Inchieste
PENSIERI PER L'INFANZIA
Fiorella Orazzo
Quando preparo i giochi
musicali per i piccoli allievi dei miei laboratori di musica amo
lanciare associazioni di idee che mi aiutino a creare nuove gioie
musicali… Penso alle loro faccine, alle manine piccole che spesso
stringono la mia, ai loro occhi attenti, ai sorrisi e alle lacrime… E
nella mente nascono immagini colorate di grandi voli di aquiloni, di
musica che si incarna in piedini dai passi buffi e tante risate che
nascono da silenzi pieni di emozioni… Ma di tanto in tanto si affaccia
anche qualche immagine poco piacevole, di occhi tristi e pugni chiusi,
di musiche tristi in tonalità minori… E allora cerco di fare in modo che
i nostri incontri musicali diventino momenti in cui i bambini possano
vivere la propria infanzia “da bambini”!
Continuando con un
gioco di associazioni, oggi, nel mondo occidentale, pensando alla parola
bambino credo che alla maggior
parte delle persone verrebbero in mente due categorie di concetti: uno
legato alla purezza, l’innocenza, la spontaneità, l’altra
all’educazione. Sono accostamenti che ci vengono alla mente a causa di
costruzioni intellettuali che oggi abbiamo e che derivano da secoli di
storia. Oggi il bambino è per noi una figura sociale definita e molto
presente, ma per molti versi ancora tanto inesplorata. I termini che
associamo infatti all’immagine del bambino sono la lettura che da adulti
diamo al periodo infantile. Una lettura che viene dal fatto che leghiamo
i nostri ricordi di infanzia a concetti passatici dal contesto sociale.
La purezza, la
spontaneità sono sicuramente delle caratteristiche presenti
nell’infanzia, ma il fatto di riferirle spesso prettamente a tale
periodo mostra come nella concezione contemporanea dell’infanzia ci sia
il pensiero che l’infanzia è un “momento” della vita staccato da tutto
il resto, un momento in cui la mente vuota del bambino deve essere
riempita da concetti e modelli educativi inseriti in tanti piccoli
files dagli adulti, un momento
che insomma educhi i piccoli a diventare grandi. Si concepisce
difficilmente l’infanzia come un periodo importante in sé: il bambino è
un soggetto “incolto” che va coltivato e incentivato a diventare un
adulto perfetto!
Ma come si è giunti a
tali concetti?
La storia dell’idea di
bambino e dell’infanzia è una storia lunga e travagliata.
Passo in rassegna solo
qualche passaggio storico che mi sembra più rilevante.
Nelle antiche culture
il bambino diventava soggetto sociale solo dopo alcuni riti di
riconoscimento che ne designava la “nascita sociale”.
Nel codice di
Hammurabi, redatto tra il 1792 e il 1750 a.C. non si prevedeva nessuna
punizione per il padre infanticida, perché il neonato non godeva di
nessun diritto giuridico ed era esclusiva proprietà del padre. Solo se
il padre danneggiava il bambino dopo i riti di riconoscimento, era
soggetto a delle sanzioni.
Tale concetto del
bambino, come proprietà privata del padre, è perdurata nei secoli, per
molto molto tempo.
Aristotele ammetteva
l’infanticidio per mantenere l’ordine sociale e morale, nei casi in cui
le cure per il neonato prevedessero una sottrazione di beni e risorse
per la famiglia e la società.
Nell’antica Roma il
padre aveva potere di patria
potestas sui figli (come del resto sulle mogli e sugli schiavi) che
arrivava a prevedere il potere di vita e di morte su di essi. Inoltre il
padre aveva sui figli lo ius
exponendi e lo ius noxae dandi,
rispettivamente il diritto di abbandonare il neonato in luoghi pubblici
e quello di consegnare il figlio (che aveva compiuto azioni illecite) ad
altri, per punizione.
Nel Medioevo pian piano
l’importanza del bambino cominciò a prendere piede, soprattutto per
l’accostamento di ogni piccolo nato alla figura di Gesù Bambino. Ma ci
vorrà ancora molto tempo perché si prenda in considerazione l’importanza
dei più piccoli.
Nel Rinascimento il
bambino diventò, soprattutto per le classi più agiate, un soggetto su
cui investire per il futuro: la garanzia del perpetrarsi delle ricchezze
della famiglia.
Sarà solo l’Illuminismo
che aprirà una strada al concetto di bambino in quanto soggetto verso
cui porre attenzione. Ma tale attenzione sarà soprattutto di carattere
medico ed educativo. Sempre nell’ottica di trattare il bambino come un
piccolo adulto.
Nel XIX secolo il
bambino è stato soggetto di intense riflessioni umanistiche ed in
particolare di materie quali la psicologia infantile, la pedagogia
scientifica e la modernissima psicologia dell’età evolutiva e quella
dello sviluppo.
Questo breve excursus
ci mostra come il concetto di bambino sia nato nella storia molto tardi
e ancora oggi mostri molte falle.
