Coscienza di classe e consenso oggi
IL CORAGGIO DELLA LUCIDITÀ.
Giulia Inverardi
Un incontro
Sul far della notte
camminiamo con calma sotto la gru, quella da cui sei migranti hanno
srotolato in faccia a tutta Italia striscioni di realtà. Parliamo piano
o stiamo in silenzio, all’ascolto della bellezza della città che a
quest’ora riemerge, ronzando nel buio fermo. È un momento quieto con un
piede nel sonno, già lì dietro l’angolo.
Invece una voce
malferma ci ritira indietro, qualcuno chiama noi:
«Ehi amico…G’ribaldi…». Un uomo con un cappellino verde scuro e una
maglia rossa ci si fa incontro, portando per mano una bicicletta bianca
“Peugeot”, con il cestello anteriore zeppo di cose. Si fa incontro ai
nostri sguardi sospesi a scrutare; no, non lo conosciamo. Ha la pelle
olivastra, è malfermo anche sulle gambe, tanto che avanza strascicando i
piedi e uno sguardo affaticato, a mezz’asta. Non fa che ripetere
«G’ribaldi», «G’ribaldi»; immaginiamo voglia sapere dov’è Piazza
Garibaldi e proviamo a spiegarglielo, ma ci fa capire che conosce poche
parole in italiano. Cerco di scandirgli il tragitto in francese, ma
frasi e sguardi restano senza approdo, in bilico uno sopra l’altro. Però
lo sconosciuto si presenta,
«Ahmed», e noi: «Giulia»,
«Cesare», «Valentino».
Ahmed si traveste
all'istante da maschera ossequiosa, capovolgendo il significato del suo
nome: al mio di nome apre un sorriso rapito, mi dice:
«Tu es très belle», ma dà della “belle” anche ai ragazzi. Mi chiedo
se quella della gentilezza esagerata sia l’unica carta che può giocare,
per sperare di ottenere qualcosa da chiunque incontri. È inequivocabile
il suo confidenziale avvicinarsi a noi, e il suo sorriso brilla di
adulazione interessata. A me questa pirotecnia delle smancerie dà un
senso di assurdità stridente, ma subito mi pare assurda anche la mia
pretesa, che chi ha bisogno d’aiuto si uniformi alla mia fantasia del
buon povero, che “chiede” e se ne va senza rischiare di infastidire.
Ahmed estrae dalla
tasca dei pantaloni un plico di fogli, ce li mostra mentre dice:
«Io tun’sino…L’mpedussa ehm
Sarracussa ehm N’poli…Rroma…M’lano…poi Br’sia…» e poi, in una
litania che ripeterà ritmica e infinita:
«Io tun’sino, io no dormir de
quatro jorni…». I fogli tracciano il suo arrivo a Lampedusa, il
fermo a Brescia e il decreto di espulsione del prefetto. Io faccio di
queste carte fra le mani una colonna, per non farmi strattonare da
impulsi contrastanti. Osservando Ahmed, mi insospettisce la sua palpebra
stanca – sarò drogato? – ma non è più probabile che sia solo stanco?!,
mi stanco io a immaginarmi il suo viaggio… – lancio uno sguardo all’auto
aperta – ora entra e se la prende – ma che se ne fa? – l’importante è
che non venga fermato di nuovo, sennò finisce in un CIE così, senza che
abbia fatto nulla – per ora… – sì, ad oggi non ha fatto nulla e potrebbe
finire comunque in un CIE, mentre io no… – ora sicuramente ci minaccia e
ci porta via tutto – probabilmente gli sembra che siamo ricchi, che
abbiamo un sacco di cose superflue – e non è vero? E a me non verrebbe
da portar via cose superflue, se io fossi senza niente, senza colpa? –
ma anche noi siamo senza colpa! – lui è senza colpa e in più non ha
niente – ma noi non abbiamo davvero niente da dargli – sicuramente
abbiamo più di lui – e di che ho paura? Che ci faccia del male? – ma
che, sta offrendo lui le mentine a noi – magari è droga… – no, no, è
proprio una mentina – non so neanche cosa il mio cervello sta montando
per avere paura, per difendersi – devo difendermi?
Chiudo gli occhi, devo
fermare l’oscillazione-percussione nella mia testa, con un’idea, un
qualcosa – guardo la persona che ho davanti: Ahmed dice che è stanco,
che da quattro giorni non dorme, che non ha niente, e per testimoniarlo
ci mostra una specie di strofinaccio, un paio di ciabatte da piscina,
una saponetta e un bagnoschiuma, tutto cacciato nel cestello della bici
(un cestello uno; colonne e colonne di cestelli mi danzano in testa).
Dopo questa ostensione, Ahmed nota il toscano che Vale sta fumando, ne
chiede uno, Vale estrae la metà del toscano rimasto e gliela offre, ma
Ahmed, senza quello che noi chiameremmo “riguardo”, reclama il resto.
Osservo un po’ preoccupata la scena – i toscani costano – beh ma Vale ne
ha altri – sì, ma sono la sua passione!: Vale ha un sorriso tra lo
sforzato e l’ironico, e lascia che Ahmed prenda l’intera confezione, con
un toscano intero e una metà, e infili il bottino sotto lo strofinaccio.
Ahmed ringrazia profusamente, e fa:
«Io…te…tutti fr’telli».
