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02
Ottobre 2010

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Per uno studio del Marxismo

«RIFLESSIONI SULLE CAUSE DELLA LIBERTA’ E DELL’OPPRESSIONE SOCIALE» DI SIMONE WEIL

Francesco Palmeri

 

Simone Weil scrive questo saggio nella Germania del 1934. Il suo proposito è di analizzarla, di capire cosa non funzioni o cosa stia effettivamente funzionando, perché sia sempre più opprimente e, in questo modo,  cercare un nuovo punto di partenza dall'idea di libertà. Il suo primo capitolo e pensiero è quindi riferito all'ideologia che si pone il suo stesso fine, ma dalla quale lei si dissocia: il Marxismo.

 

Analisi del Marxismo

Quest’ultimo, secondo Simone Weil, con espressioni come «la missione storica del proletariato», compie una narrazione quasi mitologica della realtà, concludendo con un mondo di Adamo ed Eva prima del peccato, dove gli uomini liberi ed eguali saranno sollevati dal peso del lavoro e potranno vivere dei frutti di un progresso tecnologico senza faticare. Weil osserva, a questo punto, che dei punti essenziali vengono trascurati: non è detto che la produzione, vista la crescita enorme degli ultimi tre secoli, sia destinata a crescere per sempre; non è assolutamente detto che, visto che ci è riuscita la borghesia contro la nobiltà, quando le forze produttive si scontrano con le istituzioni politiche le prime debbano vincere per forza; non è infine detto che il progresso tecnologico sarà illimitato: la ricerca è arrivata a livelli costosissimi, per cui è difficile vedere un ipotetico tornaconto in futuro.

In compenso Marx ci lascia una lezione fondamentale: tutto, in società come in natura, si svolge mediante trasformazioni materiali. Per studiare la società bisogna quindi studiare come fa l’uomo a vivere, cioè il modo di produzione. Un miglioramento dell’organizzazione sociale rende necessario uno studio preliminare e approfondito dei modi di produzione.

Weil analizza quindi le varie caratteristiche del modo di produzione e di creazione di rendimento produttivo, dalla questione energetica a quella organizzativa (suddivisione del lavoro), facendo previsioni su come la società sarebbe potuta diventare in futuro. Nonostante dovesse essere una sezione fondamentale del libro, appare tecnologicamente datata, soprattutto quando afferma che è difficile che la tecnica possa progredire più di tanto rispetto al livello raggiunto in quegli anni. Di conseguenza non verrà approfondita in questa sede. È invece di grande interesse contemporaneità l’analisi dell’oppressione sociale e della libertà che ne scaturiscono.

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Analisi dell’oppressione

Secondo Weil, Marx capisce che l’errore di tutte le rivoluzioni fino ad allora fosse stato quello di concepire l’oppressione come un sopruso o come qualcosa di cui liberarsi con la forza. Egli ha infatti compreso che l’oppressione esiste in quanto ha una funzione sociale nei rapporti di produzione. Questa intuizione è però viziata da postulati irrisolti: perché la divisione del lavoro deve tradursi necessariamente in oppressione? E chi garantisce che questa sia spazzata via nel momento in cui diventi economicamente controproducente? Marx, vale a dire, non compie il passaggio da Lamarck a Darwin: non è la funzione a creare l’organo, ma il contrario. L’organo nasce assolutamente a caso, e il criterio da utilizzare per lo studio non è una forza tendenziale misteriosa, ma quello di esistenza: l’essere senza organo non sopravvive. L’evoluzione umana è formata dalla somma delle azioni degli individui, ma queste sono scoordinate e produrrebbero un’infinità di soluzioni diverse. «Il caso è però limitato dalle condizioni di esistenza alle quali ogni società deve sottoporsi se non vuole essere annientata o soggiogata». Condizioni perlopiù ignorate da chi le subisce, «non agiscono imponendo una direzione agli sforzi di ciascuno, ma condannando a essere inefficaci tutti gli sforzi che esse vietano».

Occorre definire come limite ideale le condizioni che renderebbero la società priva di oppressione, anche se la contingenza ci indurrebbe a gettarci nella mischia delle cose importanti che accadono, o ad avvalerci del riformismo, aberrato dalla Weil in quanto finché non sarà stato definito con esattezza «il peggio» e «il meglio» ogni male visibile e identificabile in quanto presente risulterà sempre minore dei mali prodotti da un’azione non calcolata e non visibile.