Bisogna infine
ricordare che si è giunti oggi anche ad ottimi livelli di riconoscimento
della figura del bambino, e a dimostrazione di ciò menziono la
Convenzione sui Diritti dell’Infanzia del 1989, ancora purtroppo poco
nota ai più. Purtroppo tale attenzione riguarda spesso solo una
piccolissima parte del pianeta. E poi le teorizzazioni sono di frequente
distanti dalla realtà concreta.
Quello che la mia
esperienza mi dice è che siamo ancora molto lontani anche nel mondo
occidentale dal comprendere davvero bene l’importanza dell’infanzia. Da
una parte c’è il fatto che essa viene vista appunto come un’età
evolutiva, come fosse l’unica, come se dopo di essa gli esseri umani
fossero una volta per tutte evoluti ed educati. Questo significa due
cose: 1) che il bambino va a tutti i costi fatto evolvere ed educare; 2)
che l’adulto non va più educato e non ha più bisogno di evolvere.
Analizziamo prima il secondo punto: questa idea porta spesso alla
conseguenza che l’infanzia diventi il momento in cui bisogna riempire
quella scatola vuota che è il cervello infantile per poter meglio
educare il bambino ad essere adulto. L’infanzia è vista così solo come
un momento di preparazione alla vita vera che è la fase adulta. Una fase
di preparazione composta da steps
in cui vanno propinati al bambino concetti che partono dal semplice
e arrivino al complesso come se il bambino fosse un meccanismo in
cui inserire files e farli
rodare. E qui si inserisce il primo punto: il bambino va educato e fatto
evolvere a partire dai concetti che gli adulti che hanno intorno son
convinti di poter passare.
Premesso che non sono
un medico e che credo che il sistema neurologico dell’essere umano si
evolva dalla nascita all’età adulta (ma questa è una cosa che può
constatare chiunque, semplicemente guardando al fatto che un bambino
acquisisce la padronanza del proprio corpo solo con gli anni) credo che
troppo spesso ci si confonda credendo che l’evoluzione fisica sia il
presupposto anche di quella psicologica ed emotiva, in maniera univoca.
Cioè che il fatto che si evolva il sistema neurologico faccia anche
evolvere per forza in una determinata direzione la personalità ed il
carattere di ognuno. Questo dovrebbe significare quindi che un neonato
non abbia quasi per niente carattere e personalità e che il suo entrare
nel mondo sia un’entrata di una mente che parte da “tabula rasa”. Io non
credo per niente in questa visione. La mia esperienza di lavoro con i
bambini in particolare quelli molto piccoli, i neonati appunto, mi dice
che i bambini, anche appena nati, non sono per niente tabula rasa. Essi
hanno già delle caratteristiche emotive e caratteriali ben definite.
Sono profondamente diversi l’uno dall’altro, hanno risposte fisiche ed
emotive enormemente divergenti e come sostiene un libro molto
interessante di qualche anno fa (tradotto in italiano con il titolo “Tuo
figlio è un genio”[1])
i bambini hanno delle capacità che nemmeno immaginiamo: un bambino
intorno ai tre anni di vita è in grado di compiere esperimenti molto
simili a quelli di un’adulta mente da scienziato.
E non è solo una
questione di “possibilità” di apprendimento. Io credo che in qualche
modo la mente bambina sia già in grado di concepire e differire
risposte. Il punto è che non essendoci la possibilità della
comunicazione verbale diventa difficile per un adulto riuscire a
decifrare le risposte dei piccoli. Ciò dipende però soprattutto da
quanto gli adulti sono abituati a pensare: il punto è che molte delle
risposte dei piccoli non vengono neanche lette come tali dagli adulti
perché non si è abituati a leggere determinati atteggiamenti come
risposte.
Da tutto ciò deriva la
mia convinzione che questa società non dia spazio giusto al bambino.
Egli viene visto ancora nella pratica come un adulto mancante di alcuni
pezzi e si fa di tutto per dare quei pezzi al bambino. I modelli di
educazione che prendono piede sempre di più oggi in occidente vedono il
bambino come un soggetto che deve imparare a rendere e a primeggiare e
che ha bisogno di esercitarsi ad essere il vincente di domani. Egli
viene istruito a sapere, conoscere apparire come un piccolo adulto e
anche i suoi giochi e il suo tempo libero devono rispettare tutto
questo.
A scuola (dalla
primaria e in alcuni casi ancora anche in quella dell’infanzia) si
passano ore seduti in piccole aule in cui si pretende che i bambini
imparino a socializzare con le modalità imposte dagli adulti, che a loro
volta hanno spesso subito modelli impositivi. I giochi che si fanno a
scuola e a casa lasciano
sempre meno spazio alla creatività e alla fantasia e pretendono
l’applicazione di una logica di competitività intellettiva e poco si
guarda allo sviluppo emotivo. Per quanto riguarda quest’ultimo in genere
lo si prende in considerazione per catalogarlo in schemi sempre più
rigidi che portano in molti casi a creare delle vere e proprie fobie di
massa come quelle che vedono bambini affetti da
adhd (Sindrome da deficit
di attenzione e iperattività) in ogni bambino più vivace della media (e
preciso che è una cosa molto difficile comprendere quale siano i livelli
di disattenzione, iperattività e impulsività che possono diventare
problematici).