Ma è inutile sperare di
venirne fuori con due risate: Ahmed continua a ripetere che è stanco e
sono giorni che non dorme. Io non riesco a pensare di ospitarlo in casa
mia, nessuno dei tre se la sente: vedo scorrere di pupilla in pupilla
una gradazione di timori, dal furto dei soldi al furto di oggetti cari,
alla distruzione di piccole cose alla violenza fisica; sento anche, in
sottofondo stile coro tragico, l’accusa di coglionaggine che i vari
genitori ci rivolgerebbero. Ahmed adesso piange. Colta alla sprovvista,
vorrei prendergli una mano o stringergli una spalla, ma
subito i suoi lamenti suonano forzati, recitati. Cominciamo
allora ad avanzare proposte che perdono convinzione a un quarto della
frase: non sappiamo dove sia
Nel frattempo, Ahmed si
è seduto in auto. Io mi irrigidisco, ma vedo che Cesare è tranquillo, lo
lascia fare. Ahmed chiede indirettamente di essere ospitato, oppure che
lo portiamo da qualche parte. Gli proponiamo di accompagnarlo nella via
di fronte, dove abitano molto tunisini, molti arabi, coi quali magari
riuscirebbe a spiegarsi meglio (il suo francese è stentato, ma lui dice
che è il mio ad essere “così così”); alla proposta, striscia per due
volte il palmo della mano sotto il mento:
«Tun’sini pff…no interesse…invece
italiano…» e alza il pollice «italiano bene, amico!». Anche questa affermazione, come quella sul
mio francese, ha un immediato effetto comico. Breve però, perché siamo
proprio con le spalle al muro: la richiesta di aiuto di Ahmed è
personale, a noi, e ci immobilizza. Mi sento inchiodata qui, ad essere
coerente con quello che sostengo, non posso non trovare un modo per
conciliare le convinzioni alla pratica, il generale al particolare, e
insieme non mi viene un’idea. L’aria pesa nei polmoni. Cesare almeno
pensa di telefonare al’8924, per farsi dare il numero della Caritas di
Brescia.
Intanto, Ahmed ha
cominciato a chiedere soldi, per dormire e mangiare; in auto allunga una
mano, a tastare le borse – o no? Vale si siede sul sedile anteriore, gli
parla, si fa raccontare qualcosa, e alla fine gli mostra il suo
portafogli. Dentro ci sono 5 €, glieli dà. Allora Ahmed esce dall’auto,
lo abbraccia, gli ripete
«Fr’tello, fr’tello», e abbraccia anche me. Io sono un po’ restia
alla nuvola di profumo che mi si fa contro, ma lui ripete:
«No, no, fr’tello».
Fraternamente o meno, mi stringe eccessivamente e allunga le mani verso
il mio sedere; lo allontano calma, ma risoluta. Mi bacia sulle guance,
poi cerca di avvicinarsi troppo, suscitando la mia irritazione e un
intervento “divisorio” di Vale. Ahmed resta vicino, tiene la mia mano
sulla sua guancia, la tiene con la sua; sembra un bambino. Poco dopo
però mi ritrovo a bloccare col gomito una sua mano che da dietro
risaliva verso il mio seno. In modo quasi infantile mi dice:
«Tu molto belle...perché no, tu e
io, sex, perché no?». Cerco di non farmi prendere da questa specie
di collera che mi sale ai denti, gli dico:
«Ma perché no. E poi lui è il mio
ragazzo…mon ami…». A queste parole Ahmed inscena una
rappresentazione teatrale fatta di invocazioni divine e inchini stesi a
terra, a indirizzo del mio “ami”. Anche a me volge uno sguardo e gesti
di scuse con le mani.
Cesare nel frattempo ha
telefonato alla Caritas, ma nessuno risponde. Lo comunichiamo in qualche
modo ad Ahmed, riusciamo anche a fargli capire che siamo studenti, che
non abbiamo un’abitazione nostra, né soldi con noi. Lui si siede di
nuovo in auto, sul sedile anteriore, e comincia a guardarsi attorno col
suo sguardo appesantito; Cesare lo affianca al posto del guidatore, gli
mostra il suo portafogli vuoto, trova qualche moneta che Ahmed rifiuta.
Ci guardiamo, io e Cesare, come fosse la millesima volta, e i suoi occhi
dicono quello che percepisco: timore, senso di colpa, forse anche
vergogna della nostra impreparazione. Timore, quando Ahmed si distende
indifferente sul sedile, o fruga nel portamonete che Cesare gli ha
appena mostrato, vuoto di soldi. Senso di colpa quando Ahmed vuole
regalare a me la sua saponetta, o capiamo che ha “riposato” solo per
terra in questi giorni, o quando alle domande personali la persona che
Ahmed è riprende la sua nitidezza. Sono solo dati e numeri che di solito
appiattiscono e svuotano, ma ora l’uniformità fa risaltare la sua
umanità, lo include nel gregge degli uomini: Ahmed è uomo con un’età,
uomo con una provenienza, uomo con una donna che l’ha partorito. Capiamo
che ha due bambini, e che sono quattro giorni che non dà notizie a casa.
Gli spieghiamo anche, quando ci mostra le cifre traballanti su un
foglietto, che nessuno di noi ha soldi sufficienti sul cellulare per
offrirgli la chiamata. Pensiamo tutti che Ahmed abbia fermato le persone
sbagliate.
Dopo l’approccio di
Ahmed, pure blando e al quale ho risposto con fermezza, mi sono
ritrovata seduta in auto, come se le gambe mi avessero ceduto (quando
Ahmed vorrebbe sedersi dove sono io, gli rispondo secca:
«Un attimo! Ci sono io qua!»). Ora non riesco a produrre altro che
ramificazioni della mia stanchezza. C’è un silenzio sconfinato sotto le
nostre occhiaie, più profonde delle tre di notte, e nel nostro sguardo,
che non è il millesimo ma sempre lo stesso che corre senza tregua e
riparte e rifà il giro, sul piano di asfalto surreale. Tutto è un
teatrino – io seduta dietro con le gambe molli e il fiato doloroso,
Cesare al volante con l’auto spenta e col sorriso insolitamente
intermittente, questo Ahmed che mai ci saremmo immaginati di incrociare
nelle nostre traiettorie già inclinate verso l’oblio notturno, Vale col
suo toscano orfano e con gli occhi inarrestabili; un semaforo comincia a
lampeggiare giallo e ad allarmare tutto; da un lato la gru gialla e blu
a monumento delle proteste e a vietare scappatoie, dall’altro il palazzo
finto-medievale, più in alto il castello tutto illuminato a fare
scenografia, in mezzo il blu notte che riempie i nostri vuoti di idee.
