L’educazione dei giovani ed il mito del genio
Giuseppe Genovese
«Noi
rivolgiamo un appello come esseri umani ad esseri umani: ricordate la
vostra umanità e dimenticate il resto.»
Albert Einstein
Quando nel 1801 Carl Friedrich Gauss predisse con
precisione dove ritrovare il piccolo pianeta Cerere nella sfera celeste,
già scoperto dall’italiano Giuseppe Piazzi, risolvendo così uno dei più
cogenti problemi dell’astronomia del tempo, era già famoso tra i
matematici per aver ottenuto alcuni risultati di ordine universale, come
la costruzione dell’eptadecagono, o l’invenzione di tecniche
fondamentali in teoria dei numeri, prima tra tutte l’introduzione del
concetto di congruenza nello studio del problema della divisibilità.
Aveva allora ventiquattro anni. Epiteti sulla sua vita si sprecano, in
ambienti accademici e non; spiegazione di tanta prolificità in così
giovane età è di solito l’affermazione tout court che Carl Friedrich
Gauss fosse un genio assoluto. Oggetto di quanto segue sarà tentare di
confutare con ostinata violenza tale tesi.
Pare peraltro evidente che, almeno nell’accezione comune,
il termine “genio” abbia assunto una connotazione a metà tra il naturale
ed il sovrannaturale, tra l’inaccessibile e l’umano. Tra i vari
significati della parola, troviamo:
«Somma
potenza creatrice dello spirito umano, propria per virtù innata di pochi
ed eccezionali individui, i quali per mezzo del loro talento giungono a
straordinarie altezze nell’ambito dell’arte o della scienza.»
(cfr. Dizionario delle Lingua Italiani,
ed. Treccani). Questa
definizione è il centro dell’intera questione. In essa confluiscono
aspetti di ordine storico, culturale e sociale. Un genio è dunque uno di
quei pochi individui capaci di valicare i limiti dell’umano in una o più
arti. È certamente un uomo, ma anche non lo è, data la sua eccezionale
ed innata virtù. È questo limbo di semidivinità che in primis merita
un’analisi più attenta.
Risulta d’aiuto talvolta ricorrere all’etimologia della
lingua. La parola “genio” deriva certamente dal genius latino,
essenzialmente un’entità mistica e sovrannaturale, che veglia sui
destini degli uomini o delle cose umane, come ad esempio luoghi di vita
vissuta (genius loci) o istituzioni sociali (genius
familiaris). Tali figure si ritrovano nelle culture di civiltà
antecedenti e posteriori a quella romana: sono in sostanza i
daimoniou dei greci, genii sovrannaturali per l’appunto, che poi,
grazie agli influssi del manicheismo in epoca
tardo-imperiale prenderanno le forme degli angeli e demoni della
cultura medioevale cristiana. Eppure, a dispetto di quanto si possa
credere, angeli e demoni hanno un’origine divina che i genii non posso
vantare. La parola “angelo”, intesa come messo, nunzio, un tramite tra
l’uomo e la divinità, proviene probabilmente dalla radice ariana AG,
andare (lat. angelus,
gr. aggelos,
pers. aggaros);
d’altra parte la parola “demone” (gr.
daimon) avrebbe addirittura la medesima origine della parola
“dio” (lat. deus,
sscr. devas,
zend. daeva), dalla
radice ariana DIV,
che ha il senso proprio di splendere, evidentemente legata al culto
atavico del sole. Ora, cosa strana è che, sebbene i significati per
quanto detto siano assai simili, l’origine della parola genio è assai
diversa, e riporta indubbiamente sulla terra: la radice indoeuropea è
G’AN, generare, produrre (lat.
geno, gr. genea,
sscr. g’an-ati). In
questo contesto il genio appare come una naturale forza produttrice, la
spinta istintiva dell’uomo alla creazione. Ancora è d’aiuto il
sanscrito, in cui genio è g’anya, uomo g’ana, donna
g’ani. Al di là di ogni mistificazione e mitizzazione, il genio è la
forza propria dell’umanità tutta.
Quale esigenza ha dunque richiesto tale mistificazione? In
quale momento storico, e per quali cause, il genio si è confuso
irrimediabilmente con il demone? Una risposta completa e soddisfacente a
tali interrogativi è francamente fuori da ogni possibilità. Del resto
non è astruso ricercare il seme di tale fenomeno nella struttura
oligarchica che definitivamente si presenta in ogni manifestazione
sociale e culturale della storia dell’uomo (e che pure è probabilmente
presente, seppur in forma più rudimentale, nel regno animale). La
divinità come instrumentum regni è qualcosa di antico e radicato nelle
abitudini umane. Il confinare doti straordinarie in alcuni individui
eletti è senza dubbio un insuperabile esercizio di potere. Da questo
punto di vista non v’è differenza alcuna tra oligarchia politica,
sociale o culturale: il principio primo è lo stesso; gli uomini non sono
tutti uguali, ed ai più è negato l’accesso ad una casta di elementi
eccezionali.