Innanzitutto bisogna constatare che è molto raro riscontrare forme di società prive di oppressione, se non per società che abbiamo pochi strumenti per conoscere più da vicino e che comunque possiedono un grado di produzione molto basso, dove la divisione del lavoro è pressoché sconosciuta. «Ciò che sorprende non è che l’oppressione compaia solo a partire dalle forme avanzate di economia, ma che le accompagni sempre». Da ciò capisce come questa sia organo necessario per la sopravvivenza. L’oppressione deriva dalla forza, che ha fonte nella natura, ma forza e oppressione sono distinte. L’oppressione è generata esclusivamente da condizioni oggettive: innanzitutto la presenza di privilegi, che modernamente si manifestano nei nuovi sacerdoti, gli scienziati, cioè coloro che possiedono la comprensione dei processi anziché la mera nozione del risultato cui prestar fede; o nei militari, nel momento in cui possiedono armi da cui un disarmato non può sperare di difendersi. I privilegi, però, non bastano a spiegare l’oppressione: l’altro importante fattore è la lotta per il potere, senza la quale non sorgerebbe una necessità più brutale di quella imposta dai bisogni naturali. Chi detiene il potere, poiché soggioga degli esseri umani, deve rendersi temibile più dello stretto necessario per evitare la loro ribellione, e nel contempo lottare contro il pericolo dell’aggressione esterna. Ma essendo gli uomini attivi, essi possiedono una volontà ad autodeterminarsi cui non possono abdicare, e che perdono solo nel ritorno alla materia inerte. Il potente dovrebbe perciò sterminarli per ottenere questo risultato, e così facendo sparirebbe l’oggetto stesso del potere, e con esso il potere stesso. Ecco quindi la grande contraddizione fondamentale nell’essenza stessa del potere.

Da tale contraddizione scaturisce una corsa al potere tramite il potere che vede la sostituzione dei mezzi ai fini: «la ricerca del potere, per il fatto stesso che è essenzialmente impotente a raggiungere il proprio oggetto, esclude ogni considerazione di fine e giunge, per un rovesciamento inevitabile, a prendere il posto di tutti i fini». E non sono gli uomini, ma le cose a dare alla corsa al potere questi limiti: la moderazione, anche se apprezzata, non può essere praticata da chi corre per il potere. E se pure gli oppressi riuscissero ad abolire tutti i monopoli, a eliminare le posizioni di privilegio, verrebbero immediatamente schiacciati dal popolo che non ha operato la stessa trasformazione. «L’accrescersi del rendimento dello sforzo umano resterà impotente ad alleviare il peso di questo sforzo finché la struttura sociale implicherà il rovesciamento del rapporto fra mezzo e fine». E il potere, scontrandosi coi limiti strutturali su cui si poggia, finisce col cedere per la propria stessa tendenza all’espansione illimitata, manifestandosi proprio nella sua decadenza col suo volto più feroce.

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Quadro teorico di una società libera

Nulla può impedire all’uomo di sentirsi nato per la libertà. Ed è necessario, così, prima di agognarla, di definirla con precisione. La libertà non può essere intesa, infatti,  come semplice scomparsa delle necessità: l’ideale dell’età dell’oro non è tecnicamente realizzabile, né probabilmente lo sarà mai. Inoltre l’uomo senza l’ordine, la disciplina data dall’attività, finirebbe ozioso a crearsi i propri problemi, probabilmente degenerando. La libertà non consiste in un rapporto fra desiderio e soddisfazione, ma fra pensiero e azione. «Sarebbe completamente libero l’uomo le cui azioni procedessero tutte da un giudizio preliminare concernente il fine che egli si propone e il concatenamento dei mezzi atti a realizzare questo fine». Il che non significa agire arbitrariamente, poiché ogni azione è inserita in un contesto di situazioni oggettive. L’uomo è limitato, ma sarebbe libero se le condizioni della sua stessa esistenza fossero il frutto della sua azione diretta dal pensiero. Weil analizza quindi i vari ostacoli che questo tipo di libertà incontra nella nostra azione, come le dimensioni del sapere, il caso, l’inconoscibilità completa del nostro corpo. Inoltre quasi mai l’azione è figlia del proprio pensiero consapevole, e quasi mai il pensiero teorico è finalizzato all’azione del soggetto che lo ha pensato. Più spesso ci si limita ad applicare degli schemi, a usare automatismi, un pensiero, d’altra parte, basta per migliaia di azioni. Le macchine sono la rappresentazione emblematica di questo. Si può arrivare a formulare un modello sociale in cui tutti applichino formule matematiche che nessuno conosce. All’opposto, l’unico modo libero di produrre è quello in cui l’azione sia accompagnata dal pensiero in ogni sua fase, senza annullare ovviamente le conoscenze acquisite, ma tenendole sempre presenti. Ovviamente il grado di complicazione non deve essere troppo elevato, e, ovviamente, questo modello è molto lontano dalla realtà presente. Ma può essere un riferimento perché si cerchi di dilatare il più possibile la sfera del lavoro cosciente.

C’è inoltre un altro limite, ed è la presenza degli altri uomini. Lo sforzo produttivo e la sua coordinazione nella società libera all’estremo dovrebbero essere frutto di ogni uomo: ciascuno dovrebbe avere il controllo sulla catena di produzione e in qualche modo dirigerla. Il che significa soprattutto il riscatto dell’individuo rispetto alla collettività che si traduce nella non possibilità di essere utilizzato alla stregua di una cosa.

