essere incapace di farti carico della piena libertà, ti accuseranno di sottrarti alla libertà rimanendo attaccato in modo immaturo a vecchie forme permanenti»[15].

Questo è l’effetto più dannoso di quella che è stata definita la «narcosi dell’ideologia capitalistica» e della «dominanza del neoliberismo globale»[16].

Sia in Europa che negli Stati Uniti, le esigenze delle élite finanziarie si scontrano con la volontà popolare che viene apertamente ignorata dai governi i quali, in nome dell’emergenza finanziaria e con l’utilizzo di competenze tecniche, vengono scelti direttamente dal mondo della finanza al fine di conservare e difendere la piramide sociale globale così solidamente costruita in pochi decenni. E a questo proposito l’Europa può essere un oggetto di studio utilissimo: snaturata dalla privatizzazioni di beni pubblici, come è avvenuto in Grecia e come sta per avvenire in Italia perché non si ha il fegato di imporre una vera tassa patrimoniale sui ricchi. Un’Europa snaturata sul piano politico in cui governa, invece, un gruppo di esperti, di tecnici al servizio delle banche che senza alcuna legittimazione democratica impone agli Stati sovrani le politiche economiche da intraprendere. Un’Unione siffatta non è vista come democratica dai popoli e inasprisce le chiusure nazionali.

Non ci aiuteranno di certo a costruire l’Europa i cantori della globalizzazione tecnica ed economico-finanziaria che per trent’anni hanno promesso maggior benessere e prosperità per tutti quando, poi, nessuna di quelle promesse si è realizzata. Gli intellettuali cosiddetti neoliberali dell'economia finanziaria e di una dispotica tecnocrazia non soddisfatti di aver contribuito a determinare tutti questi drammatici problemi, continuano indifferentemente, come se niente fosse, a fornirci ricette per risolverli. Continuano a predisporre «strategie terapeutiche», diciamo così, per «malattie» da essi indotte. Strategie terapeutiche che non fanno altro che indurre altre «malattie» che i loro saperi «scientifici» si apprestano di nuovo a «guarire». Un circolo vizioso infernale che dovrebbe essere al più presto spezzato, interrotto. È a questa sfida che sono chiamati oggi i saperi umanistici, come scrive Piero Bevilacqua. Una dura sfida nell’epoca del totalitarismo finanziario, del dominio tecnico dell'economia finanziaria che globalizza flussi di capitali e carte di credito, ma non sa – o non vuole – globalizzare i diritti, perfino quello più elementare alla vita. Nell’epoca del totalitarismo finanziario, infatti, ogni cinque secondi un bambino muore. Per fame e per malattie. Nell'epoca del dominio incontrastato della tecnica e della monocultura finanziaria possiamo giustamente ricordare John Maynard Keynes il quale diceva che quando l'economia si converte interamente nella finanza lo sviluppo di un Paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò.

E oggi il “casinò” è diventato globale. È la delirante e tracotante egemonia di questa globalizzazione – dispensatrice di disuguaglianze, iniquità e nuove solitudini – che i saperi umanistici, come sostiene Bevilacqua, sono chiamati a demolire. Quei saperi – storia, letteratura, arte, filosofia e via dicendo – sono sempre più emarginati dalle strutture formative poiché ritenuti irrilevanti e inutili al potenziamento del funzionalismo tecno-economico.

È necessario, continua Bevilacqua, trarre fuori dai loro angusti specialismi le tecno-scienze, soprattutto quelle economico-finanziarie le quali, interamente asservite al mito capitalistico dello sviluppo e della crescita illimitata, hanno perso di vista non solo lo sguardo d'insieme sulla società e sul mondo, ma sono diventate servizievoli strumenti al servizio dei «famelici appetiti di breve periodo» dei ceti finanziari dominanti. L’egemonia culturale e politica del totalitarismo finanziario ha prodotto un’idea di sviluppo che, scrive Bevilacqua, «ha cancellato il ruolo della natura nel processo di produzione della ricchezza, trascinando il nostro pianeta sull'orlo del collasso»[17].

 

DICEMBRE 2011

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[1] Giorgio Ruffolo, Testa e croce, Einaudi, Torino 2011; Vedi, John Kenneth Galbraith, Storia dell’economia, Rizzoli, Milano 2007.

[2] Adam Haslett, «Corriere della Sera», 6 dicembre 2011; e il suo romanzo Union Atlantic, Einaudi, Torino 2011.

[3] Luciano Gallino, Finanzcapitalismo, Einaudi, Torino 2011, p. 106.

[4] Ibidem, p. 160.

[5] Giuseppe Cantarano, «il manifesto», 24 novembre 2011.

[6] Vedi Danilo Taino, «Corriere della Sera», 16 dicembre 2011.

[7] Vedi Maurizio Molinari, «La Stampa», 16 dicembre 2011.

[8] Enrico Franceschini, «la Repubblica», 16 dicembre 2011.

[9] Vedi G. Cantarano, «il manifesto», cit.

[10] Francesco Indovina, «il manifesto», 27 novembre 2011. La versione integrale dell’articolo si può leggere sul sito www.sbilanciamoci.info.

[11] Joseph Stiglitz, «la Repubblica», 9 novembre 2011.

[12] Manlio Dinucci, «il manifesto», 13 dicembre 2011.

[13] Stefano Sioli, La privatizzazione della guerre, «Il Ponte», maggio 2011.

[14] Carlo Galli, «Liberazione», 20 novembre 2011.

[15] Slavoj Zizek, Credere, Meltemi, Roma 2005, p. 171.

[16] Gianni Ferrara, «il manifesto», 9 novembre 2011.

[17] A che serve la storia? I saperi umanistici alla prova della modernità, a cura di Piero Bevilacqua, Donzelli, Roma 2011. Vedi G. Cantarano, “il manifesto”, cit.