Coscienza di classe e consenso oggi
OLTRE TUTTO.
A dieci anni dall'11 Settembre
Giulia Inverardi
«Io non dimenticherò mai i comizi con cui l'anno scorso i clandestini riempiron le piazze d'Italia per ottenere i permessi di soggiorno. Quei volti distorti, cattivi. Quei pugni alzati, minacciosi. Quelle voci irose che mi riportavano alla Teheran di Khomeini. Non li dimenticherò mai perché mi sentivo offesa dalla loro prepotenza in casa mia, e perché mi sentivo beffata dai ministri che ci dicevano: “Vorremmo rimpatriarli ma non sappiamo dove si nascondono”. Stronzi! In quelle piazze ve n'erano migliaia, e non si nascondevano affatto sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete dalla paura d'andar contro corrente cioè d'apparire razzisti non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata alla rovescia. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. Voluta e dichiarata da una frangia di quella religione, forse, comunque una guerra di religione. Una guerra che essi chiamano Jihad. Guerra Santa. Una guerra che non mira alla conquista del nostro territorio, forse, ma che certamente mira alla conquista delle nostre anime. Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà. All'annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci. Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare, a rendere un po' più intelligente cioè meno bigotto o addirittura non bigotto. E con quello distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza, la nostra morale, i nostri valori, i nostri piaceri... proprio perché è definita da molti secoli e molto precisa, la nostra identità culturale non può sopportare un'ondata migratoria composta da persone che in un modo o nell'altro vogliono cambiare il nostro sistema di vita. I nostri valori. Sto dicendoti che da noi non c'è posto per i muezzin, per i minareti, per i falsi astemi, per il loro fottuto Medioevo, per il loro fottuto chador. E se ci fosse, non glielo darei. Perché equivarrebbe a buttar via Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Michelangelo, Raffaello, il Rinascimento, il Risorgimento, la libertà che ci siamo bene o male conquistati, la nostra Patria. Significherebbe regalargli l'Italia. E io l'Italia non gliela regalo mica».
(Oriana Fallaci,
La rabbia e l’orgoglio)
Dedicato agli uomini
e donne del presidio di Brescia
che non han bisogno
di dediche perché le vie della città si sono dedicate a loro,
che non hanno
bisogno di rispetto perché l'hanno reinventato,
che non hanno
bisogno di lodi da noi perché ci hanno lasciati indietro a guardare.
Hanno bisogno solo
di noi, per il nostro essere uomini e donne
Presenti.
Questo stupido
chiasso mi ha svegliata. E che sonno era il mio, pesante, non ti
immagini. Ma lasciamo perdere, sono già fuori dalla porta stretta (è
sempre stata così stretta?) e sono tanto arrabbiata che più che scendere
in strada sbotto su, come un tappo: non sopporto che mi si distolga
dalla mia strada, che sia sonno o veglia, per cosa poi? Danze, strepiti
sconnessi, risate fragorose. Una festa? A quest'ora, e in strada?!
Eccoli i disturbatori; la notte è già cominciata, senza dubbio, c’è buio
e oltre al drappello di persone multicolori non c’è nessuno, in giro. È
notte e questi ancora a fare chiasso. Musica, mangiafuoco e vocine.
Quante vocine… bambini? Che importa! Fanno baccano, e tolgono la gente
dai sonni profondi. Mi avvicino per capire di che si tratta, ma dal
gruppo compatto schizza una bambina in una traiettoria senza guida, e
inaspettatamente me la trovo davanti. Avrà due anni, sorride come il
sole quando brilla più della tua sopportazione; tende le mani a me e a
ciò che porto in mano, e al suo gesto mi accorgo di avere con me il mio
quaderno di scrittura. Non glielo darei per niente al mondo!, ma ora che
il sorriso rientra un poco la vedo meglio e paurosamente mi stupisco,
questa bambina è identica a me, la me bambina! Sai, è quel genere di
scoperte che nascono e si compiono in un millisecondo e ti terrorizzano
per la loro straordinarietà. Sì, questa bambinetta antipatica (la sua
impertinente socialità non fa per me) è uguale a me da piccola, tranne
che per la carnagione più olivastra: treccine di capelli crespi, sguardo
fisso senza timori e un sopracciglio appena più alto dell’altro,
nell’espressione costantemente interrogativa. E che vuole questa
mini-me? Siamo troppo facili noi donne a psicanalizzazioni da
dilettanti, cediamo spesso alla risposta non più veritiera, ma più
calda; insomma, a te posso confessarlo, mi lascio conquistare dall’idea
che questa bambina sia venuta a ricongiungersi alla mini-me di allora e
d’Italia, mentre lei è di ora e di altrove – o è di qui? Comunque emette
stridolini di gioia, d’improvviso, e non ti so dire, fa due o tre gesti
che vorrei dipingere, fotografare, dire, così semplici e veloci, così
pieni di entusiasmo…ma sì, nulla di che, è solo che non aveva visto il
gatto fra le mie gambe (nemmeno io in effetti, anche se è il mio gatto
storico), non se lo aspettava e il suo piccolo viso scoppia di
un’espressione brutta e bellissima, bocca spalancata, sopracciglia
alzate quasi oltre la fronte, è un cerchio che si dilata e illumina, e
poi lei comincia i saltelli frenetici, su un piede e sull’altro e batte
le mani, e ride a perdere il respiro con una voce di uccellino
scatenato. Tuttavia, il gatto passa subito in secondo piano; la bambina
torna a reclamare il quaderno di scrittura. Come dire, non posso non
porgerglielo, no? Sulle prime all’erta nel timore che bambinescamente
possa romperlo o imbrattarlo, poi tranquilla, è una donna in miniatura
che lo tiene e lo guarda intensamente. E subito, con un gesto che spunta
dalla sua piccola umanità gestuale, lo bacia, fermando per qualche
secondo dilatato le labbra sulla copertina. Sempre con il sorriso me lo
restituisce, e corre via incontro ad un uomo che la raccoglie fra le
braccia, dopo averla chiamata con un nome scivoloso. Il padre ha lo
stesso sorriso e lo tiene sulle labbra dicendole: «Dove scappi sempre?»,
e abbassa il capo come a salutarmi senza vedermi.
Che curioso
incontro. Ma sono ancora arrabbiata, non credano! Porto il mio sonno
interrotto sulla faccia a mo’ di bandiera di guerra. Decisa ad ottenere
giustizia e scuse, avanzo verso il gruppetto: saranno meno di un
centinaio, tutti stretti a circolo in una piazzetta che non riconosco.
Dove sono? Perché non sono a New York? Sono confusa, ma sono certamente
in Italia... Invece di braccare come mia abitudine ogni questione,
terrorizzata che una lasciata sospesa mi prenda a tradimento, queste le
mando via, perché qua c'è da capire chi sono gli sfaticati che fan
casino invece di dormire, e non lasciano dormire chi lavora domattina
(ma io lavoro domattina? Non ricordo... Scrivo ancora? La testa pesa e
il sonno da cui mi sono svegliata era infrangibile...). Ormai sono al
muro di spalle, che mi fronteggiano in un'esclusione offensiva. Queste
persone celebrano qualcosa senza di me, a mio discapito, e non posso
nemmeno vedere, che fanno?! Inquadro lo spazio attorno e mi colpisce la
sua dimensione mista: è un esterno, eppure sembra un interno domestico.
