Senescenza (del) capitale
NELL’EPOCA DEL
TOTALITARISMO FINANZIARIO
Antonio Polichetti
I problemi da affrontare, come
giustamente è stato rilevato nei precedenti numeri di questa rivista,
sono strutturali e hanno origini lontane, radici profonde. Possono
aiutarci a riflettere gli studi di Giorgio Ruffolo secondo cui le
società dell’Alto medioevo realizzarono un’economia dell’autosufficienza
basata sulla “corte”, nella quale la prosperità dei padroni
(pars dominica) era sostenuta dall’austerità (oppressione e
sfruttamento senza limiti) dei contadini
(pars massaricia). Fu verso
l’anno Mille che intervenne in Europa la svolta dalla quale ebbero
origine più tardi il capitalismo e la democrazia, le due grandi forze
della modernità. La società aristocratica fu travolta dalla borghesia e
la chiusa economia feudale dal commercio internazionale. Da allora non
fu più necessario compensare la ricchezza degli uni con la miseria degli
altri. Grazie alla sostituzione dei rapporti di forza con quelli di
mercato, fu possibile realizzare una crescita generale dell’economia.
Ciò non ha tuttavia escluso che la ripartizione della crescita fosse
ineguale a causa dei rapporti di proprietà. Questo fattore generava
tensioni che davano luogo ad aspre lotte sociali. Ma nell’insieme,
scrive Ruffolo, il capitalismo mantenne la sua promessa: di realizzare,
sia pure attraverso l’ingiustizia – e possiamo aggiungere attraverso lo
schiavismo, il colonialismo, le guerre e la rapina – la crescita
generale di una più diffusa ricchezza. Di qui, secondo Ruffolo, la sua
superiorità su ogni altro regime. Negli ultimi tempi, però, questa
superiorità si è incrinata e, di questo passo, non avrà più alcun
riscontro concreto.
La supposta superiorità del sistema
capitalistico moderno, infatti, si trova oggi a dover scontare – e a
farlo scontare a tutti – il suo peccato originale che si potrebbe
riassumere schematicamente in questi termini: aver prodotto ricchezza,
ma attraverso l’ingiustizia. Un’insufficienza di carattere politico ha,
dunque, accompagnato il processo economico che nell’età moderna ha
sconvolto e trasformato l’intero pianeta. E nel tempo questa
insufficienza politica che non permetteva di porre la giustizia, primo
tema ne la Repubblica di Platone, come valore centrale nella vita
pratica ed economica delle società moderne ha fatto sì che i mali
presenti mettessero robuste radici sin dagli albori dell’età moderna: vi
è stato, continua Ruffolo, un graduale spostamento relativo
dall’accumulazione di cose all’accumulazione di titoli rappresentativi
delle cose (finanza); il capitalismo, in questo processo, ha tradito la
sua fondamentale promessa: tradurre integralmente il profitto nella
produzione di beni reali rivolgendolo, invece, sempre più verso la
concentrazione dei redditi e delle proprietà nelle mani di una minoranza
di plutocrati accumulatori di “liquidità”, cioè di moneta nelle forme
più svariate. Non a caso, negli anni immediatamente precedenti l’ultima
grande crisi, la liquidità mondiale superava il prodotto reale mondiale
di dodici volte. Con l’aggiunta di un’aggravante fondamentale: questo
squilibrio era colmato da un gigantesco indebitamento; l’economia si
reggeva non, come nei tempi passati, sullo sfruttamento presente del
ceto medio, dei proletari, dei lavoratori, ma sui redditi futuri di
tutte le classi subalterne. E l’economia si reggeva sulla fiducia
“assoluta” che questo debito sarebbe stato pagato. I debiti, infatti, si
pagano e, ricorda Ruffolo, arriva inesorabile il momento in cui le onde
del debito cessano di accavallarsi le une sulle altre per infrangersi
sulla riva. Ed è il momento della crisi che stiamo attraversando[1].