Ci sentiamo affogati.
Cesare abbozza un:
«Ohi, noi dobbiamo andare…».
Lo guardo quasi con sarcasmo, non credo proprio risolveremo la questione
con una frase timida…Invece Ahmed si alza (ecco, ora anche il castello
si alzerà su un paio di gambe e verrà giù dal colle); ci ringrazia
tutti, ci richiede dov’è piazza Garibaldi; prova ancora a spillare a
Cesare i soldi che non ha; chiede scusa ancora a Vale e a me; chiede a
Vale di tagliarli a metà il toscano ancora intero, e raccoglie quello
che ha buttato a terra quasi integro, nello scandalo generale, e
ricomincia a fumarlo – per accendergli il moncone spento Cesare gli
presta il suo accendino, e Ahmed chiede:
«Regalo?!», Cesare annuisce,
sorride: «Non ne dubitavo!».
Sale sulla bici, ci saluta, e parte nel blu notte e nell’arancio che il
semaforo spande attorno:
Arancio acceso – Ahmed
c’è.
Arancio spento – Ahmed
non c’è.
Arancio acceso – Ahmed
c’è.
Arancio spento – Ahmed
non c’è.
Arancio acceso – Ahmed
non c’è.
Noi partiamo. Non
diciamo una parola. Io sono dietro in auto, le gambe di pastafrolla e un
tumulto in testa.
Cosa ne pensate?
Che ironia della sorte.
Mentre scrivo alcune riflessioni sull’immigrazione, la vita pensa bene
di mettermi faccia a faccia con la realtà. Il reale né brutto né bello è
un oggetto, uguale per tutti al centro del mondo, qui davanti: il reale
è questo specchio bianco, ci vedo le mie idee come foglie senza l’albero
attaccato – senza pluridimensionalità, pluritemporalità, prima, dopo,
parallelo, rovescio e ombra, senza il brillio nascosto e la radice nella
terra.
Pensateci voi. Pensate,
sciogliete, conciliate. Cosa avreste provato? Sinceramente, cosa avreste
pensato? E fatto? E cosa vi sareste detti? E soprattutto: dopo, che idea
complessiva vi sareste fatti?
Cosa ne pensa Bruno
Vespa – Brutti incontri
Mi capita di imbattermi
in un articolo di Bruno Vespa, sul n° 16 di “Grazia” (18/04/2011). Lo
leggo e la malafede, la colpevole mistificazione e la disperante
bassezza di ragionamenti[1]
di quello che dovrebbe essere un
giornalista mi paiono così folli, che non posso non rilevarle in
elenco.
Il
giornalista Bruno Vespa nel
2008 ha scannerizzato ogni singolo individuo che è sbarcato a Lampedusa
e, grazie a ignoti mezzi di intelligence, ha verificato il dato
positivo: «non c’era tra quei
disgraziati, né un tunisino, né un libico». Il
giornalista Bruno Vespa,
capisco poi, vuol cantare le lodi del Trattato Italia – Libia (Bengasi,
30 agosto 2008), per quanto concerne il contrasto all’immigrazione
clandestina. Forse alcuni dati (
Il
giornalista Bruno Vespa
ritiene che le proteste degli italiani di fronte ai numerosi sbarchi a
Lampedusa siano “motivate” perché basate sul timore
«di furti, scippi e di un generale
peggioramento delle condizioni di vita nelle nostre città». Dunque,
al giornalista Bruno Vespa
basta, per compiere questa analisi, arrestarsi ad un pregiudizio, ossia
all’equazione immigrazione – criminalità, ripetutamente smentita da
studi seri e statistici[4].
Ma forse il giornalista Bruno Vespa non ha letto queste analisi. Oppure, il
giornalista Bruno Vespa non
conosce le regole di base per un serio giornalismo[5].
Il
giornalista Bruno Vespa è
inizialmente indotto a “grande moderazione” nella questione, a causa dei
ricordi pietosi che la permanenza a Lampedusa gli ha lasciato, ma in
seguito «questo sentimento si è,
in parte, raffreddato» a causa di alcune occupazioni di seconde case
da parte dei migranti. Bruno Vespa ritiene quindi che un
giornalista debba modificare
le proprie considerazioni in modo direttamente conseguente al variare
dei suoi “sentimenti” personali ed episodici.
Il
giornalista Bruno Vespa non
riesce a comprendere il perché la maggioranza dei migranti siano uomini.
Il giornalista Bruno Vespa
metterebbe invece sua moglie su una carretta del mare, o forse il
giornalista Bruno Vespa non ne ha mai vista una – di carretta del
mare –, né sa immedesimarsi in questi uomini speranzosi, che
probabilmente contano di arrivare, lavorare, regolarizzarsi, spedire i
soldi alla famiglia perché si ricongiunga ad essi in Italia, con mezzi
di trasporto meno rischiosi.