Come in una cucina qualsiasi, ci sono tavoli con cibi, ma sono a portata
di mano e non ci sono muri a proteggere l’intimità casalinga; c’è anche
l'angolo della raccolta differenziata, tipica della famiglia civile, che
però è aperto a chiunque voglia gettarci la sua cartaccia, e non è una
raccolta normale: “carta”, “plastica”, “vetro”, “razzisti-leghisti”. Ora
intuisco di che ritrovo si tratta e mi sorge il fastidio immediato, il
fatto è inaccettabile! Gente ospite nella mia Italia si permette di
occuparne una piazza, per bivaccare e predicare la guerra santa e…
Eppure, mi ammoniscono la raccolta differenziata e la domesticità
aperta, mi ammoniscono la bambina con il suo sorriso lungo come
l’equatore, e una voce insieme stentata e stentorea: parla di diritti,
di lavoro, di legalità, sai quanto queste cose mi scaldino, e sono
combattuta, puoi immaginartelo, fra l’inaccettabile occupazione e
l’inaccettabile unità che questi esprimono. Sto sospesa a questi accenti
imprevedibili, stupita che discorsi a me così cari siano rafforzati in
questo italiano rinato.
*
Le sedie sono
disposte ordinatamente in circolo, lo seguo e mi ritrovo così, senza
contrasti, oltre il muro. Dentro, un baracchino di bevande e una gru in
legno, sulla quale faccio appena in tempo a scorgere alcuni biglietti:
«A mia madre!!! 22 giugno 2006 – 22 giugno 2011. Non ho ancora pregato
sulla tua tomba!!!», «Come in Egitto, come in Tunisia, sarà la piazza a
cacciarvi via!», «Finirà la lotta per i permessi, continuerà la lotta
per i diritti di ogni uomo e donna», perché il biglietto seguente, «Jimi
sindaco, Haroun prefetto, Rachid vice questore!» mi dà l’istantanea di
questa bella città italiana (Bergamo? Verona?) governata da una simile
manica di estranei, gente con idee così lontane dalle nostre, gente
che... Una voce mi blocca la ricerca di contrasto, perché è una voce
italiana. Che ci fanno italiani qui in mezzo? I soliti coglioni, i
soliti deboli! Guardo le facce attorno, sì parecchi potrebbero essere
italiani, si vede dai vestiti, dagli occhi, dai modi. E questa ragazza,
non la vedo ma è certamente italiana, con una voce timorosa legge un
testo che ha un ritmo familiare:
«Io non dimenticherò
mai i comizi ai quali ho partecipato di persona. Volti sorridenti,
buoni, che mi accolgono e chiedono com’è andata la mia settimana, con
una schiettezza e un’umanità che mi ritornano familiari. Mani abbassate
a mostrare la loro normalità; voci che lanciano slogan di pace, più
conviviali per le cadenze insolite.
So che neanche i
politici più stronzi, che promettono severità per poi lucrare sulla
clandestinità, possono più sparare che li arresteranno tutti o li
respingeranno a cannonate: ne arresteranno qualcuno, qualcuno morirà in
carcere o nei cie, e
qualche italiano dirà che se l’è meritato. Non so come si possa meritare
di morire d’asma, ma El Hadj non aveva rubato, ucciso, stuprato: aveva
solo perso il permesso perché licenziato, dopo anni di lavoro regolare.
Un quasi cittadino.
Intimiditi come
siete dalla paura di andar contro corrente, di apparire deboli e privi
di vuoto nazionalismo, non capite o non volete capire che qui è in atto
la solita storia del mondo, i poveri finiscono per strada e vedono
quanta ricchezza finisce nei cassonetti dei ricchi.
Abituati come siete
al doppio gioco, sputate sugli uomini in arrivo ma vi fa comodo il loro
lavoro per reggere il nostro paese di senza midollo, e non penso ai “non
abbastanza umili per” rinnegare le proprie aspirazioni, ma ai non
abbastanza coraggiosi per riprendersi la possibilità di quelle
ambizioni. Doppiogiochisti, fate i duri e predicate un amore
discriminante verso il prossimo (“no, non questo, il prossimo; no,
questo no, quello dopo…”). Doppiogiochisti, dite che la pagliuzza
nell’occhio altrui è una trave, per nascondere il marcio del nostro modo
di vivere.
Accecati come siete
dalla miopia, vi beate di quello che i paraocchi vi lasciano vedere,
tessete sistemi di ragionamenti sull’unico grado dei 360 che
intravedete, e digrignate i denti se qualcuno vi suggerisce che un grado
non è il mondo.
Non capite o non
volete capire che qui non è in atto una guerra di religione, ma una
disperata odissea della speranza, e che le religioni sono da contrastare
tutte quando si sostituiscono a cuore e cervello dell’uomo. La guerra
santa è quella che dovremmo condurre contro la religione quando
sequestra l'uomo, quando è un prete che invita a lasciar perdere le
inutili scienze, perché “la verità ve la dice solo Gesù”. L’odissea
della speranza, invece, mira solo alla conquista di una dignità minima,
e se sarà sorretta porterà finalmente all’annientamento del nostro modo
di vivere sicuri e rabbiosi, di non divertirci ma dimenticare, di non
informarci o fingere di farlo. Non capite o non volete capire che se non
ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, il conformismo
vincerà: saremo tutti uguali, tutti incapaci di collegare due eventi e
trarne una conclusione libera; magari studieremo, ma non saremo capaci
di applicare il senso di una cosa studiata alla realtà, e riconosceremo
un genocidio solo se ci sono ebrei e tedeschi. Vincerà la diseguaglianza
benedetta e distruggerà il mondo che vorremmo costruire, anche se con
questo sistema di soprusi in giacca e cravatta si è già distrutta la
nostra cultura, la nostra arte, la nostra scienza moribonda.
Proprio perché non è
mai esistita che vagamente, ed è sempre derivata da scambi e incontri,
la nostra identità culturale non può che morire senza l’apporto di
uomini d’altrove, a cui non importa granché di cambiare il nostro
sistema di vita, già è tanto se migliorano il loro. Insomma, io mica
gliela regalo l’Italia: non si può regalare a nessuno ciò che non si
possiede. Perché cos’è l’identità culturale? Uno di quei concetti
sedativi, con cui riempiamo il nostro vuoto esistenziale: invece di
elaborarlo traendone una morale reale, lo lasciamo montare in una paura
di brace. Identità culturale, comunità nazionale, appartenenza
religiosa, sono tutte cappe sulla libertà della vita, se
strumentalizzate e armate. I nostri valori, poi, quali sono davvero? La
povertà ai poveri, la ricchezza monopolio dei pochi, e così cultura,
viaggi, influenza sulla realtà.
Sto dicendoti che
vicino a me non c’è posto per i preti che ci trattano come animali in
gabbia, per i campanili che spandono anatemi contro scienza, sessualità
e logica. Sto dicendo che chi arriva in Italia ha diritto di credere al
suo dio, anche se io credo non ne esista alcuno, e di avere il suo luogo
di culto, aggiunto alle dodici chiese in ogni paesello. Ha diritto a
praticare il suo culto e percorrere le vie del pensiero, arrivando spero
non al campanile, ma all’università e alla strada; che arrivi anche a
Dante, Michelangelo e altri luoghi comuni della nostra muta cultura a
cui, privi di identità reale, ci tocca risalire per sentirci italiani.
Mi riferisco a Gaber perché la nostra cultura è dannosa se sta lì
inerte, se non esce dal baule e cammina in ogni luogo, fra gli uomini.
Allora auguro a queste persone d’altrove di percorrere una strada
ulteriore, che usi e vada oltre il Rinascimento, l’Inquisizione,
l’Ottocento, le bassezze del Novecento e quelle di inizio millennio, in
cui ad insegnare qualcosa agli altri non siamo stati certo noi, conigli
e pecore.