Adam Haslett fornisce una ricostruzione
interessante di quanto accaduto nella storia più recente. Per due
decenni e mezzo dopo la seconda guerra mondiale, l’Occidente ha
conosciuto un periodo di straordinaria espansione economica. Ma già
dagli ultimi anni ’60 questa avanzata aveva cominciato a segnare il
passo. Come ha di recente affermato Wolfgang Streeck, amministratore
delegato dell’Istituto Max Planck per gli Studi sociali, il
rallentamento della crescita ha innescato, nel sistema capitalistico,
crisi a ripetizione. Prima fra tutte, l’inflazione. Dovendo fronteggiare
la recessione dei primi anni ’70, i governi hanno preferito stampare
denaro per stimolare i consumi e tenere a bada la disoccupazione. Ma
entro la fine del decennio l’inflazione aveva strangolato i nuovi
investimenti, facendo aumentare la disoccupazione. Nei primi anni ’80,
ancora una volta davanti allo spettro della recessione, i governi hanno
fatto ricorso alla spesa pubblica, gonfiando il deficit dello Stato per
rilanciare i consumi. Però, già nei primi anni ’90, debito pubblico e
difficoltà di bilancio avevano cominciato a “innervosire” i mercati
finanziari. Nel tentativo di sostenere la crescita e al contempo ridurre
il deficit, sia gli Stati Uniti che l’Inghilterra hanno liberalizzato in
maniera decisiva il settore finanziario. Lasciando carta bianca ai
finanzieri di inventarsi e immettere sul mercato un’infinità di nuovi
strumenti di gestione del debito privato, i governi hanno distolto lo
sguardo dagli Stati sovrani preferendo chiedere prestiti da aziende e
individui in grado di finanziarli senza tener conto di un’adeguata
regolamentazione e finendo per indebitare le future generazioni. Da
questa sorta di allegra anarchia finanziaria sono venute fuori due bolle
speculative: la prima nel settore informatico e la seconda nel mercato
immobiliare americano, quella che ha causato il crollo della banca
d’investimento Lehman Brothers nel 2008 e dato avvio all’attuale crisi[2].
Gianni Ferrara, in uno splendido
articolo pubblicato su «il manifesto» del 30 agosto 2011, parla di crisi
strutturale, incombente, globale che ha avuto come detonatore la scelta
operata dagli Stati Uniti nel 1971 di ripudiare il sistema dei cambi
fissi a favore della convertibilità delle valute in dollari e dei
dollari in oro. Ne conseguì la liberalizzazione dei capitali dagli
Stati, cioè la liberazione dei capitali dalla democrazia degli Stati,
qualunque grado, estensione, intensità avesse raggiunto il loro processo
di democratizzazione. Iniziò così la “rivoluzione passiva” che il
capitale sta compiendo, la controrivoluzione diretta a cancellare le
conquiste della lotta secolare del movimento operaio e democratico: lo
Stato sociale. Si aprì, infatti, la strada maestra alla
finanziarizzazione dell’economia, come immediata contro-spinta alla
tendenziale caduta del tasso di profitto del capitale. Una
finanziarizzazione massiccia, invasiva, pervasiva, dagli effetti
devastanti, determinati sugli Stati che nelle istituzioni sopranazionali
congiungono l’esercizio dei poteri di loro pertinenza per immunizzare la
loro responsabilità e, invece, li delegano in via permanente agli attori
del sistema finanziario (organizzazioni internazionali, grandi gruppi
industriali e finanziari) il cui «scopo preminente […] è consistito
nell’estrarre valore dalle classi medie e medio-inferiori […] non
soltanto attraverso lo sfruttamento del lavoro, ma anche mediante il
coinvolgimento del maggior numero possibile degli aspetti della loro
esistenza nel sistema finanziario»[3].