Il
giornalista Bruno Vespa ha
conosciuto ogni migrante italiano dal XIX secolo ad oggi, e ne ha
seguito l’intera integerrima vita, dato che afferma:
«Gli italiani venivano chiamati
sulla base delle necessità dei paesi […] e nessuno, nemmeno tra i non
molti clandestini, si azzardava a ricambiare l’ospitalità con atti di
vandalismo». C’è, di nuovo, chi dispone di dati numerici reali[6],
ma saranno pregiudizi[7],
e sicuramente il giornalista
Bruno Vespa conosce la storia: l’Italia pullula di teste zeppe di
nozioni decorative, esperte ad esempio dell’arte del paradosso, ma
incapaci di riconoscerne uno nel mondo reale.
Il
giornalista Bruno Vespa è
convinto che gli italiani emigranti fossero tutti onesti, ma con solenne
compostezza concede che i vandali tunisini
«sono una minoranza» e che
«anche tra loro» (persino!)
«c’è una maggioranza di persone
con storie che meritano grande comprensione». Lodiamo il suo buon
cuore? Noto solo che la tecnica dei “due pesi due misure” è nota e se ne
abusa, nei nostri mass media:
«Poiché non è accettabile né sostenibile una presa di posizione
meramente xenofoba o un rilancio di atteggiamenti neorazzisti, […] si
avanza una distinzione tra immigrati buoni e cattivi, tra diversi che
credono nei valori dell’Occidente e fanatici che non ci credono. In tal
modo l’antirazzismo di principio è salvo, e nel contempo si possono
legittimare gli interventi repressivi o le stigmatizzazioni ideologiche
nei confronti dell’Altro»[8].
Il
giornalista Bruno Vespa non ha
idea di cosa sia un’invasione, oppure non sa contare: afferma che
«le dimensioni dell’invasione
[rimarco: invasione] sono tali da
richiedere attenzione anche sotto il profilo dell’ordine pubblico»[9].
Il
giornalista Bruno Vespa è
combattuto fra un buonismo di facciata e la sua vera natura, che
sentenzia pacificamente: «Il
nostro interesse è di spedirne [rimarco: spedirne]
il più possibile nei Paesi di lingua francese». Il
giornalista Bruno Vespa non si
stupirà quindi se
Il
giornalista Bruno Vespa, per
concludere, ha tratto dal suo incontro con vari Ahmed l’idea che
l’emergenza dei migranti, vera o presunta, vada gestita col metodo del
bastone e della carota: «con il
cuore ma anche con mano ferma». Il
giornalista Bruno Vespa non
conosce l’esistenza di un organo misterioso, a cui affidare la
risoluzione di questioni complesse: il cervello[10].
Cosa ne penso
Il giorno dopo aver
incontrato Ahmed ci troviamo ancora noi tre. Buttiamo lì qualche
battuta, sul frigorifero di casa che per Ahmed sarebbe stato subito
“Regalo!” o sui rimpianti toscani, ma quello di ieri non può restare
solo un episodio nella saga autoironica dei ricordi. Sento un bisogno
potente, per colmare l’impreparazione emersa, di conoscere tutti i lati
della realtà, tutte le statistiche, i dati, tutte le storie di tutti i
Paesi, tutte le storie di tutte le persone straniere, e di quelle
italiane. L’impossibilità sfuma nell’unica possibilità: un punto di
partenza fermo, pulito da falsità e equivoci. Allora, negli scambi di
idee immediate tra noi trovo un appiglio, poi un altro, una scala per
riemergere ad una forma di comprensione: da dove bisogna partire, per
capire come affrontare il fenomeno dell’immigrazione? Che aspetti si
devono prima di tutto tenere fissi? Quali i trabocchetti, le false idee,
e quando ci si acceca, in un senso o nel suo opposto?
Il di più
di angoscia
Sono convinta che un di
più di angoscia alle mie sensazioni l’abbia dato, durante l’incontro con
Ahmed, la strategia dell’allarmismo cui i mezzi di comunicazione ci
sottopongono. È un problema così chiacchierato, questo, che molti
credono di averlo risolto schioccando le dita: “Io no, io so, io
critico”. Credo invece che qualche inconscio tarlo si faccia strada
anche in chi, e forse proprio per questo, ha la presunzione di essere
immune ai condizionamenti noti. Qualche scossa si frappone sempre ad
offuscare il nostro raziocinio, quando l’intento deliberato dei mezzi
d’informazione più frequentati non è quello di suscitare curiosità
critica e fornire punti di vista, ma di parlare il linguaggio degli
istinti affinché essi prendano il comando esclusivo dei nostri pensieri
e azioni. Rendendoci così, ovviamente, molto più docili: le paure
ataviche che soprattutto
Mi sono resa conto che
le mie preoccupazioni in quella situazione non solo sono state
eccessive, ma soprattutto non erano “mie” preoccupazioni. Le provavo e
contemporaneamente le guardavo con forte alterità, perché ero
sequestrata non dalla mia emotività e da una circospezione giustificata,
ma da un nervosismo esterno, parassita. Il bombardamento di maliziosi
fraintendimenti, di facilità di superficie colpisce tutti, e solo
accorgendosene si può ricominciare a ragionare, neutralizzando ciò che
ci priva di noi stessi, del nostro autentico considerare il mondo.
Molti studi scientifici
attestano la correlazione tra esposizione ai mass media e insorgenza di
stati anche patologici di ansia, ma credo sia più convincente la prova
individuale. Restate cinque mesi senza guardare
Non confondiamo tutto I
Non avevo mai percepito
quanto manchino, nei discorsi e persino nelle analisi sull’immigrazione
che ci attorniamo, alcune chiarificazioni di base che dicano: “questa è
una questione e questa è un’altra”; “questo dato può essere vero, ma non
è pertinente riguardo a quest’altro”. La messa a fuoco di cui anzitutto
ho notato la mancanza è quella che separa i comportamenti del tutto
variabili che una persona straniera può avere (l’insieme delle azioni
prodotte dalla sua volontà, ed eventualmente influenzate dalla sua
formazione culturale, sociale e religiosa) e la qualità invariabile di
uomo di qualsiasi persona straniera.