Questo quadro è forse più lontano dalla realtà dell’età dell’oro, ma a differenza di questa può in qualche modo servire per orientare la nostra analisi e azione. «Riassumendo: la società meno cattiva è quella in cui la maggior parte degli uomini si trova obbligata a pensare mentre agisce». la scienza dovrebbe quindi concentrarsi anziché sull’ampliamento delle conoscenze sulla loro stesura più semplice e metodica. La nuova società avrebbe come valore centrale e fondante il lavoro, l’unica grande scoperta intellettuale dopo il miracolo greco, legato ancora alla concezione dell’età dell’oro. Lavoro inteso come di sopra, la cui fatica derivante non sarebbe fonte di schiavitù, ma di soddisfazione e realizzazione per chi la compie.

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Profilo della vita sociale contemporanea

Nell'ultimo capitolo del saggio Simone Weil traccia il profilo della vita dell’individuo nella società degli anni 30. Questo quadro è interessante per la lucidità con cui abbia compreso quale sarebbe stato il destino di lì a poco della gran parte degli stati europei e per alcuni caratteri persistenti nel nostro nuovo millennio.

L’uomo non è mai stato così sottomesso a una collettività cieca e costretto a confrontarsi con realtà troppo al di fuori della propria portata materiale e intellettiva, le scienze matematiche sono un insieme così vasto da non poter essere assolutamente abbracciato da una singola mente e la gran parte dei lavori consiste in una serie di sforzi di cui non si vede o non si ha nemmeno idea dello sbocco finale. La coesione della scienza è garantita dai segni, quella dell’economia dalla moneta, e dove la direzione dell’azione è troppo gravosa per una sola mente subentra una macchina organizzativa composta di uomini: la burocrazia. «Tutte queste cose cieche imitano lo sforzo del pensiero tanto da trarre in inganno». E la burocrazia finisce col sostituire i propri capi. Il rovesciamento fra mezzi e fini, necessario a ogni società oppressiva, invade ogni cosa: lo scienziato non studia per capire ma per aggiungere pezzi di scienza al pensiero già costituito, gli uomini servono per far funzionare le macchine, che servono per immagazzinare capitale, l’attività di ogni gruppo serve a rafforzare l’organizzazione. La lotta per il potere economico è più conquistatrice che costruttrice, e dalla conquista deriva distruzione: il sistema capitalista è ormai più orientato alla distruzione che altro. E vista la crescente importanza che il ruolo dello stato riveste, essendo strutturalmente l’ente preposto a gestire situazioni di portata così grande, questi orienta l’attività economica verso il detto modello distruttivo. Non c’è quindi da sorprendesi se la guerra emerge in primo piano.

La rivoluzione, d’altra parte, per la Weil è una chimera: ad oggi non si è mai visto un’oppressione liberarsi per mani degli schiavi, e c’è da chiedersi come l’educazione alla schiavitù possa portare alla libertà, e come Marx abbia potuto crederlo. Orma il lavoro è visto come una schiavitù e il denaro come un favore, si viene pagati per la propria fatica quel tanto che basta per potersi permettere un qualche istante di ricchezza. In questa riflessione Weil è stata così estremamente lungimirante nel capire come si sarebbe imposto il modello neoliberista del «operaio imprenditore di se stesso», sfruttato per poter fare un paio di settimane a Portocervo. Quanto alla presa del potere, la grossa incomprensione sta nel mirare a una certa classe come la sua detentrice, anziché cogliere la realtà diffusa e soprattutto cieca e indefinibile della corsa al potere. «Negli ambienti che si ricollegano al movimento operaio i sogni sono abitati da mostri ideologici che si chiamano Borsa, Finanza, Banca e simili; i borghesi sognano altri mostri che chiamano mestatori, agitatori, demagoghi; i politici considerano i capitalisti come esseri soprannaturali che soli possiedono la chiave della situazione, e reciprocamente; ogni popolo guarda ai popoli vicini come a mostri collettivi animati da una perversità diabolica.»«Si dice spesso che la forza è impotente a soggiogare il pensiero. Là dove le opinioni irragionevoli prendono il posto delle idee, la forza può tutto». Dagli uomini non si può sperare molto, anche perché i mezzi di cui potrebbero servirsi  sono quelli che tuttora schiacciano, e continueranno a schiacciare finché esisteranno. Primo fra tutti, come già aveva capito Marx, lo stato. Poi i media. Inoltre l’idea che dall’altro emerga qualcuno volenteroso di fare del bene è ormai una chimera: di fronte alla complessità enorme della materia, nessun despota può essere «illuminato».

Weil, con grande lungimiranza, conclude riflettendo che probabilmente la sua generazione sarà quella che, dal punto di vista storico, dovrà sopportare le maggiori responsabilità immaginarie e le minori reali.

 

SETTEMBRE 2010

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