Sono sotto gli occhi di tutti gli
effetti disastrosi di questa vera e propria diserzione delle classi
dirigenti rispetto al gravoso compito di dare un indirizzo all’economia
che tenga conto dell’interesse generale: nel 1980, la ricchezza
posseduta dal Paese più ricco del mondo era pari ad 88 volte quella del
Paese più povero, oggi «la disparità è salita a 270 volte. I 1000
individui più ricchi del mondo hanno un patrimonio netto di poco
inferiore al doppio del patrimonio totale dei 2,5 miliardi di individui
più poveri»[4]. Tutti i rapporti
internazionali sulla fame e la povertà nel mondo attestano che circa un
miliardo di individui oggi vive con meno di un dollaro al giorno. Solo
in America Latina ci sono duecento milioni di poveri. Mentre negli anni
Sessanta l'insieme dei Paesi più sviluppati era trenta volte più ricco
dei paesi più poveri, oggi lo è di settanta, ottanta volte. Un bambino
americano, per esempio, oggi consuma quello che consumano 422 suoi
coetanei etiopi[5]. E nel Paese che
rappresenta il simbolo del capitalismo moderno occidentale, gli Stati
Uniti, uno studio del “Financial Times” ha calcolato la quota di reddito
nazionale dei lavoratori – i salari – rispetto a quella che va ai
profitti: gli stipendi sono stagnanti e le differenze di reddito nelle
società capitalistiche salgono, e non a favore di quelli che un tempo
venivano chiamati ceti medi produttivi; la quota di reddito nazionale
americano che quest’anno andrà in salari è del 58 per cento, la più
bassa del dopoguerra, si confronta con una media del 63 per cento nei 65
anni precedenti (e con un 68 per cento nel 1947). In compenso, i
profitti, che nel 1947 erano il 27 per cento del reddito nazionale, sono
oggi al massimo storico del 37 per cento. A tutto questo vanno ad
aggiungersi due nuovi elementi: 1) durante le recessioni, i profitti
sono sempre calati, perché le imprese li comprimevano per mantenere
quote di mercato: ma non nella recessione 2008-2009, quando anzi è
successo il contrario; 2) le innovazioni tecnologiche in passato davano
una spinta ai salari e al reddito delle classi medie mentre oggi accade
il contrario: quando Bill Gates lanciò Windows 3.0 nel 1990, usato
soprattutto negli uffici e nei processi produttivi, la quota dei salari
iniziò a scendere. I numeri si riferiscono all’America, ma la tendenza
vale per tutto l’Occidente, Italia compresa[6]. Sembra proprio che
in un’inarrestabile processo di involuzione politica, in nome degli
interessi di un’oligarchia finanziaria, gli Stati Uniti stiano
sacrificando la base stessa della loro forza storica: il ceto medio
produttivo, appunto, seguendo invece un modello economico, basato sulle
disuguaglianze, tipico di Paesi economicamente sottosviluppati. E così
ci si trova di fronte ad una realtà in cui la metà della popolazione
americana vive in condizioni di povertà, ma una famiglia – la
Walton della catena di
supermercati Wal-Mart – svetta
per ricchezza sommando beni per 93 miliardi di dollari, superiori a
quanto possiede il 30% di coloro che hanno redditi più bassi. A
fotografare queste crescenti disparità economiche nella società
americana è la lettura comparata dei risultati del più recente
censimento condotto dal governo americano e di uno studio della rivista
economica «Forbes»[7]. Anche da questi
ultimi rapporti emerge l’ulteriore conferma del vero motivo che sta
muovendo le proteste di cittadini indignati in tutto l’Occidente: un
ceto mondiale di super ricchi decide il nostro destino e ignora,
squalifica e reprime ogni contestazione e ogni possibilità di
intravedere un sistema politico-economico alternativo. Ci troviamo di
fronte ad un passaggio epocale dalla democrazia rappresentativa ad una
sorta di oligarchia finanziaria, come si dice da più parti, ma, viste le
dimensioni del potere in discussione, si potrebbe forse parlare di
totalitarismo del ventunesimo secolo, di totalitarismo finanziario. Gli
studi fatti negli ultimi anni da apprezzati economisti e politologi
possono aiutarci a comprendere meglio il momento storico.