Credo purtroppo che in
questa società dei consumi anche il bambino venga visto come un soggetto
produttivo, qualcuno che debba in qualche modo far parte di quella
schiera dell’Homo Oeconomicus che divora e mangia e vomita tutto ciò che
ha intorno solo per il piacere di consumare. Vedo troppo bambini
sballottati tra un’attività e l’altra (attività spesso concepite dagli
adulti secondo i proprio parametri e senza mai chiedere l’apporto di
menti bambine), per permettere ai genitori di esseri liberi e produrre
di più, e per imparare essi stessi ad essere i futuri uomini della
produzione.
E c’è anche chi infine
rendendosi conto di tutto ciò tenta di “proteggere” i bambini
relegandoli in un mondo fatato di purezza e candore (come accennavo
all’inizio) con il risultato ancora una volta di ridimensionare la vita
del bambino ad una semivita in cui si “entrano” solo alcuni concetti
decisi dagli adulti.
Siamo ancora molto
lontani credo da una comprensione della persona-bambino e
dall’importanza del vivere l’infanzia come dei bambini in quanto tali e
non come “qualcosa che debba diventare qualcos’altro”.
Il bambino non è un
lombrico che deve diventare farfalla, né un angelo che prima o poi
diventerà un triste peccatore: è un essere umano con delle
caratteristiche complesse che vanno rispettate e stimolate. Poco a volte
mi sembra ci sia da mettere nelle teste dei più piccoli, ma molto c’è da
tirar fuori. Mi sembra ci sia bisogno di una moderna maieutica (se una
antica ce ne sia mai stata e non è rimasta solo in un limbo socratico)
che dia spinta ad un nuovo modello pedagogico che poco abbia di
educativo e molto di ascolto ed osservazione dell’infanzia.
Qualche modello
pedagogico qua e là è spuntato nel tempo a dare nuovi spunti ma la
presunzione adulta poco ha dato spazio ad essi.
Mi spingo oltre nella
follia della mia mente e aggiungo due riflessioni:
1. forse a volte è già
troppo anche definire con le parole le persone: dire bambino designa
nella nostra mente già una rappresentazione troppo strutturata e ci dà
già un’immagine falsata e mediata di quello che è in realtà un essere
umano che “semplicemente” ha cinque anni o dieci e non ottanta.
2. A volte analizzando
e ripercorrendo le fasi della mia vita, mi sembra che la mia età adulta
non sia altro che l’estrinsecazione e la messa in opera di quello che
già nell’infanzia avevo intuito e proiettato da qualche parte dentro e
fuori di me, come se la mia vita odierna sia “solo” una messa in opera
di quello che nell’infanzia in qualche maniera già sapevo di me e
desideravo, di qualcosa che da bambina avevo di me già visto e intuito.
Ma la consapevolezza di ciò mi sembra di averla in qualche modo persa
nel tempo per le costruzioni culturali che ho appreso e di doverla ora
recuperare. Mi sembra in definitiva che nell’infanzia sapessi più di
quanto so ora e non per certo per quanto concerne concetti culturali e
pensieri filosofici, ma sicuramente per quello che riguarda la verità
profonda che mi riguarda, in definitiva il “chi sono”. E mi sembra a
volte di dover cercare proprio lì, nei ricordi e nei sentimenti della
mia infanzia le verità che con il tempo ho nascosto sotto ammassi di
credenze indotte su me e sul mondo.
Spesso provo nei miei
laboratori a far preparare ai bambini dei giochi musicali per me…
Ovviamente i loro giochi sono sempre più interessanti, geniali e
complessi di quelli che preparo io… E sono chiaramente più efficaci!
AGOSTO 2011
Bibliografia
- E. Becchi, (a cura di),
Storia dell'educazione, La Nuova Italia, Firenze, 1987
- Cesa - M. Bianchi, E. Scabini, La violenza sui bambini. Immagine e
realtà, Franco Angeli, Milano, 1991
- De Mause, Storia dell'infanzia, Emme, Milano, 1983, in
Campanini A. M., Maltrattamento all'infanzia, La Nuova Italia
Scientifica, Roma, 1993
- F. Du Pasquier,
L'infanzia attraverso i secoli nella cultura occidentale, in De
Cataldo Neuburger (a cura di), Abuso sessuale di minore e processo
penale: ruoli e responsabilità, Cedam, Padova, 1997.
- A. Giallongo, Il bambino medievale.
Educazione ed infanzia nel Medioevo, Dedalo, Bari 1997.
[1]
A. Gopnik, A. N. Meltzoff, P. K. Kuhl,
Tuo figlio è un genio. Le
straordinarie scoperte sulla mente infantile, Dalai Editore,
Milano 2008.