Tutto sommato è questa la struttura socio-culturale che ci
è stata tramandata dall’antica Grecia. Non è un caso che il dibattito
sulla possibilità di insegnare o meno la virtù fosse quanto mai vivo nel
periodo d’oro di Atene (ed è un dibattito profondo, rivoluzionario in
ambedue i sensi, rispetto agli equilibri del tempo). Un carme di Pindaro
recita: «Pieno valore ha soltanto colui cui pregio glorioso / è innato. Chi possiede
soltanto / quanto apprese, vacillante ombra d’uomo / mai non s’avanza
con saldo piede, / ma mille altre / cose, con animo immaturo / non fa
che assaggiare». L’intero discorso viene ad essere quindi strettamente intrecciato con un
altro tema fondamentale, quello dell’educazione dei giovani,
assolutamente di importanza imprescindibile per i greci. È ovvio che un
programma educativo che parte dal presupposto che la virtù sia innata è
sostanzialmente diverso, e che una società strutturalmente oligarchica
non può produrre un sistema educativo profondamente egualitario. Questo
valeva per la paideia dei greci, vale per la nostra scuola (che,
in senso lato, non ne è che l’estrema discendente).
A questo punto si potrebbe obiettare che un sistema
davvero egualitario è un’inutile utopia, poiché presuppone una
uguaglianza di fondo tra gli uomini. Ma è un obiezione naif. È chiaro
che gli uomini non sono tutti uguali. Nondimeno sono tutti ugualmente
utili alla comunità in cui vivono. E questo perché la comunità si forma
a partire dagli uomini e non viceversa. Un esempio può aiutare a
chiarire questo concetto. Si pensi ad una tribù di uomini primitivi. Tra
loro essi saranno tutto sommato simili, eppure avranno qualche
diversità: qualcuno più alto, qualcuno più basso, qualcuno di
costituzione più robusta o più gracile; ed inoltre, alcuni di loro
potranno avere una vista acuta, od una falcata profonda; sono insieme,
formano una comunità, devono decidere come vivere, dove andare, cosa
mangiare, con cosa vestirsi. Come si prendono tali decisioni? In base
alle risorse che si hanno, chiaro. E le risorse sono in primis risorse
umane. Sono le varie qualità
degli elementi del gruppo a determinare le caratteristiche ed il destino
del gruppo stesso. Pare grottesco pensare ad una tribù del pleistocene
che cerca di accaparrarsi un bravo cacciatore, esattamente nello stesso
modo con cui un’odierna squadra di calcio cerca di prendere un bravo
centravanti. Piuttosto la prima scelta naturale sarebbe organizzare la
comunità in modo da sfruttare al meglio, se non magnificare, le qualità
dei singoli. È di certo vero che la selezione naturale seleziona,
appunto, tali qualità, ma l’esperienza del mondo ci insegna che non le
uniforma. La diversità è la chiave del progredire della specie. Ma
irrimediabilmente la diversità genera disparità. Ovvero è venuta
l’esigenza di creare una precisa scala di valori, per cui talune qualità
fossero superiori ad altre. Naturalmente il concetto di superiorità è
ciò che ardentemente va combattuto, in tutte le sue forme. Chi decide la
superiorità di un uomo rispetto ad un altro? Coloro che si sentono
simili a quell’uomo, e lo fanno per esaltare se stessi e ciò che essi
stessi rappresentano, per instaurare o mantenere un proprio potere. La
scala dei valori delle “intelligenze” è quindi forgiata su base ancora
una volta oligarchica: è un’oligarchia che detta le regole ed i concetti
a sostegno della propria permanenza.
E qui si arriva allo stato attuale dell’organizzazione
della cultura; in tre parole: miseria, fiacchezza e vanità.
Miseria: la cultura non è un bene comune. E per disparità
sociali, economiche, geografiche; e perché tra coloro che vi potrebbero
avere davvero accesso, ben pochi ne riconoscono l’importanza: sono i
tempi che non danno risalto al sapere. Ma non è questo un discorso che
qui si vuole approfondire.