E in Inghilterra le cose non sembrano
andar meglio se è vero che «nell’ultimo quarto di secolo, i compensi dei
top manager in Gran Bretagna sono aumentati del 1200 per cento, ovvero
di 27 volte in 25 anni, fino a raggiungere una media di 4 milioni di
sterline (circa 4 milioni e mezzo di euro) a testa». Lo rivelano nuove
statistiche che mettono ancora una volta in risalto la questione del
divario tra ricchi e poveri nel Regno Unito sottolineando quanto sia
cresciuta la distanza tra i dirigenti della maggiori aziende nazionali e
il reddito medio della popolazione nello spazio di poco più di una
generazione. Si tratta di un rapporto preparato dalla Business School
dell’Università di Exeter, da cui risulta che il compenso medio
(salario, bonus e ricompenso in azioni) dei presidenti e amministratori
delegati del Ftse 100, l’indice dei 100
blue chips della Borsa di
Londra, è salito da 300 mila sterline nel 1987 a 4 milioni di sterline
oggi, dopo averlo adeguato al tasso d’inflazione. Lo studio della Exeter
University definisce il formidabile incremento dei compensi dei
supermanager una «bomba ad orologeria», con un legame «opaco» tra
salario e rendimento, aggiungendo tuttavia che è improbabile un
cambiamento di questa cultura dell’aumento, nonostante la denuncia di
eccessi e proteste come quelle del movimento
Occupy a Wall Street, a Londra e in altre capitali della finanza. La
nuova statistica viene pubblicata proprio mentre il governo britannico
ha annunciato piani per contenere bonus eccessivi per banchieri e top
manager, tra una crescente preoccupazione da parte di azionisti e
opinione pubblica che tali ricompense siano diventate una spirale
incontrollabile, senza una relazione diretta con la prestazione delle
aziende”[8].
Nel giro di un ventennio, dunque, le
condizioni generali delle popolazioni del pianeta sono di gran lunga
peggiorate, come osserva giustamente Giuseppe Cantarano: meno lavoro.
Più disoccupazione. Generalizzata precarietà e sfruttamento. Aumento
delle povertà, vecchie e nuove. Crescita delle disuguaglianze. E, come
se non bastasse, un pianeta ridotto a una pattumiera globale: aria
irrespirabile, acqua potabile che tende a scarseggiare, il suolo intriso
di veleni, destinato, prima o poi, alla sterilità se la tendenza
dell'odierno sviluppo capitalistico procederà ancora verso questa
dissennata e catastrofica direzione[9].
Scrive Francesco Indovina che «la
finanziarizzazione dell'economia non è solo una evoluzione del
capitalismo ma la modificazione della sua natura. Il processo è passato
dalla proposizione denaro-merce-denaro (d-m-d),
attraverso il quale il capitale, con una distribuzione non equa del
valore prodotto tra capitale e lavoro, accumulava ricchezza, a quella
odierna denaro-denaro-denaro (d-d-d),
che senza la "mediazione" della produzione di merci (e servizi),
permette di accumulare ricchezza in poche mani»[10].
Il dominio dell’economia finanziaria ha creato una situazione di squilibrio generale in cui, come spiega anche Joseph Stiglitz
«l’1 per cento della popolazione controlla più del 40
per cento della ricchezza e riceve più del 20 per cento del reddito.
Inoltre, coloro che si collocano in questo strato così unico ricavano
spesso tali enormi benefici non per aver dato alla società un contributo
maggiore, ma perché sono, per dirla senza giri di parole, dei cacciatori
di rendite di successo (e qualche volta corrotti). […] L’influenza
politica e le pratiche che mortificano la concorrenza (sostenute spesso
dalla politica) sono state, tuttavia, un fattore centrale
nell’approfondirsi delle disparità economiche in tutto il mondo.