Per tutto questo,
liquidiamo presto i profeti di odio coronati di falsa cultura. Non
dobbiamo combattere loro, ma ciò da cui si originano; per farlo dovremo
arginare i soldati-automi da loro prodotti, con informazione e
inflessibilità, ma sapendo che nemmeno loro sono il nostro obiettivo. Il
nostro obiettivo è molto più grande».
In un getto di
musica che innalza e fa prorompenti le ultime parole, mi trovo sbattuta
di nuovo dietro il muro di spalle: la festa mi lascia indietro
orgogliosa di sé, indipendentemente dal mio parere. Questo, e la parodia
sprezzante del mio scritto appena udita, mi fanno arrabbiare più di
prima, e la musica a maggior irrisione si fa intensa, ritmi equatoriali,
la gente tutta in piedi… Scorgo due sagome, due donne nere: una più
bassa, con una veste e un copricapo rossi bordati di ricami dorati,
l'altra, di una snellezza imponente, porta un abito nerissimo e un
turbante con costellazioni di paillettes qua e là. Le donne sono al
centro del cerchio, perdono il controllo del corpo che si fa figura del
tamburo e della terra, ogni muscolo lancia la sua sciolta percussione e
mentre si muovono tutte, mentre vola via il turbante rosso, si rivolgono
espressioni caricaturali in successione, terrore, gioia, stupore. Ma
inaspettato il tempo si ferma e imprime il momento su di me, come quando
ero in battaglia, sai quei momenti in cui tutto trattiene il respiro: la
ragazza snella è ferma, congiunge le mani sul ventre, alza il capo largo
sul collo esile, mi vede, mi punta, lentamente scorre verso di me, tutto
nell’unico fotogramma. La ragazza è un cipresso scuro che non muove
passi, scorre, e tutto il circolo dietro è proteso verso la sua forza
snella e la esalta, esaltato dall'alone che scorre attorno a lei e
mormora: «Io ti vedo, gli altri no, e ti conosco».
«Come non mi vedono?
Mi ignorano, direi piuttosto... Ma forse lei non è pratica della lingua.
E come fa a conoscermi?».
«Ho letto i tuoi
libri, tutti», e in un respiro, aggiunge: «Anche gli ultimi. Seguimi
Oriana».
**
La donna mi scivola
a fianco lanciando scintille di forza. Mi volto e vedo il tempo
rianimarsi, insieme alla mia confusione; nella mia vita non sono mancate
le situazioni misteriose e avventurose, lo sai bene, eppure stasera c’è
nell’aria qualcosa di fremente e cupo. Ci inoltriamo in una viuzza che è
una colonia straniera su suolo italiano: cucina pakistana (che profumo
dolcissimo!), kebap turco, poi pakistano (manca quello tunisino, e
poi?!), ristorante cinese (fritto), cucina marocchina e italiana
(figurarsi!). La giovane donna si arresta ad un incrocio e volta il capo
verso una piccola piazza (forse siamo in una cittadina toscana…): un
campanile romanico svetta da un abside in mattoni cotti, abbracciato da
una cancellata antica a forma di semicerchio, ad un lato della quale sta
una fontana che riluce biancore nel buio, e i suoi tre mascheroni
soffiano a rinfrescare la sera d'estate (è estate, non sento il caldo
sulla pelle). La piazza è chiusa da alti palazzi medievali, e oltre una
terrazza verdeggiante si scorge una gru blu e gialla. Siamo sedute ad un
tavolino affianco alla fontana, ci fa compagnia solo un ombrellone
chiuso. Anche per la solitudine scura le parole lente mi fanno
sussultare: «Come può una donna, dopo aver scritto bei libri, viaggiato
e molto amato, scrivere infine quello?». Il tono della giovane è
granito, come la sua fronte sugli occhi perfetti e nitidi. Non c'è
accusa nella voce, ma stanchezza.
«Cos'è
quello?».
«Quello.
Quello con cui hai cominciato con l’odio».
«Ho solo avuto il
coraggio di scrivere cose che molti, moltissimi pensano, ma sono troppo
deboli per dire»; resto neutra nella postura e nel toni, anch’io sono
granito.
«Non ne dubito. Ma
il tuo non è coraggio. Io respingo i tuoi argomenti e le tue tecniche
perché sono non veri e opachi, hanno secondi fini per niente nobili».
La mia rabbia e il
mio orgoglio divampano nonostante la coltre di granito, si lancerebbero
contro questa donna sicura, che dipende tutta e solo da se stessa. Ha la
mia ammirazione sotterranea, ma la vera battagliera sono io. Penso
allora alla strategia per una vittoria su tutti i fronti, ma la voce
cantilenante mi arresta senza mosse: «"Mi
chiedi di parlare, stavolta. […] E lo faccio. Perché ho saputo che anche
in Italia alcuni gioiscono come l'altra sera alla Tv gioivano i
palestinesi di Gaza. “Vittoria! Vittoria!”. Uomini, donne, bambini.
Ammesso che chi fa una cosa simile possa essere definito uomo, donna,
bambino. […]
E sono molto molto, molto arrabbiata. Arrabbiata d'una rabbia fredda,
lucida, razionale. Una rabbia che elimina ogni distacco, ogni
indulgenza"».
Cita a memoria l'incipit dell’articolo? Ne sono lusingata, sai che
apprezzo queste cose, ma insieme mi sorge un timore...
«Non è veritiero ed è opaco il tuo scrivere della rabbia, della
violenza, e il loro monopolio. Certo non si può condividere, se
qualcuno ha davvero festeggiato la morte. Ma tu parti dalla tua rabbia
ed è l’unica che vedi: è la tua guerra santa, fatta di una sola rabbia
costruita, dalla quale togli voce a chi sta oltre. Ma io so che ci sono
mille rabbie vere, e so che il tuo elenco di fatti e motivi per rendere
legittima la tua rabbia è molto più corto del mio. Io ho tanti fatti
quanti miliardi di persone che non conosco, o quanti le mille facce che
conosco e ho perso, o come le centinaia di fatti gravissimi che ho
studiato, intendo fra altre le azioni riprovevoli di quella nazione che
esalti, in quello, come esempio da seguire».
Ora sarà travolta, questa… questa, ah! Non so nemmeno come chiamarla,
non si lascia dare nomi, no, mi sfugge! Sai quante cose posso
ribatterle, immagina come la zittirei! C'è un solo problema: quelle di
questa donna non sono parole, sono un unico fiume che scorre naturale,
senza appigli, né autore o destinazione. Non aprendo neppure la bocca,
la sua voce bassa, roca, avanza con minima variazione di tono, e il suo
italiano appena incerto è avvincente: la parola, soppesata un attimo dal
controllo della non maternità, ne riceve slancio e imprevedibilità. Il
suo è un racconto fluviale e sai quanto i racconti mi intrigano, mi
avvolgono... La tempesta allora si carica, mentre il fiume scorre e si
ingrossa:
«La violenza non mi piace, non dovrebbe piacere a nessuno, soprattutto
se nasce da una rabbia costruita con secondi fini. Ma mi chiedo invece
come chiedere agli uomini di ingoiare la loro rabbia, quando è vera e
trasparente. Io parlo della loro rabbia ora, che non chiamo giusta o
santa o sbagliata. Chi sono per chiamarla? Non parlo di me, ma di un
uomo che conoscevo, ad esempio: si chiamava El Hadj, la sua storia non
puoi averla sentita da dove stai. El Hadj lavorava in Italia da ben 15
anni cioè una vita, era diventato regolare; lo dico perché per molti
questo marchio, 'regolare', cambia tutta la qualità di una persona. Lui
però ha perso il lavoro, quindi il permesso di soggiorno; una sera è
stato fermato dai carabinieri e rinchiuso in caserma: da quella caserma
non è più uscito, è morto di asma e di rabbia malevola, con secondi
fini. E io penso, quella legge è stata fatta da uomini, e poi da uomini
di giustizia è stata annullata, insomma: El Hadj non doveva stare in
caserma o in carcere, perché il fatto non sussiste. Allora, per
che cosa è morto? Non per una colpa, non come punizione per un gesto
cattivo: è morto solo perché è stato promosso a legge l’odio, il
rinchiudere un uomo solo per la sua provenienza. E questa ingiustizia,
che ha subito uno e che possono subire centinaia di migliaia di El Hadj,
chi la capovolge e ripara? La non uguaglianza che succede ogni secondo
non legittima violenza da chi violenza subisce a ogni sguardo che alza?