Ciò che intendo, è che
i comportamenti condannabili che uno straniero può avere sono un fatto;
altro invece è il suo essere uomo: bisogna mantenere fermo l’individuo,
sempre, inchiodarlo al centro della nostra considerazione, qualsiasi sia
il dibattito che infuria. Al contrario, poiché troviamo inconcepibili
alcuni comportamenti di alcuni stranieri, ne attenuiamo o neghiamo la
qualità umana: perdiamo di vista il fatto che questo uomo violento è
comunque un uomo e che, altra distinzione fondamentale, molto spesso non
compie un crimine in quanto
straniero, ma in quanto violento, o malato, o affamato[12].
Che alcune persone di religione musulmana rendano i precetti religiosi
una giustificazione della sottomissione e della violenza sulla donna, ad
esempio, non può far sì che le stesse persone vengano private dei
diritti umani fondamentali. Non possono esserne private, a maggior
ragione, per motivi futili, come pretese antipatie nazionali, o
pregiudizi collettivi: “A me stanno antipatici i pakistani” non può
essere la premessa (ridicola, ma tralascio) a: “I pakistani sono di tot
gradi meno umani di me”
Questa distinzione
dovrebbe sempre restare fissa, soprattutto quando si riflette sulla
legislazione in merito all’immigrazione. Niente può giustificare una
scala degli uomini: né violenze, né integralismi di nessuna natura, né
abitudini differenti, né condizioni economico-sociali, né tantomeno
impressioni e “superficialismi”, per nessun uomo, connazionale o
straniero. Se corrisponde ad un crimine, sarà giudicato e sanzionato da
chi ne ha la competenza il comportamento, non il grado umano di un
essere umano. Le complesse origini di quel comportamento, poi, vanno
certo studiate e viste, ma con lucidità e serietà: esperti con
cognizione di causa, ad esempio, dovrebbero comprendere come fissare un
limite all’ingerenza religiosa di qualsiasi confessione, o in che modo
occorra intervenire qualora una pratica di certe popolazioni immigrate
sia inaccettabile (ad esempio, la mutilazione genitale femminile). Tutto
ciò mi sembra molto lontano, tutt’altro discorso appunto,
dall’abbassamento ad un grado sub-umano che molti, con leggerezza,
tributano ad alcuni migranti.
Non confondiamo tutto
II
Trovo micidiali anche
altri pregiudizi, opposti a quelli di stampo razzista. Non voglio
ridurre in un solo gruppo chi vorrebbe dipingere come facile ciò che è
complesso, né le eventuali motivazioni, in buona fede o meno. Voglio
solo sgombrare il campo da una serie di superstizioni altrettanto nocive
di quelli leghiste, temo, perché non corrispondono comunque ad una
lucida analisi: può essere l’apriorismo della “semplicità onesta” dello
straniero, o della sua non arretratezza in nessun campo delle attività
umane, quello generico della “facilità dell’integrazione”, o l’etichetta
ipocrita che bolla come “cattiva interpretazione” ogni lettura violenta
del Corano (o della Bibbia:
riguardo i molti effetti nocivi delle religioni, e la mancanza di
consapevolezza in proposito, consiglio a tutti la lettura de
“L’illusione di Dio”[13]).
Chiarimenti e premesse.
È chiaro: che sono inorridita all’affermazione della “superiorità della
civiltà occidentale” su quella araba; di fronte all’idiozia leghista, la
raffinatezza di alcune epoche ed aspetti delle civiltà arabe mi è
apparsa sempre come un faro; personalmente, non mi ritengo
sufficientemente informata riguardo ad una moltitudine di questioni
riguardanti il mondo arabo, o cinese, o dell’est Europa; non sono
affatto propensa ad estendere a qualità generali del mondo arabo (o
cinese, o sudamericano…) né le mie esperienze personali, né le
non-statistiche da telegiornale. Premesso che: nessuna considerazione o
dato, come detto, deve mai scalfire la dignità umana che tutti dobbiamo
difendere in ogni uomo; nessuna simile considerazione può trasformarsi
in una sentenza preventiva, a cui ci appelliamo in automatico ogni
qualvolta incontriamo una persona che da quella società, cultura,
religione proviene; c’è un’infinità di approfondimenti e studi e
esperienze che occorre rinnovare continuamente. Chiarito e premesso ciò,
non si può negare che alcuni comportamenti, attitudini o valori che
spesso hanno persone provenienti da paesi esteri, li porteranno a
scontrarsi con alcuni comportamenti, attitudini, valori che spesso molti
italiani hanno. Vedere e conoscere al meglio quali sono queste aree di
possibile scontro è il modo migliore per capire come governare il
fenomeno dell’immigrazione, per attenuarne le punte taglienti e metterne
a frutto i semi preziosi.
Esempio I
Credo che un rapporto
personale offra situazioni particolari da cui osservare le questioni
dell’integrazione, non per trarne conclusioni totalizzanti, ma per
arricchire il quadro generale. Qualche anno fa feci un primo viaggio in
Albania, alla scoperta del paese d’origine del mio ragazzo di allora, e
quelle settimane sono state un vero catalizzatore di pensieri. Le
occasioni di scontro e riflessione, di portata anche generale e
“esistenziale”, sono state innumerevoli nel corso degli anni, ma è stato
soprattutto in quel viaggio che mi sono saltati agli occhi gli effetti
dei “pregiudizi positivi” e delle semplificazioni allegre.