Inoltre, il trend è stato rafforzato da sistemi fiscali nei quali un
miliardario come Warren Buffett paga meno tasse della sua segretaria (in
percentuale sul reddito) e gli speculatori, che hanno contribuito a far
collassare l’economia globale, hanno imposizioni fiscali più basse di
chi lavora per vivere. Le ricerche condotte negli ultimi anni
evidenziano l’importanza e il radicamento dei concetti relativi
all’equità tra i cittadini. I dimostranti spagnoli e quelli degli altri
paesi hanno ragione a essere indignati: hanno di fronte un sistema nel
quale i banchieri sono stati salvati, mentre coloro cui essi facevano la
predica sono stati lasciati ad arrangiarsi da soli. Peggio ancora, quei
banchieri sono seduti oggi nuovamente alle loro scrivanie e portano a
casa dei bonus che la maggior parte delle persone che lavorano possono
solo sperare di guadagnare in una intera vita lavorativa, mentre per i
giovani che hanno studiato con impegno e attenendosi alle regole non ci
sono prospettive di un lavoro soddisfacente. […] L’approfondirsi delle
disuguaglianze è il prodotto di un circolo vizioso: i ricchi cacciatori
di rendite usano la loro ricchezza per influenzare le leggi in modo tale
da proteggere ed espandere la loro ricchezza […] e influenza. Con la
nota sentenza del caso Citizens
United, la Corte suprema degli Stati Uniti ha allentato le redini
che limitavano le corporation nell’uso delle risorse al fine di
influenzare la politica. Questo quadro può essere solo costruito in una
democrazia in grado di riflettere gli interessi generali e non solo gli
interessi dell’1 per cento. Non è più sufficiente avere il miglior
governo che si può comprare con il denaro»[11].
Sembra lecito affermare che tutto questo
non rappresenta semplicemente una contrazione particolarmente grave del
ciclo economico ordinario, destinata ad esaurirsi. No. Assistiamo,
invece, all’accelerazione di una crisi endemica di natura politica delle
economie occidentali che va aggravandosi da un quarantennio.
Inoltre, nel corso degli ultimi decenni,
l’industria finanziaria sgravata dai necessari vincoli normativi, si è
conquistata un potere politico talmente grande da bloccare qualsiasi
riforma delle sue operazioni imponendo la pratica della distribuzione
verso l’alto dei profitti raccolti. Questo fatto ha creato un ulteriore
gravissimo squilibrio negli Stati Uniti dove l’egemonia del mercato fa
sentire tutto il suo peso attraverso i contributi illimitati che il
mondo finanziario e industriale può offrire alla campagna elettorale dei
partiti e, tramite le pressioni esercitate sul Congresso, si rivela
capace di aggirare e vanificare i tentativi politici in favore di una
più equa ridistribuzione della ricchezza.
Noam Chomsky lo chiama «Senato virtuale», Les Leopold il «governo segreto di Wall Street»: si tratta del totalitarismo finanziario che controlla lo Stato americano, ma ormai non solo. La propaganda mediatica è un mezzo potentissimo che i potentati finanziari usano in modo massiccio e con ogni mezzo per mistificare la realtà della crisi, per convincere tutti che essa è provocata dal debito pubblico e che, per salvarci, dobbiamo fare duri sacrifici tagliando le spese sociali. Ma il debito pubblico, scrive giustamente Manlio Dinucci, è conseguenza, non causa della crisi. Essa è dovuta al funzionamento stesso del mercato finanziario, dominato da potenti banche e gruppi multinazionali. Le operazioni speculative, effettuate con enormi capitali, creano un artificioso aumento dei prezzi delle azioni e di altri titoli che non corrisponde a un’effettiva crescita dell'economia reale: una «bolla speculativa» che, divenendo economicamente insostenibile, prima o poi esplode provocando una crisi finanziaria. A questo punto intervengono gli Stati con operazioni di «salvataggio», riversando denaro pubblico (e quindi accrescendo il debito) proprio nelle casse delle grandi banche e dei gruppi finanziari privati che hanno provocato la crisi. Solo negli Stati Uniti, l'ultimo «salvataggio» ammonta a oltre 7 mila miliardi di dollari, dieci volte più di quanto ufficialmente dichiarato e circa la metà dell’ammontare complessivo del debito pubblico americano: 15 mila miliardi di dollari. Come questo esproprio e questa rapina assurda possano avvenire lo si può spiegare soltanto ricordando che