La rabbia più giusta di chi è? So che io non ho il monopolio della
rabbia e nessuno deve averlo: ti impedisce di vedere le rabbie enormi
che crepitano nel mondo, davanti alle quali la tua piccola si
scioglierebbe come una bolla di sapone. E intanto i torti sulla terra
salgono e diventano montagne, perché nessuno se ne fa carico e molti li
aumentano per sfruttarli. Un giorno, però, io credo che i torti
ammassati in una piramide di pietre cadranno e pioveranno su tutti,
perché quelli che subiscono l’ingiustizia sono uomini schiacciati e non
pietre. Infine, non esiste rabbia razionale: ciò che elimina un distacco
non è ragionamento, è impulso. L’impulso può avere la sua bellezza, ma
non è ragione, non è verità».
***
Ancora avvinta dallo srotolarsi del fiume, che si sospende quando
incontra un’insenatura, sussulto vedendo di lato a me, in piedi, un
ragazzo dai tratti particolari, non capisco da dove arrivi con quel
largo sorriso un po’ messicano (sai quanto odio i messicani!), un po’
orientale. Accende una candela rossa sulla tavola, fra me e la giovane
donna, e se ne va.
«Lui si chiama Rajat. Dall'India è arrivato in aereo fino a Mosca, e poi
fin qui a piedi, in anni di cammino».
Io vorrei, ammetto che vorrei fermare Rajat e chiedergli la sua storia,
sai che amo le storie, ma il fiume ha già sorpassato d’impeto la curva:
«"Ho avuto la sensazione d'un pericolo che forse non mi avrebbe toccato
ma che certo mi riguardava. La sensazione che si prova […] in
combattimento, quando con ogni poro della tua pelle senti la pallottola
o il razzo che arriva, e rizzi gli orecchi e gridi a chi ti sta accanto:
“Down! Get down!”. L' ho respinta. Non ero mica in Vietnam, non ero mica
in una delle tante e fottutissime guerre che sin dalla Seconda Guerra
Mondiale hanno seviziato la mia vita!
Non è veritiero ed è opaco il tuo scrivere della guerra. Tu hai scritto
che la guerra su di te ha un fascino forte, ma quelle sensazioni
avventurose per te sono solo una parentesi di vita: anche un bambino
sentirebbe che è feroce esaltarle, guardando da dentro gli occhi di chi
è tutti i giorni in una ‘tragedia monotona’, senza gloria. Non esiste la
libertà di amare la guerra, perché questa preme sofferenza nella vita
degli uomini, soffoca non chi rischia e sceglie di rischiare, ma chi
muore e vede morire tutti i giorni, chi ha il terrore della fame, del
dolore ogni giorno, addosso e nel respiro: lo puoi sentire? Tu hai visto
la guerra dalla tua posizione di inviata, libera, ma la guerra è di chi
la subisce in catene e non può uscire per sentirsi vivo, di chi vive con
la morte sempre dentro e addosso. Le tue parole sono un insulto
crudele».
Scuoto il capo con sdegno per riprendere la mia legittimazione, per
ribattere a queste scempiaggini, ma un serpente di fiume mi stringe
lento, in un lento cerchio che mormora: «E ti sei stupita che la gente
si buttasse dai grattacieli, ma avrai visto chi per scappare da
bombardamenti e saccheggi, perde la vita, o le famiglie in Vietnam che
si sono suicidate per sfuggire alla fame del dopo guerra. E non puoi non
vedere che la nostra immigrazione è un gettarsi da un grattacielo dove
arderemmo vivi come gli alberi, mentre una speranza è forse nascosta nel
vuoto, nel deserto e nel mare. Dici: “Io credevo di aver visto tutto
alla guerra. Dalle guerre mi ritenevo vaccinata”. Questo non è una prova
di esperienza, è una confessione di una tua incapacità: se sei vaccinata
non hai imparato dalle sofferenze, e le usi come arma invece che come
chiave e difesa. L’11 settembre deve essere peggio di altri attentati,
perché tu come un dio di parte lo affermi, ma è stato orribile come gli
altri e tu sei solo una donna. Noi invece siamo popoli interi e per
questo ognuno di noi è un popolo di testimonianze. Dici che non hai mai
visto più di 500 morti per combattimento, ma questo non vuol dire che
non ce ne sono mai stati, e se ne sono morti 3000 in una volta è più
ingiusto che se ne muoiono 100 tutti i giorni, di ‘nascosto’? Anche la
conta e la bilancia dei morti è una cosa indegna».
Mi alzo di scatto buttando a terra il serpente di fiume; punto gli occhi
in quelli della donna, ma li trovo calmi e dondolanti, e in essi mi
specchio. Chiudo gli occhi, li riapro: lei è lì con gli stessi occhi. Mi
siedo, ma non pensare che mi arrenda, no! Voglio vedere dove andrà,
voglio sgominarlo questo fiume che sembra non voler andare da nessuna
parte. Il tuono e le nubi si arrotolano su se stesse, dico solo: «Io non
conto i morti. Era per citare dati precisi».
«I dati precisi sono quelli che vedono tutto e lo mettono nel quadro
generale, non quelli che contano i morti di un combattimento come
esempio di tutto. Ma c’è di peggio: fingi di stupirti che alcuni soldati
americani in Vietnam diano sepoltura ai cadaveri degli altri, dopo un
combattimento. Vuoi che sia esempio di compassione, ma non lo è, li
hanno uccisi loro quegli uomini, come falchi! E peggio ancora, scrivi
che gli Stati Uniti sono coraggiosi a fare la guerra, “per punire i
responsabili”, ma è una cosa falsa: non voglio dire che la guerra
punisce altri insieme, ma che non prende per niente i responsabili. Sai
che nessuna guerra ha davvero moventi nobili, e allora mi chiedo come
puoi essere così amica della guerra e prendere la responsabilità di
scriverlo. Ti disegni la figura di donna eroica che vede la guerra come
un’amica scorbutica, necessaria: così non usi il sangue dei morti per
barrare ogni odio e violenza che possono portare alla guerra, ma ti
nutri di quel sangue. Allora c’è una sola spiegazione: tu i morti non li
hai visti, non importa quanta esperienza hai, non hai sentito il dolore,
la paura che punge, la follia negli occhi. Hai sentito solo la tua
esaltazione».