Arrivavo in Albania già
condizionata da mille fantasie: immaginavo uno Stato povero, ma pieno di
tipicità, ed in sostanza europeo. Non mi aspettavo la distesa di
mutilati al porto di Durazzo, le strade spaccate da voragini, le case
dalle pareti mai costruite ma dal tetto superbo, il caos urbanistico,
l’assurdo dell’autostrada (l’unica) e la contadina con foulard e mucca
al lazzo che l’attraversano, i bambini tra i muli le pietre e il fango,
i musei chiusi con il custode da scovare in paese.
Ma soprattutto i
rapporti umani mi “gelano”, non per una negatività di fondo, ma per la
difficoltà di comprensione. Dal cibo divenuto un incubo (non pensate al
nostro Mezzogiorno: le famiglie che ci ospitato qui in Albania
continuano ad organizzare banchetti col cibo che sarebbe bastato loro
per le due settimane successive, e la madre del mio ex ragazzo cucina
tanto che io rimetto tutto già al secondo giorno), alla stufa della
discordia (fa freddo e sto tutta imbacuccata davanti alla stufa; la
madre, che parla bene italiano, mi chiede se la deve spegnere; rispondo
che se può la terrei accesa ancora un poco; lei, senza una parola, la
spegne), alle risate sul bagnato (capisco poco l’albanese, e dopo un
pomeriggio pieno di molte visite e di risate inspiegate, evidentemente,
mi compare scritto in faccia che mi sento fuori luogo, quasi mi
trattengo dal respirare; la madre gira lo sguardo su di me e con voce
acuta mi chiede: «Giuulia, che
haii? Non capiscii?!» e scoppia a ridere).
Piccole incomprensioni,
niente di orribile e scioccante, ma causa e conseguenza di un senso di
estraneità estremo, che assolutamente non mi aspettavo, di una
difficoltà di contatto e comprensione forti come mai avevo sentito, né
ho più sentito. Credo tutti avreste provato, ad esempio, un senso di
soffocamento da gabbia dorata, perché riveriti ma privi di libertà
d’azione e scelta – la vostra opinione sollecitata per essere cestinata,
o sottomessa a leggi non scritte, né lettevi. Vi sareste sentiti non in
un paese quasi europeo, fra persone quasi simili a voi nel modo di
pensare, ma su un altro pianeta, fra extraterrestri. Forse si tratta di
una problematicità “grado 1”: per la stufa e per la risata alle spalle
del mio senso di esclusione, ho alzato le spalle e pensato al resto del
viaggio. Ma riguardo a idee pregresse, e fondamentali per una persona?
Riguardo il bisogno di formare il prima possibile una famiglia, e il
bisogno di viaggiare e comprendere meglio, prima, se stessi e il mondo?
Riguardo l’abitudine di attribuire ai membri della famiglia una sorta di
diritto di gestione dei propri tempi, risorse e spazi, e una concezione
della famiglia molto meno prioritaria? Riguardo problematicità “grado
10”?
Sarebbe stupido
desumere che i padri albanesi si facciano solo servire e riverire, non
allungando nemmeno il braccio verso il raki portato in tavola dalla
moglie, che contemporaneamente sbriga altre mille attività domestiche, o
che l’autostima di tutte le famiglie albanesi sia proporzionale ai chili
di cibo consumati dall’ospite (una testa di ovino integra per estremo
onore mi viene piazzata di fronte, gli occhi riflettono i miei sull’orlo
di una crisi epilettica; ora ci rido su). Quello che desumo è che alle
differenze individuali si aggiungono differenze a monte, a volte
semplici – e il tessere un ponte ha un senso di utilità e ricchezza –, a
volte di respiro ampio, riguardando concezioni che non ci precedono
esternamente, ma ci pervadono e ci caratterizzano, perché le abbiamo
riconosciute ed elaborate. Questa deduzione banale è fondamentale, senza
alcun determinismo pessimista; mostra quanto le semplificazioni siano
dannose e quanto invece si debba essere anzitutto lucidi, prima di
qualsiasi emozione o pensiero. Inoltre, essa ricorda che l’integrazione
è più grande dei singoli rapporti personali, ma insieme parte da essi:
l’integrazione richiede la consapevolezza non solo delle dinamiche,
delle alchimie dei rapporti umani, ma anche di altre, più studiate.
Insomma, di nuovo: non (solo) col cuore, né (mai) con la forza, ma
(soprattutto) col cervello.
Esempio II
Quando Ahmed si è
allargato nell’abbracciarmi, ho trovato del tutto fuori luogo, e quindi
ancora più negativo, il suo comportamento; quando mi ha chiesto perché
non potevamo fare sesso, il senso ridicolo della proposta ne ha coperto
il lato offensivo: Ahmed forse non si pone la questione, o non
concepisce che chiedere ad una ragazza di fare sesso con lui, avendola
conosciuta da cinque minuti, equivale a considerarla priva di dignità e
di “autoconsiderazione”. Non so come Ahmed la pensi, ma per me e
sicuramente per molte ragazze una proposta simile non è segno di
interesse, ammirazione, passione, né è “naturale”, è anzi l’opposto: ci
fa sentire ininfluenti – capiamo che la proposta è “standard” e sarebbe
rivolta a chiunque –,
esposte e pianamente “prendibili”, come un oggetto in una stanza senza
voce in capitolo, che chiunque senza pensiero impugna.
Il punto è che persino
un abbordaggio come quello di Ahmed, innocuo, in presenza di due
ragazzi, appena tentato a gesti e appena richiesto a parole, ha creato
sensazioni spiacevoli; di peggiori ne avrebbe create se non Valentino e
Cesare, ma Elena e Isabella fossero state con me quella sera. Avremmo
chiamato la polizia – quella stessa polizia opprimente e arrogante, che
ci pare davvero fuori luogo, quando manifestiamo o solo passeggiamo in
certe vie di Brescia –? L’incomprensione si sarebbe mantenuta piccola,
senza insulti e senza danni?