«i candidati presidenziali sono finanziati, attraverso «donazioni» e in altri modi, dalle grandi banche, tra cui la Goldman Sachs, e che l'amministrazione Obama, appena entrata in carica, ha nominato in posti chiave loro persone di fiducia, facenti parte della Commissione Trilaterale. La stessa in cui Mario Monti, consulente internazionale della Goldman Sachs e ora capo del governo italiano, riveste il ruolo di presidente del gruppo europeo. Non c'è quindi da stupirsi se il governo segreto di Wall Street impiega, in funzione dei suoi interessi, tutti i mezzi disponibili per incrementare i superprofitti, cui ormai è abituato, anche in tempi di crisi. Non a caso le ultime guerre, effettuate dagli Stati Uniti e dalla Nato, hanno colpito Stati situati nelle aree ricche di petrolio – e non solo – come l’Iraq e la Libia, o con una importante posizione geostrategica, come la Jugoslavia e l’Afghanistan. Stati come l'Iraq di Saddam Hussein, che minacciava di sganciarsi dal dollaro vendendo petrolio in euro e altre valute, o come la Libia di Gheddafi, che programmava di creare il dinaro d'oro quale concorrente del dollaro e promoveva organismi finanziari autonomi dell'Unione africana, il cui sviluppo avrebbe ridotto l'influenza della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. Per analoghe ragioni si prendono ora di mira Siria e Iran»[12].
Crisi e guerra sono due facce della stessa medaglia, anche perché le
multinazionali più importanti, attraverso società controllate, sono
proprietarie delle compagnie private di
contractors, i mercenari o
signori della guerra in Occidente, che intascano ingentissime commesse
pubbliche per fare la guerra in vece degli eserciti regolari[13]. E la guerra fa
crescere la spesa militare che, appesantendo il debito pubblico, impone
ulteriori sacrifici. Basti pensare che l'Italia, come stima l’ultimo
rapporto del Sipri (Stockholm
International Peace Research Institute), è arrivata a una spesa
militare annua di 28 miliardi di euro, all'incirca il costo dell’attuale
manovra finanziaria alla faccia dei ricercatori che scappano all’estero,
di coloro che vorrebbero godersi un periodo di serenità e riposo con una
pensione dignitosa dopo una vita di lavoro e sacrifici per fare soltanto
un paio di esempi eclatanti.
Luciano Gallino ha definito tutto questo
“finanzcapitalismo”: un sistema economico deformato che sembra aver
abbandonato l’idea della produzione di beni e servizi concentrandosi sul
profitto immediato, sulla rendita di posizione, sul parassitismo a
scapito dello Stato. Un sistema che ha superato tutte le precedenti in
pervasività e radicalizzazione del proprio scopo, costituendosi come la
struttura capillare di tutti i sottosistemi sociali, di tutti gli strati
della società, della natura e della persona.
La mega-macchina del finanzcapitalismo è
giunta ad asservire ai propri scopi di estrazione del valore ogni
aspetto come ogni angolo del mondo contemporaneo. Ma il totalitarismo
finanziario ha trionfato non perché è stato in grado di creare un
modello di società più evoluto che ha superato la tradizionale funzione
della politica, ma perché si è trovato di fronte ad un vuoto ideale e
culturale delle nostre classi dirigenti negli ultimi decenni. Il vuoto,
come si sa, non resta mai tale e, infatti, la politica e lo Stato sono
serviti sempre più da mero strumento amministrativo di interessi
privilegiati. Sempre più sono stati identificati i fini dello Stato con
quelli dell’economia finanziaria, dando quindi vita a quella che può
definirsi una dittatura, sembra a tempo indeterminato, del ceto
finanziario. Non è vero che è finita l’epoca dei totalitarismi: siamo
dentro fino al collo, infatti, nell’epoca del totalitarismo finanziario.