Sai quanto è complesso il mio rapporto con la guerra, non riassumibile
in quattro parole. Per questo, le nubi si assottigliano, e il tuono,
sapendo di non poter fermare il fiume, si fa fulmine per illuminarlo con
la sua forza. Quando sto per sfoderarlo, però, mi anticipa un uomo,
robusto e con le gambe arcuate, che avanza verso di noi nel buio ormai
fondo. Regge qualcosa, ma mi distrae dall’indagine il suo sguardo,
incredibilmente severo. Non dice nulla, ma percepisco le sue parole
abituali di persona comunicativa (strano no? Ho grande intuito, ma di
queste percezioni così precise non ne ho mai avute!). L’arabo appoggia
un vassoio sul tavolo: due bicchierini stretti per il tè alla menta e
una teiera stanno al centro di un piatto, ricolmo di datteri e biscotti.
L’uomo se ne va, la donna mi versa un tè profumatissimo con pinoli
sospesi; insieme al fluire lento del tè nel bicchiere, rifluisce il
fiume: «Non è veritiero ed è opaco il tuo scrivere degli altri, perché
se non ti immedesimi non troverai mai le tracce della verità.
Molte questioni complesse non le guardi, le cancelli solo con la rabbia
che ti prende appena ti toccano. Ma una persona che si arrabbia solo,
che non usa il cervello e il cuore, dove ha nascosto la sua umanità? Tu
dici: “Che schifo!”, o “Vergogna!”, o “Scimunite!”, e il tuo essere
umana è tutto lì. Sull’azione dei kamikaze, così difficile da capire da
un punto di vista sociale e umano, hai da dire solo “mi sono sempre
stati antipatici”. Ma è inutile, niente cambia se a te stanno
antipatici, niente migliora! Mi impressiona che per te questo è il
punto, spargere odio e antipatie. Non ti importa capire perché esseri
umani fanno atti così innaturali, quindi non vuoi lasciare un segno nel
mondo e in te, cercando la verità. Tu vuoi produrre rabbia: non so se
così combatti la paura di perdere benessere, e credi di mantenere
equilibrio e privilegi, ma finisci per essere solo sdegno presuntuoso».
La giovane donna per la prima volta abbassa gli occhi lasciando i miei
sbarrati, li affonda nella candela rossa tondeggiante, e quando li
rialza sono carichi di fuoco: «C’è una frase che amo più di tutte quelle
che ho letto, dice: “Il problema non è se avremo o non avremo le forze,
il problema è se consentiremo a noi stessi di lasciare questa donna qui.
Questo no – allora le forze bisognerà trovarle”. Le forze si trovano, è
questione solo di priorità. L’unico, l’unico problema è che la priorità
di tanti uomini non è capire e migliorare le cose per tutti, e
vedrebbero che è possibile con un po’ di eguaglianza, ma odiare, perché
l’odio è una matita facile che dà tratti a noi stessi, contro gli altri
oltre la linea».
Il ritmo delle parole è conciliante, ma le disquisizioni esistenziali
non fanno presa su di me: la sua frase preferita, le sue conclusioni non
parlano di me. Ma la donna ha un lampo fulmineo negli occhi tanto
lucenti da parere bianchi, ha colto qualcosa?: «Così è l’esibizione che
domina qui. Anche quella serve solo a darsi un volto, che però è un
calco».
«A cosa alludi? Io odio l’esternazione!», subito mi accorgo di averle
dato del “tu” e me ne dispiaccio, che debolezza!
«Parli sempre della tua malattia non in tono discreto, per informare o
essere vicina a altri, ma in tono singolare, epico; fai della tua
malattia l’occasione delle occasioni per disegnarti donna di ferro. Ma è
chiaro che chiedi approvazione e adorazione nel momento in cui prendi
quel tono, e per questo duramente rispondi a chi ironizza non sulla tua
malattia, ma sul tuo atteggiamento di guerra. Vuoi mantenere quel
disegno, e il monopolio di ogni senso, della vita, della religione,
dell’uccidersi, del giornalismo, della politica, ma hai dimenticato che
il mondo è vario quanto le persone».
«Lo so bene, di essere un granello di sabbia. Ma la mia visione è più
lucida e coraggiosa, ecco tutto», piccolo fulmine, perché così piccolo?!
Insegui quel fiume, sfodera la tua luce!
«Per essere lucida la tua
visione ha bisogno di immedesimazione, e non per buonismo, ma perché la
verità non è vera se non è di tutti. La verità non è un pezzo di carta
unico, è piuttosto una strada infinita, che però è progressiva e puoi
camminarci dentro; per farlo, ci sono tante false strade da evitare,
tutte le grosse non verità costruite con cattive intenzioni, e tante
armi, come l’immedesimazione, l’informazione, la compassione.
Scrivi che gli Stati Uniti dovrebbero vietare a tutti gli islamici certe
azioni e facoltà universitarie. Vuoi far credere che questo avrebbe
evitato la strage e ne eviterebbe altre, ma al contrario queste nascono
perché pensieri e leggi fanno “di tutta l’erba un fascio” e danno fuoco
ai contrasti. Ti chiedo: se gli Stati Uniti facessero una legge così,
che comprendesse anche gli italiani mafiosi, diresti che tu sei
l’eccezione perché non ti sogni di fare stragi? O ti accorgeresti che
ogni inclusione che si basa solo su nazionalità, religione, opinione
politica, è ingiusta e non vera?».
«Penserei che se sono discriminati, gli italiani han fatto qualcosa per
meritarselo: il rispetto si guadagna, non è un regalo!».
«Ma non è veritiero ed è opaco anche questo, il tuo scrivere del
rispetto e dei diritti. Tu hai dato un diploma di bontà all’idea
pericolosa che i diritti e il rispetto sono merci di scambio.
Invece non c’è giustizia in terra se non c’è rispetto e diritti a
priori fra gli esseri umani. Dici che non ha senso rispettare chi non ci
rispetta, ma è il contrario, il rispetto si nutre solo del rispetto: chi
non ti rispetta fa lo stesso sbaglio perché si sente non rispettato, e
così in un circolo senza fondo o colpevole. Solo il rispetto a priori
può fermare la strage, e non è un rispetto ingenuo che giustifica, è
sulla base dell’umanità degli esseri umani, tutti con una razionalità e
un sentire. Un uomo resta sempre un uomo e merita certi diritti solo
perché è umano, non dovrebbe mai subire quelle violenze sulla sua vita.
Questa è la sola regola che può far vincere giustizia e pace, mentre se
non c’è, la dignità della persona subisce valutazioni, interpretazioni,
leggi che possono arrivare a essere criminali, come nei regimi, come per
El Hadj. Tu invece hai messo un timbro di lode per questa idea facile
come un fucile, e scrivi che cercare di capire vuol dire perdonare o
cancellare e lasciarsi dominare. Dici che chi festeggia per l’attacco
alle torri non merita di essere definito ‘uomo’, ma non è così: merita
che si capisca perché lo fa e si contrasti il suo errore. Da questo fare
mercato dei diritti nasce il più assurdo dei tuoi argomenti non
veritieri: noi migranti non abbiamo diritto a protestare, perché tu nei
nostri paesi non potresti fare molte cose. Fingi di non sapere troppo:
che poter protestare e esprimere la propria idea sono conquiste di
questa civiltà che esalti; che sono anche diritti umani e noi siamo
umani, così simili a te che per scrivere queste cose devi rifiutarlo;
che protestiamo per uscire da quella illegalità che tu condanni; che
guardare indietro sulla via della giustizia, invece che avanti ai paesi
con più diritti, è una sconfitta della civiltà; che i migranti fanno
bene a chiedere quei diritti, e la soluzione non è negarli qui, ma
lottare perché si affermino ovunque; che i diritti si danno non per
averli indietro, ma perché è giusto, e se baratti un diritto vuol dire
che non credi nella sua importanza, nel suo senso, ma per te è solo un
oggetto da lodare o vendere».