Fiacchezza: coloro che detengono la cultura sono
tipicamente moralmente imbelli. Poiché la trasmissione del sapere è
vista come qualcosa di diverso dalla formazione dell’individuo, dal suo
inserimento della società, dalla sua propria crescita spirituale,
sentimentale, politica, sociale. Il processo educativo è frammentato,
frammentario e spesso dannoso per il discente stesso. Non si bada alla
forma del sapere, e si finge di curarne la sostanza. L’amore per il
particolare è massimo: ma è un amore morboso, senza nerbo. Ed il
risultato netto è che il senso generale è perso, e la cultura è ridotta
a tecnicismo. L’uomo di cultura sa senza capire, è lanciato in un mondo
difficile senza che il tempo speso gli sia davvero valso. Il sapere è
trasmesso astrattamente: appreso, non
vissuto. E pure nell’astrazione, la superficialità è disarmante.
Il processo educativo finisce tardissimo, nominalmente tra i venti e i
trenta anni, ed è troppo lungo oltre che mal eseguito; la perdita di
risorse umane, enorme.
Vanità: in un contesto mediocre per sua stessa natura, vi
sono degli individui le cui potenzialità non vengono sprecate, e
riescono a raggiungere risultati notevoli in vari campi del sapere e
delle arti. Sono costoro che noi chiamiamo genii, coloro che riescono ad
elevarsi a rango superiore, a padroneggiare la propria materia, ad
essere un tutt’uno con l’arte. Eppure, il prezzo pagato è alto. Poiché
le carenze fondamentali del sistema educativo costringono una persona
ispirata, con una passione prorompente ed un intelletto acuto a notevoli
sacrifici, fisici, intellettivi, umani. Costoro non hanno un’educazione
migliore degli altri, bensì esprimono una scelta di fondo alla base
della loro vita: non è che una diversa mortificazione delle potenzialità
dell’uomo. La società è strutturata in modo da erigerli a mito, da
acclamare simili uomini e divinizzarli. Da rinchiuderli in una casta
inaccessibile, in cui loro stessi finiscono per bearsi, in eccessi di
pietosa vanità. Il mito del genio, oggi, è il mito di colui che sa senza
apprendere, che raggiunge risultati enormi in poco tempo, senza sforzo.
Il massimo risultato con il minimo sforzo. È la negazione del
sacrificio, della gradualità del processo di apprendimento. È un
aberrazione di concetto: come se una poesia, una musica, un teorema,
fosse lì, accessibile a tutti, come una mela posta in alto su un albero,
che aspetta di esser colta da quello più alto. Come se le differenze di
sensibilità d’animo, le sfumature dell’intelligenza e della creatività
fossero del tutto insignificanti, l’oggetto della ricerca fosse
indipendente dalla natura di chi cerca. È un sistema sbagliato, che
giustifica se stesso con una favola di disparità.
Dobbiamo dunque liberarci dal genio come demone e
riappropriarci della forza creatrice. È l’educazione delle nuove
generazioni che può assolvere a questo compito. È necessario recuperare
il valore della formazione dell’individuo, con una pedagogia attenta,
mirata, articolata, umana, sempre presente. Sarebbe bene consegnare al
mondo uomini adulti nel pieno della loro giovinezza, intesa come
freschezza intellettiva, fisica e spirituale. Quel che si vuole è che un
uomo poco più che ventenne sia a tutti gli effetti un uomo, ed abbia
tanto da dare al mondo ed ai suoi simili. L’intero sistema educativo
dovrebbe essere finalizzato a mettere in condizione ogni individuo di
esprimere i propri talenti in libertà sin dalla giovane età, con la
solidità alle spalle dei valori della comunità.
Come scrive Gramsci, l’idea che
«nel bambino il cervello sia come un gomitolo che il maestro aiuta a
sgomitolare»
è quantomeno riduttiva. È chiaro che se da un lato la volontà di
interpretare ed assecondare le naturali inclinazioni del discente è
fondamentale, dall’altro è d’uopo guidarne ed amministrarne le
potenzialità, smussando gli aspetti naturali od eventuali di
aggressività o eccessiva esuberanza, coltivando il senso della
collettività, del benessere individuale e comune.
Queste parrebbero
essere le due problematiche fondamentali di una novella pedagogia: da un
lato incentivare e promuovere sin dalla primissima infanzia lo sviluppo
delle facoltà intellettive e fisiche, dapprima con il gioco, poi con
programmi educativi accurati, e svelare ed esaltare le capacità dei
singoli; dall’altro trasmettere alla nuova umanità lo spirito
dell’umanità passata, affinché una continuità storica favorisca un buono
e giusto sviluppo della società.
SETTEMBRE 2010