In tal modo la politica ha abdicato al proprio compito storico di
incivilire, anche governando l’economia, la vita delle società umane
tradendo proprio il compito di direzione etica insito nella concezione
dello Stato moderno. Ma non ci si è limitati a questo. Il
finanzcapitalismo ha trasformato su scala globale il modo di fare
politica, svuotando di sostanza e di senso il processo democratico.
Mentre la democrazia, intesa nel senso classico del termine, «pur
attraverso una via contorta, parla dell’uomo. Ovvero, parla del
cittadino, ma del cittadino di uno Stato che esiste per far fiorire in
libertà l’uomo»[14]; cosa che, come
risulta evidente da quanto riportato sinora, attualmente non è
possibile. La stragrande maggioranza dei cittadini non può fiorire in
libertà nella moderna polis, ma, quando va bene, riesce a sopravvivere;
e vive appiattita sul problema fondamentale della sopravvivenza. Sono
scarse le possibilità di una formazione completa di una coscienza
storica e politica, scarse le possibilità di esprimere la propria
personalità al massimo livello quando l’obiettivo massimo raggiungibile
è quello di sopravvivere. E questo va a maggior danno di tutti perché lo
Stato è privato apriori di una quantità di potenziali talenti che
sfioriscono e che non possono dare il loro contributo.
Il dominio della finanza, infatti, è
passato dal potere sociale al potere politico ed è giunto ad avere una
solidissima quanto impalpabile egemonia culturale che ha impregnato il
pensiero comune e corrente delle nostre società: «L’ideologia dominante
cerca di venderci proprio l’insicurezza causata dallo smantellamento
dello Stato del Welfare come un’opportunità per nuove libertà: devi
cambiare ogni anno, facendo affidamento su contratti a breve termine
invece che su un impiego stabile a lungo termine. E se questa impasse ti
causa ansia, gli ideologi postmoderni o della “seconda modernità” ti
accuseranno immediatamente di essere incapace di farti carico della
piena libertà, ti accuseranno di sottrarti alla libertà rimanendo
attaccato in modo immaturo a vecchie forme permanenti»[15].
Questo è l’effetto più dannoso di quella
che è stata definita la «narcosi dell’ideologia capitalistica» e della
«dominanza del neoliberismo globale»[16].
Sia in Europa che negli Stati Uniti, le
esigenze delle élite finanziarie si scontrano con la volontà popolare
che viene apertamente ignorata dai governi i quali, in nome
dell’emergenza finanziaria e con l’utilizzo di competenze tecniche,
vengono scelti direttamente dal mondo della finanza al fine di
conservare e difendere la piramide sociale globale così solidamente
costruita in pochi decenni. E a questo proposito l’Europa può essere un
oggetto di studio utilissimo: snaturata dalla privatizzazioni di beni
pubblici, come è avvenuto in Grecia e come sta per avvenire in Italia
perché non si ha il fegato di imporre una vera tassa patrimoniale sui
ricchi. Un’Europa snaturata sul piano politico in cui governa, invece,
un gruppo di esperti, di tecnici al servizio delle banche che senza
alcuna legittimazione democratica impone agli Stati sovrani le politiche
economiche da intraprendere. Un’Unione siffatta non è vista come
democratica dai popoli e inasprisce le chiusure nazionali.
Non ci aiuteranno di certo a costruire
l’Europa i cantori della globalizzazione tecnica ed
economico-finanziaria che per trent’anni hanno promesso maggior
benessere e prosperità per tutti quando, poi, nessuna di quelle promesse
si è realizzata. Gli intellettuali cosiddetti neoliberali dell'economia
finanziaria e di una dispotica tecnocrazia non soddisfatti di aver
contribuito a determinare tutti questi drammatici problemi, continuano
indifferentemente, come se niente fosse, a fornirci ricette per
risolverli. Continuano a predisporre «strategie terapeutiche», diciamo
così, per «malattie» da essi indotte. Strategie terapeutiche che non
fanno altro che indurre altre «malattie» che i loro saperi «scientifici»
si apprestano di nuovo a «guarire». Un circolo vizioso infernale che
dovrebbe essere al più presto spezzato, interrotto. È a questa sfida che
sono chiamati oggi i saperi umanistici, come scrive Piero Bevilacqua.