«Ma io ho fatto la
Resistenza, come potrei non credere nella giustizia dei diritti
umani?!».
«Fra i diritti umani
c’è il diritto all’uguaglianza e c’è il diritto alla libertà».
«Guardi, giovanotta, forse non ha letto così bene i miei ultimi scritti,
perché le parole più ricorrenti sono appunto libertà e uguaglianza. Per
questo esalto gli Stati Uniti, fondati su questi principi…».
La donna estrae dalla sua larga sacca azzurra un plico di fogli: è una
stampa sgualcita de La Rabbia e
l’Orgoglio, tutta sottolineata e postillata. Sarei tentata di
ricordarle che ho intentato parecchie cause contro la diffusione
illegale del testo, ma non voglio uscire dal dialogo ora: la tempesta è
affiancata al fiume, riesce per poco a afferrandolo con dita d’acqua, ma
il fiume fa il suo corso: «Ho letto bene, e non è veritiero ed è opaco
il tuo scrivere della libertà e dell’eguaglianza, perché passi sotto
silenzio che niente uccide uguaglianza e libertà come il razzismo e
l’odio. Se provi a metterti oltre i tuoi vetri però non è più possibile
silenzio: immagina di non poter fare ciò che hai sempre sognato
solo perché sei nato in un
luogo bollato stato-canaglia da uno più forte. Dov’è la tua libertà? E
la tua uguaglianza, è sulla base del colore della pelle, del reddito?
Non ti andrebbe bene se tu fossi oltre, fuori, e se la tua libertà fosse
cancellata non per la sicurezza vera di uomini, ma per la sicurezza di
pregiudizi e affari. Molti mi dicono che la domanda non se la fanno,
perché loro sono nati qui e questa sorte buona dà diritto a non
pensarci; allora a me viene da giudicare, l’umanità in questi uomini è
sparita, sono regrediti e l’Occidente non è molto meglio del Medioevo
che critica. Si è voltato ed è tornato indietro, perché i diritti
esistono solo se sono condivisi, e non esistono se non sono di tutti, se
tutti non si occupano che tutti li abbiano.
“It’s the way the people regard the theft of the apple / That makes the
boy what he is”: forse il ragazzo non è ladro solo per come la gente lo
guarda, ma di certo la gente non aspetta che rubi per guardarlo come
ladro, se gli stati approvano leggi come quella che ha ucciso El Hadj,
che uccidono l’umanità di uomini ogni giorno che restano valide.
Guardare agli islamici come persone pericolose non può che peggiorare le
cose, e non c’entra niente la debolezza; la vita non è un film
americano, vince non il più duro, ma quello che dice “Fermi tutti” e fa
buttare le armi. È questione di priorità. La priorità per tutti è che i
conflitti interraziali, interreligiosi si trasformino in confronti veri;
il confronto non è facile, ma affronta solo i problemi reali, mentre il
contrasto aggiunge problemi che non ci sono. Ma per te la priorità è che
gli arabi restino brutti e cattivi per poter dipingere gli occidentali,
con esternazioni e tratti, buoni e bravi».
«La priorità è non perdere noi stessi. La guerra non si sceglie, ci si
ritrova in mezzo! Noi non stiamo attaccando, ci stiamo difendendo, e non
ci si difende dagli attacchi terroristici con filosofia, disquisizioni e
sottigliezze esist…».
«Ti fermo», dice in un sussurro la donna, e sai che nessuno ha mai
potuto interrompermi, nessuno! Ma nel suo sguardo ci sono monoliti da
leggere e il fiume che al lampo ribatte il suo stesso abbaglio, al tuono
la sua scossa: «Sai bene che non sono cose astratte e piccole. È il
timone della nave: se la nave è in tempesta non si lascia il timone, che
è ancora più importante. La priorità cos’è? La libertà e la giustizia,
per tutti. Sì, per il ladro e il derubato. Ma tu, in
quello, sei così parziale e
non onesta…».
«Lei sta esagerando, non…».
«Non sei onesta se elenchi le abilità americane di Bin Laden, ma non
dici con chi Bin Laden fa affari. Non sei onesta se ammiri come
esempio di unità nazionale lo
stringersi attorno a un presidente alcolizzato e senza scrupoli come
Bush, piccolo ingranaggio nella macchina degli interessi. E soprattutto,
la guerra, di cui ho parlato».
È il silenzio. In questa piazzetta, sai come amo quelle
fiorentineggianti riparate dai turisti, non si ode che il vento e
l’ultima parola risuona leggera, fatta di veli. Ma tutto questo sta
durando troppo, il mio tuono si dibatte per parlare della guerra
terribile che odio, o no, ma il fiume è implacabile: «Scrivi che
l’Italia deve prendere esempio da questa nazione, ma è un controsenso
ridicolo un’unione fondata sulla lotta contro l’altro, attorno a un
presidente affarista. Elenchi i difetti dei politici di qui e hai
ragione, ma una cosa negativa non significa in automatico il suo
contrario: non è perché le manie separatiste della lega sono ridicole
che la soluzione giusta è un’unione nazionale sul nulla o sull’odio, al
contrario questo “ideale” è ormai vuoto come il separatismo padano.
Insomma…». La donna trae un lungo sospiro, un risucchio del fiume prima
di un’ansa acuta; beve lentamente dal bicchiere vaporoso e il suo
sguardo mi induce a fare altrettanto: «Mi sono chiesta se con
quello hai fondato un modo di
pensare o se l’hai cavalcato: trovo in tante persone gli argomenti e le
tecniche che tu hai usato per portare avanti cattive intenzioni. Sono
cattive intenzioni semplici: vuoi creare contrapposizione e odio, perché
in questo trovi la tua ragione d’essere; vuoi essere scelta e adorata
come modello e guida culturale; vuoi guadagnare molto e per questo è
stato confezionato un prodotto. In Occidente le regole di mercato creano
tutto, così sei andata incontro a una domanda, quella dell’italiano
senza risposte che vuole dare fondamento alla sua rabbia, alla sua
ricerca del capro espiatorio, e può farlo con personaggi di cultura».
«Ah! Respingo in toto queste
basse accuse! L'han scritto tutti che a me non importa dei soldi! È
chiaro, lei ne sa poco…».
«Io non accuso, io ragiono. Ho letto alcuni fatti sul tuo comportarti
riguardo ai soldi, mentre chi scrive che non te ne importa lo fa solo su
parole che dici tu stessa. E poi i tuoi intenti li raccontano le
tecniche che usi. Ad esempio, usi con opacità e disonestà l’esternazione
di forza e autorità, come se grazie a queste tu rivelassi le cose per
come sono, finalmente arrivi tu e dici: “Ora basta buonismi, io faccio
sul serio: io sono coraggiosa e ho visto la guerra, quindi quello che
dico è vero per forza”. Per rafforzare questo usi contrapposizioni dure
e frasi da Hollywood…».
«Addirittura?! Me ne faccia un esempio solo!».
«”I can allow myself to be exhausted not to be defeated”.
È uno slogan senza un senso. E grazie a questa tecnica, oggi non si può
contestarti: è passata l’idea che queste cose sono vere perché hai il
coraggio di dirle, e chi ti contrasta le vuole nascondere per debolezza
e convenienza. Invece io ti contrasto perché i tuoi argomenti sono falsi
e disonesti.