Preciso. Che Ahmed sia
tunisino o italiano, a me non importa; in un certo senso, a freddo, mi
sento più “clemente” verso di lui e sarei più intollerante nei confronti
di un italiano. Però, credo che alcuni comportamenti vengano sdoganati
più da alcune culture che da altre: senza colpevolizzare gli individui,
e senza confondere le questioni (un simile abbordaggio, ad esempio, non
è uno stupro), penso che Ahmed si senta più legittimato a piccole
iniziative simili nei confronti di una ragazza, rispetto allo stesso
Ahmed in Italia da generazioni. Forse l’Ahmed appena sbarcato non si
sogna che allungare le mani, dopo cinque minuti di conoscenza, può
essere offensivo; questo può attenuare la sua colpa ai miei occhi, ma
qui sta il problema: Ahmed dovrebbe sapere quali comportamenti non sono accettabili a nessun
costo, con diverse gradazioni di “severità” di giudizio, in Italia, e a
quali reazioni va incontro, senza eccezione. Ma insieme, è assurdo
pensare che Ahmed possa sapere
quali comportamenti sono moralmente scorretti in Italia, essendo vissuto
per anni in una nazione che ne permette altri e ne condanna altri.
Penso quindi sia
fondamentale trasmettere il prima possibile ai migranti alcuni
strumenti, come informazioni riguardo la realtà italiana (culturali, di
costume, riguardo abitudini e usi, legali e linguistiche…), per
veicolare comportamenti compatibili e non soverchianti, per tutte le
sensibilità. Non è di grande aiuto alla “formazione” dei nuovi italiani
l’esempio dei vecchi, con la distonia nostrana fra dire e fare, fra
familismo e violenze domestiche ad esempio, fra quote rosa e maschilismo
devastante.
Il problema dei
fantasmi
Passati i grattacapi
del momento, mi chiedo: che giorni avrà passato Ahmed? Avrà mangiato
qualcosa di simile a questo piatto di pasta? E avrà trovato qualcosa di
simile a questo letto? Sarà riuscito a chiamare casa? Avrà richiesto
soldi e ospitalità ad altre persone? Più preparate ad aiutarlo? Oppure
persone del tutto indifferenti, colpevolmente cattive, o governate dalle
redini della paura? Avrà incontrato qualche leghista dal fucile facile?
O qualche caporale, ed è già diventato due braccia che lavorano per
Il problema è: non lo
sappiamo né possiamo saperlo. Ahmed è diventato un fantasma in una
dissolvenza arancione, nel momento in cui è uscito dal nostro campo
visivo: dov’è Ahmed? Ahmed è un uomo, non un fantasma: deve mangiare,
dormire, stare bene; Ahmed può ammalarsi, essere picchiato e morire;
Ahmed può fare del bene, del male, lavorare, rapinare, pagare o non
pagare. Ma Ahmed diventa di asfalto appena esce dai miei occhi, Ahmed
non c’è, eppure c’è! Questo mi terrorizza, perché migliaia o centinaia
di migliaia, addirittura milioni di Ahmed vengono cancellati con la
gomma, e non ho idea di cosa diventino: buchi neri del male, avamposti
del bene; salute o malattia; vita o morte.
Per uno Stato che si
vuole sicuro, favorire la clandestinità, ad esempio con leggi-trappola e
non eliminando alla radice le cattive realtà, come il lavoro nero, che
rendono praticabile e anzi conveniente la clandestinità in Italia, è una
vera contraddizione in termini: un’ipocrisia criminale, criminogena e
offensiva verso i propri cittadini e verso l’uomo. Come si vede, di
passi in avanti da fare, in fatto di “vita felice” e migliore per tutti,
ce ne sono molti, alcuni neanche troppo complicati.
L’alternativa ai
fantasmi: bacchetta magica o cannoni?
Ma che altro destino
potrebbe avere Ahmed? Migliaia di uomini e donne arrivano, molti parlano
italiano poco o niente, tutti credono di trovare un approdo e trovano
un’Italia allo sbando in tutto, con fabbriche chiuse, operai in cassa
integrazione da anni, laureati sommersi da stage che li macellano in
serie, nessuno con la forza di difendere chi va difeso, una dittatura di
antivalori unici e facili. E questi uomini che arrivano, hanno occhi
pieni di altri paesaggi, usi, priorità.
No, non penso che
dovremmo rimandarli indietro a cannonate. No, so che l’immigrazione è un
fenomeno del tutto inevitabile e pieno di legittimità, appunto perché il
“diritto alla vita” è un diritto. No, non cedo alle formule senza senso,
al “prima i nostri” (nostri? Chi sono? Il mio vicino che bestemmia alla
play-station? Quello che è nato e morto qui? Quello che è arrivato e ha
passato un test d’italiano, di storia, di geografia che milioni di
italiani non passerebbero?).