Una dura sfida nell’epoca del totalitarismo finanziario, del dominio
tecnico dell'economia finanziaria che globalizza flussi di capitali e
carte di credito, ma non sa – o non vuole – globalizzare i diritti,
perfino quello più elementare alla vita. Nell’epoca del totalitarismo
finanziario, infatti, ogni cinque secondi un bambino muore. Per fame e
per malattie. Nell'epoca del dominio incontrastato della tecnica e della
monocultura finanziaria possiamo giustamente ricordare John Maynard
Keynes il quale diceva che quando l'economia si converte interamente
nella finanza lo sviluppo di un Paese diventa il sottoprodotto delle
attività di un casinò.
E oggi il “casinò” è diventato globale.
È la delirante e tracotante egemonia di questa globalizzazione –
dispensatrice di disuguaglianze, iniquità e nuove solitudini – che i
saperi umanistici, come sostiene Bevilacqua, sono chiamati a demolire.
Quei saperi – storia, letteratura, arte, filosofia e via dicendo – sono
sempre più emarginati dalle strutture formative poiché ritenuti
irrilevanti e inutili al potenziamento del funzionalismo
tecno-economico.
È necessario, continua Bevilacqua,
trarre fuori dai loro angusti specialismi le tecno-scienze, soprattutto
quelle economico-finanziarie le quali, interamente asservite al mito
capitalistico dello sviluppo e della crescita illimitata, hanno perso di
vista non solo lo sguardo d'insieme sulla società e sul mondo, ma sono
diventate servizievoli strumenti al servizio dei «famelici appetiti di
breve periodo» dei ceti finanziari dominanti. L’egemonia culturale e
politica del totalitarismo finanziario ha prodotto un’idea di sviluppo
che, scrive Bevilacqua, «ha cancellato il ruolo della natura nel
processo di produzione della ricchezza, trascinando il nostro pianeta
sull'orlo del collasso»[17].
DICEMBRE 2011
[1]
Giorgio Ruffolo, Testa e
croce, Einaudi, Torino 2011; Vedi, John Kenneth Galbraith,
Storia dell’economia,
Rizzoli, Milano 2007.
[2]
Adam Haslett, «Corriere della Sera», 6 dicembre 2011; e il suo
romanzo Union Atlantic,
Einaudi, Torino 2011.
[3]
Luciano Gallino,
Finanzcapitalismo, Einaudi, Torino 2011, p. 106.
[4]
Ibidem, p. 160.
[5]
Giuseppe Cantarano, «il manifesto», 24 novembre 2011.
[6]
Vedi Danilo Taino, «Corriere della Sera», 16 dicembre 2011.
[7]
Vedi Maurizio Molinari, «La Stampa», 16 dicembre 2011.
[8]
Enrico Franceschini, «la Repubblica», 16 dicembre 2011.
[9]
Vedi G. Cantarano, «il manifesto»,
cit.
[10]
Francesco Indovina, «il manifesto», 27 novembre 2011. La
versione integrale dell’articolo si può leggere sul sito
www.sbilanciamoci.info.
[11]
Joseph Stiglitz, «la Repubblica», 9 novembre 2011.
[12]
Manlio Dinucci, «il manifesto», 13 dicembre 2011.
[13]
Stefano Sioli, La
privatizzazione della guerre, «Il Ponte», maggio 2011.
[14]
Carlo Galli, «Liberazione», 20 novembre 2011.
[15]
Slavoj Zizek, Credere,
Meltemi, Roma 2005, p. 171.
[16]
Gianni Ferrara, «il manifesto», 9 novembre 2011.
[17]
A che serve la storia? I
saperi umanistici alla prova della modernità, a cura di
Piero Bevilacqua, Donzelli, Roma 2011. Vedi G. Cantarano, “il
manifesto”, cit.