Usi con opacità e disonestà la tautologia: pieghi i fatti a ciò che vuoi
dire, invece di usarli per scoprire la verità. Affermi cose come fossero
verità di un dio: sostieni che gli americani si stringono attorno alla
bandiera in modo spontaneo, “in America queste cose non le organizzi.
Non le gestisci, non le comandi”. Sai bene che il consenso è organizzato
senza armi e dittatori, con stimoli e condizionamenti continui, ma tu
vuoi per forza fissare significati esclusivi degli Stati Uniti. Il tuo
essere parziale è dimostrato allora, prima che da ciò che scrivi, dal
modo in cui lo scrivi, dal voler affermare una cosa a tutti i costi
senza discussione o analisi. Così attacchi e svilisci i tuoi operai italiani, perché in
piazza hanno solo bandiere rosse, e non il tricolore: a te importa non
capire perché loro si sentono rappresentati da quelle bandiere, da quei
valori, ma dar loro contro, ribaltare la realtà per metterle in mano le
tue idee. Lo fai con superficialità e il mondo deve chinarti la corolla,
come quando hai detto che con gli anarchici di Carrara avresti fatto
saltare una moschea, ma questi ti han ricordato che non puoi parlare per
loro, dire che volete le stesse cose, se non chiedi, non ascolti. Un
italiano deve vergognarsi perché non sventola il tricolore, dici, ma tu
dovresti riflettere sul perché non ha motivo di farlo. Questa è la
vergogna».
Al calar del fresco, di cui mi accorgo perché la donna si avvolge in uno
scialle azzurro, mi si stringe la gola. Mi vedo, e sai quanto non mi
piace, non a combattere un’avversaria, tempesta contro fiume, ma
rintanata faccia a questa entità che fluendo dice altre cose di granito:
«Usi con opacità e disonestà
categorie false, che creano la falsa solidità del tuo discorso. Cancelli
l’accusa di razzismo scrivendo che non critichi una razza, ma una
religione; lo scrivi così, dando per scontato che il lettore non sappia
cos’è il razzismo, che può essere a base religiosa, culturale,
linguistica... Sei razzista nello sguardo, non solo riguardo le razze:
tu giudichi tutti i musulmani su pregiudizi, non su fatti oggettivi. I
tuoi ammiratori direbbero che vogliamo zittirti, ma sono loro che non
sanno cosa vuol dire criticare: la religione va criticata quando impone
comportamenti che opprimono, non per dati fuori dal contesto e
generalizzazioni. Ad esempio ancora, scrivi che l’immigrazione in
America è stata del tutto diversa, perché c’era spazio e perché era
richiesta. Dovresti paragonare l'America all'Europa, non all'Italia, ma
in ogni caso sai bene quanto razzismo ha colpito anche gli italiani. E
non è stato giusto: è vero che molti cadevano nella delinquenza, con
carceri piene di italiani, ma non per cattiveria genetica, erano poveri
e senza diritti. Vuoi ignorare studi che dimostrano il contrario, ma se
ciò che scrivi fosse vero non dimostrerebbe il contrario, cioè che noi
immigriamo con prepotenza. È prepotente voler vivere? Io non vivo a
discapito tuo, io cerco di sopravvivere, al contrario del “solo
i più giovani e i più forti ce la fanno”, legge della giungla che
comanda negli Stati Uniti e qui, e che ti piace. Chi è prepotente
davvero? Io non voglio essere il leone che mangia le gazzelle; io voglio
convivere, vivere. La prepotenza non è nell’immigrazione, ma in chi ci
disegna mostri non umani.
Guardi le cose come se tu fossi il mondo intero ed esse fossero interne
a te, così scrivi veri insulti: critichi chi vuole andare in pensione a
cinquant’anni, ma non vedi oltre il tuo lavoro, non vedi chi in fabbrica
ha compiuto lo stesso gesto sai quante volte? 60 in un’ora, 480 in un
giorno, 2400 alla settimana, circa 120.000 in un anno. Dopo trent’anni e
lo stesso gesto per almeno tre milioni e seicentomila volte, puoi capire
che non importa altro che di smetterla e andare a vivere.
Usi con opacità e disonestà anche i singoli fatti: li usi come
grimaldelli, fuori dal contesto e dalle statistiche che lo indicano come
fatto raro, e non come l'esempio in cui vuoi trasformarlo. Il fatto
singolo lo fai eterno, a voler fissare una realtà che non può essere più
contraddetta: gli antiamericani allora devono ricordarsi che gli ideali
dell'illuminismo sono nati negli Stati Uniti, e non criticare tanto;
quindi, per un merito antico non si deve vedere quel che accade oggi. Al
contrario, quel fatto vero rende più gravi le colpe americane di oggi:
mentre molti paesi che disprezzi camminano da un punto arretrato sulla
strada dei diritti, gli Stati Uniti, avvantaggiati da una partenza così
bella, vanno indietro. Ma con questo modello le persone oggi ragionano.
Una tua ammiratrice, per il fatto singolo che alcuni musulmani han fatto
saltare le torri, mi accusa di essere solidale coi terroristi sempre!:
se manifesto solidarietà a altri musulmani, se voglio capire perché è
successo quel fatto, se critico il razzismo nei confronti dei musulmani,
se mi batto per i diritti degli immigrati, che poi sono diritti umani, e
non degli italiani. Questo è grave, e l'hai creato anche tu».
«Non mi piace il suo tono d’accusa, signorina. Se permette, dopo mezzora
di sua sfuriata, mi prendo il tempo di dirglielo».
«Analizzo solo le tue parole stampate; se questo non è nella tua idea di
libertà e non hai di che rispondere, puoi zittirmi».
Il punto d’arresto mi spiazza, come il silenzio sceso di nuovo in questa
cornice pseudotoscana (alcuni dettagli mi riportano alla prima ipotesi,
siamo in una città lombarda, Brescia?). Sono presa da una strana
sonnolenza, le mie nuvole si fanno basse, ancorate dalle impressioni del
risveglio, la bambina, il presidio, questa donna-fiume... Il mio tuono
si è disperso, il lampo prova a uscire elegantemente: «Posso concederle
ancora qualche minuto».
«Tu non puoi concedere niente che non è solo tuo. I minuti non sono solo
tuoi e neanche le parole di
quello, le metti in comune scrivendole, con il peso che questo ha.
Io non ho bisogno di concessioni, tu invece, inchiodata qui a
ascoltarmi?
Allora, usi con opacità e disonestà affermazioni di tue “debolezze”, per
far credere che, se il tuo giudizio viene da un atteggiamento opposto,
non può non essere verità: dici che sei incontentabile,
e se non critichi Giuliani è perché è davvero bravo; quando scrivi che
cedi sempre alla pietà, ma per i kamikaze non ne hai, vuol dire che
davvero non possono meritarla. Parli molto della tua partecipazione alla
resistenza, come se per questo non potrai mai avere atteggiamenti
fascisti; parli della tua partecipazione a mille guerre, come se questo
annullasse l’accusa di amare la guerra. E così menti.
La rabbia poi è un tuo argomento, ma anche una tecnica: i continui
insulti vogliono far credere che la rabbia spazza via le menzogne, i
compromessi falsi, e più della ragione vede la verità. Così insulti le
donne musulmane solo d'impulso, ammiccando al lettore: dai loro delle “Stupide...
Scimunite... Minchione” per alcuni fatti (portano il
chador, non sono libere, accettano che il marito abbia altre mogli),
senza sguardo sociologico o analisi antropologica. Queste le fai
sembrare sottigliezze inutili, invece che l’unico percorso per mettersi
sulla strada della verità».