Al contrario, la
conoscenza del quadro, progressiva, mi dà sempre di più la certezza che
servono volontà incrollabili ed organizzazione, per creare terreno
fertile a questa pioggia inevitabile e giusta; sempre più chiaramente si
palesa come un danno, danno per tutti, qualsiasi azione che non veicoli
una politica dell’immigrazione “positiva”. Una politica positiva nel
conoscere la realtà attuale e storica, locale e globale; nel cercare di
smussare gli angoli taglienti e nel puntare sulle possibilità di
ricchezza; nel mirare anzitutto a giustizia ed equità, non dimenticando
mai che di uomini si tratta; nel rendere questo spostamento inevitabile
e legittimo di persone il più positivo possibile. Proprio perché
l’immigrazione comporta delle problematiche complesse, tutto ciò che non
mira con sincerità a risolverle le rende più complesse e potenzialmente
pericolose. Pericolose per tutti. Ogni proclama della Lega, ogni euro
speso in ronde, ogni legge che rafforza il circolo vizioso e spinge giù,
sempre più giù verso l’illegalità e lo sfruttamento gli uomini nuovi,
ogni azione che si oppone, che strumentalizza, che non ha capito, che
banalizza in qualsiasi senso: tutto ciò, sono energie, soldi, tempo
sottratti ad una vera politica utile, utile alla sicurezza, alla qualità
di vita che deve, deve essere di tutti, senza prima e dopo, senza
nostri. Non esiste la bacchetta magica, ma esistono lucide intenzioni,
mezzi e metodi che vanno nella giusta a direzione. A cominciare
dall’obiettivo di eliminare il più possibile le condizioni sociali,
economiche e di disinformazione, presso la comunità ospitante italiana e
presso i migranti, che acuiscono le differenze: se esistono differenze
reali, che devono essere affrontate con coraggio e lucidità, occorre
però sgonfiare quelle determinate in modo sempre più acuto dalle
diseguaglianze, dalla discriminazione, dai pregiudizi.
Pensandoci infine
Non nego la
spiacevolezza dei miei cinque minuti di disagio. Eppure ora, pensandoci,
quelle impressioni sono ben poco. Ben poco, rispetto ai giorni in mare, in treno, in bicicletta, a
tutto quanto c’è prima e attorno la vita di Ahmed. Ben poco, rispetto
agli anni di disagio causati a me, direttamente, da chi mi ruba il
futuro. E i miei cinque minuti di disagio, poi, non sono nemmeno “a
causa di” Ahmed: sono a causa dello stesso genere di persone, quelle che
rubano a me il futuro e di più il suo, che remano sempre contro tutti,
pro a se stessi soltanto. Il nostro è stato un incontro fra esseri più o
meno schiacciati, più o meno consapevoli, ma certo bisognosi di molto di
più.
Una coraggiosa e lucida
direzione allora c’è sempre, la stessa: l’unione di chi è schiacciato,
di chi è ingiustamente privato di vita e dignità, per una ripartizione
equa di risorse e aiuto, perché la gioia e il dolore non siano monopolio
di nessuno.
MAGGIO 2011
[1]
Cito un paragrafo di un suo altro articolo:
«[si tratta di]
lavoratori manuali […] chiamati dal regime di Gheddafi a supplire alla
tradizionale svogliatezza dei libici (che sono piuttosto
scostanti e non vogliono sporcarsi le mani più di tanto). Non a
caso, finora, non sono scappati dal loro Paese nonostante la
guerra civile. Chiunque vinca, gas e petrolio gli consentiranno
di vivere di rendita. La svogliatezza dei libici fa quasi
pensare a quella dei giovani italiani» (Fonte: “Grazia” n°
18, 2 maggio 2011). L’arguzia sfavillante del pezzo non
necessita sottolineature, come l’errore grammaticale nell’uso di
un pronome personale.
[3]
È de “l’Espesso” il video che ha scioccato il mondo:
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/morire-nel-deserto/2119367.
[4]
A titolo esemplificativo rimando ai Dossier annuali della
Caritas Migrantes.
[5]
Solo per avere un’idea:
[6]
Usa 1908: immigrati in cella per reati gravi:francesi: 341; inglesi
679; irlandesi: 395; italiani: 2.077. Fonte: Colajanni
Napoleone, La criminalità italiana negli Stati Uniti
d'America, Bollettino dell'Emigrazione, n. 4,
Ministero degli esteri, Roma 1910.
[7]
«Il quartiere di Spalen a
Basilea è diventato negli ultimi anni una vera colonia di operai
transalpini. La sera soprattutto queste strade hanno un vero
profumo di terrore transalpino. Gli abitanti si intasano,
cucinano e mangiano pressoché in comune in una saletta
rivoltante. Ma quello che è più grave è che alcuni gruppi di
italiani si assembrano in certi posti dove intralciano la
circolazione e occasionalmente danno vita a risse che
spesso finiscono a coltellate». (Fonte:
“
[8]
Grossi, Belluati, Viglongo,
Mass-media e società multietnica, Milano, Anabasi, 1995, pag. 61.
[9]
Per quanto riguarda il numero dei rifugiati, l’Italia si
mantiene ad una quota contenuta (55.000), soprattutto in
rapporto a Germania (600.000), Regno Unito (270.000) o Francia
(200.000). Riguardo ai migranti sbarcati a Lampedusa in questi
primi mesi del 2011, i dati ci parlano di 20.000 persone circa,
non più di 30.000.
[10]
I titoli dei testi firmati da Bruno Vespa paiono tradire la sua
fissazione per la contrapposizione immaginifica di forza bruta e
sentimenti, mentre la ragione gli resta sconosciuta:
L’amore e il potere, Il cuore
e la spada, Donne di
cuori, Il duello…
[11]
Esistono moltissimi studi riguardanti gli effetti di linguaggio,
immagini, modalità dei servizi dei mass-media, sulla nostra
percezione della “realtà migrante” (cito gli autori: Mansoubi;
Grossi, Belluati e Viglongo; Lodigiani); utile il saggio del
Prof. Maurizio Core, avviato nell’ambito del Centro Studi
Interculturali dell’Università di Verona:
«Noi e gli altri:
l’immagine dell’immigrazione e degli immigrati sui mass-media
italiani», “Prospettiva EP”, gennaio-marzo 2002.
[12]
Non posso non citare una vignetta di Vauro; carabiniere ad una
donna violentata:
«Albanese? Marocchino» – «No. Uomo».
[13]
Richard Dawkins,
«L’illusione di Dio», Milano, Mondadori.