Le mie nuvole si stirano fino a sfaldarsi, tutta la tempesta si sta
disfacendo; sono scoperta e ora sento il freddo della notte sul mio
cielo senza nubi, rotondo tirato sotto le parole della donna. Il vento
freddo mi avvolge, il fiume scorre, mi vorrei lasciar andare, ma no! Non
posso! Sai che non posso, perché... Ecco l’ultimo salto del fiume:
«Molti hanno
scritto cose precise contro
quello, sottolineato tuoi errori gravi e smontato le tue rabbie. Non
li ho letti tutti, ma a me più degli errori tecnici interessa la loro
causa, l’errore umano, capire perché una donna che ama la libertà non
ama più l’uomo, di cui la libertà è attributo, e perché hai sbagliato a
vedere e a indirizzare l’uomo, cosa che è tua responsabilità. Il tuo
errore umano, infatti, dà esempio. Non sai, ma con molti oggi è
impossibile parlare, perché fanno un’arma con le tue argomentazioni
false, di pancia, respingono l’oggettività e la pertinenza come
“pareri”. Per molti non dovremmo far altro che odiare i terroristi, e
non vedono il pericolo in questo: pensano che avendo odiato quelli, non
ci sia altro da vedere, capire, cambiare, e si esauriscono lì. Ci sono
molti uomini che oggi come automi usano solo la tua logica illogica;
anche se hanno studiato, abdicano alla ragione e ciò che leggono non lo
riconoscerebbero per la strada, declinato negli uomini, nell'oggi. E
ammassano come te, credendo che la massa di fatti che non c'entrano
possa dare il senso delle cose. Ci sono davvero uomini che esaltano
l’emotività e l’impulso come portatori di giustizia santa, e considerano
l’informazione e gli studi approfonditi cose per buontemponi, che
confondono, di cui loro non han bisogno perché hanno già un'idea della
cosa. Mi chiedo in che modo, se non si basano su informazioni più
complete possibile. Questi uomini hanno l’obiettivo fisso di screditare
un mondo intero, stranieri, centri sociali, comunisti, pacifisti, con
giudizi di rabbia e soggettivi che non c'entrano, ma che uno sull'altro
per loro creano un edificio solido.
Per molto ho provato
a capire il tuo errore umano. Poi mi è venuto in mente la tua
affermazione sulla bellezza maggiore che vedi nelle moschee, e mi ha
scioccato».
«Nemmeno un giudizio
estetico mi concede, giovanotta?!», (neanche l'ombra di un tuono, solo
un cigolio di pioggia cadente).
«Mi chiamo N'deye.
Non si tratta di giudizio estetico. Solo lì ho capito che tu non hai
solo intenti opachi, ma vuoi davvero far cameratismo, che il lettore
impari i tuoi argomenti e le tue tecniche non veritieri. Mi sono resa
conto che i grandi intellettuali solo altri e non per le tue idee in
merito, ma perché chiudi la porta in faccia alle idee, non vuoi capire
il mondo e spingere chi legge a farlo. Miri solo a reclutare chi ti
segua e ammiri, col tuo linguaggio strafottente per dire che non hai
peli sulla lingua e quindi sei veritiera. Ma tu non hai peli sulla
lingua e non sei veritiera. Il linguaggio da strada, i proverbi banali
ti danno solo la benevolenza che vuoi, ma niente oltre.
Allora ho capito.
Noi non dobbiamo più badare agli uomini come te, che vogliono provocare
una cosa facile come l’odio perché in più persone accendi l'odio più
persone difenderanno privilegi e divisioni; dobbiamo badare a quelli che
fanno la storia dei giorni, che lottano, che hanno in comune anche solo
una cosa: la fede nelle persone».
«Perché allora mi
hai portato qui, mi hai parlato? Per insultarmi?», ma ormai sto
evaporando come le nubi in un cielo limpido di stelle.
«Ti ho parlato per
dirti la nostra umanità, mentre tu, sopratutto nell'ultima parte di
quello, hai
tirato fuori il peggio della tua. Chiedi come facciamo a pagarci il
viaggio se siamo così poveri, ma sai i sacrifici, i prestiti, il vendere
tutto a cui ci pieghiamo per avere una speranza: tu prendi in giro la
nostra sofferenza, e consideri tutti gli stranieri senza rispetto che
sporcano città italiane. E allora ti ho voluto dire la nostra umanità,
che è un fatto indipendente da te; dopo avertelo detto, nessuna
discussione più con chi, come te, confessa il suo pregiudizio, dicendo
che la nostra presenza ti allarma comunque, anche se nessuno vuol fare
nulla di male».
«Ma non ha senso dire qualcosa, se non si vuole discutere,
ascoltare...».
«È strano detto da te. Invece ha un senso, il senso di marcare un
limite: devi sapere che non puoi andare oltre il limite della nostra
umanità. Ma... – lo sguardo bianco luminoso mi trapassa – …senza
sperarlo, vorrei che qualunque uomo ritrovasse la sua umanità con gli
altri, fatta di razionalità e di compassione».
Alle ultime parole sfuma la piazza, sfuma la donna, sfumano il tè e la
candela rossa, e mi accorgo che sono sfumati anche gli argomenti che di
volta in volta avevo caricati per ribattere alla donna-fiume, così
agguerriti, così fondati. Tutto sfuma in un tappeto grigio-nebbia che
scorre, scorre e sto sfumando anch’io piano. Vedo un secondo oltre il
fiume che scorre gli uomini che lottano, ci sono, ci sono di nuovo
dall'inizio; spaventata, volto subito lo sguardo su di me, ma non ci
sono.
Nota bibliografica
Alcuni interessanti sugli ultimi testi della Fallaci sono raccolti sul blog Kelebekler, all’indirizzo www.kelebekler.com/occ/fallaci.htm. I più seri e interessanti mi sembrano questi:
- Padre C. Curci, Fallaci odia e disinforma. In particolare: «Lei parla come una persona che abita ai piani alti di un grattacielo, vede e giudica le cose con la sua cultura di persona benestante del Nord. Non la sfiora nemmeno che altri punti di vista possano avere la stessa dignità culturale dei suoi. Il Sud è un'appendice, un incidente della storia da utilizzare per i propri interessi, al massimo per aiutare perché restino subalterni in eterno ai giochi economici occidentali. Noi missionari anziché al sesto piano abitiamo al piano terra, quello della gente comune. E ora addirittura stiamo emigrando nelle strade, dove cammina gente senza speranze e senza futuro degno di essere vissuto da esseri umani. E le assicuro che a leggere il mondo dal punto di vista di questa gente, si vedono cose in modo del tutto diverse dalle lenti di Bush che tanto piacciono alla Fallaci».
- L. Andreotti, Il linguaggio della Fallaci, Deformazione e stravolgimento.
- T. Terzani, Il Sultano e San Francesco.
- S. El Sebaie, L’arte ‘fallace’ di cancellare la storia.
-
M. Martinez,
Ferruccio de Bortoli rilancia il
prodotto Oriana Fallaci.
Inoltre, su altri argomenti dell’articolo:
- Cosa è successo a El Hadj: www.dirittipertutti.gnumerica.org/2010/12/13/cosa-e-successo-a-elhdj;
- J. Saramago, Cecità, Feltrinelli, Milano 2010.
-
Qualcuno
ha fatto la critica punto per punto all’articolo della Fallaci come la
giovane donna del mio racconto, e l'ha messo online:
www.iononstoconoriana.com/oriana-fallaci/35-oriana-fallaci/132-2001-l-eccessiva-deli%20catezza-di-lisa-maccari-e-miguel-martinez.html.
È spiritoso, a volte un po’ gratuito.