Questione meridionale (recensioni)
L’UOMO NERO DI SERGIO
RUBINI.
Un affresco della condizione meridionale
Alessandro D’Aloia
Il film di Sergio Rubini ci racconta in forma di commedia il
dramma dell’intelligenza nella provincia del Sud. Esso rappresenta in
modo efficace la difficoltà di realizzazione di sé che l’uomo incontra
nelle realtà provinciali più che altrove. Il tema portante può essere
individuato nella contraddizione fra «centro e periferia».
Lo sguardo di Rubini si posa su un’intera realtà che riguarda
una fetta consistente di persone, abitanti di territori-periferia più o
meno lontani da centri importanti. Racconta la vita di paese e il
soffocamento delle aspirazioni ad esprimere se stessi che dominano
pesantemente la scena in questi luoghi. L’ambientazione paesana non ha
quindi un carattere puramente estetico o pittoresco, ma un senso
culturale. Il racconto ambientato in un paesino della Puglia,
caratterizza una doppia perifericità dell’essere. Da un lato la
provincialità rispetto al capoluogo più prossimo (Bari), dall’altro il
Sud inteso come periferia rispetto ad un Nord culturale più che
geografico.
Elementi chiave della storia sono riscontrabili anche al di
là dei personaggi e del periodo narrativo principali. Gabriele Rossetti,
il figlio di Ernesto (il protagonista, capostazione e aspirante pittore
interpretato da Rubini), è infatti in età adulta diventato uno
scienziato di spessore internazionale, che però vive altrove, fuori
dall’Italia ovviamente. L’amarezza del racconto è implicita nella
considerazione che senza allontanarsi dal paese di origine, il
figlio-scienziato, non sarebbe sicuramente potuto diventare quello che è
diventato. Non avrebbe potuto sottrarsi al destino del padre, il quale
ostacolato da pregiudizi paesani lunghi una vita, ha dovuto infine
optare per l’abbandono delle aspirazioni che facevano di lui un uomo e
tornare ad essere un impiegato statale che esaurisce la propria
esistenza in un ruolo non suo e che lo aliena in definitiva da se
stesso. Non importa se il capostazione-pittore avesse o meno lo spessore
del genio della pittura, esso era sicuramente dotato di talento, ma il
fatto è che l’ambiente in cui viveva (e in cui in molti viviamo)
piuttosto che spronare il talento, o in generale l’intelligenza, le
svilisce, le mortifica, nel pregiudizio (tutto crociano) che o si è dei
geni assoluti o è meglio non sognare nulla per sé, non chiedere nulla
alla vita oltre a quello che la realtà data offre, come se la vita fosse
invece un privilegio per soli geni.
Il problema è che questa ipoteca culturale sull’intelligenza
ha un risvolto doppiamente negativo, individuale e sociale. Da un lato,
infatti, la mortificazione della persona non permette di scoprire nessun
talento (neppure dunque «il genio») costretto a restare muto, dall’altro
non consente neanche l’aspirazione personale a fare di sé degli uomini
consapevoli delle proprie indoli. Nella fattispecie del racconto di
Rubini, il pregiudizio si esprime attraverso la figura di un professore
sedicente critico d’arte, che però non è in grado di riconoscere un
falso da un originale, e del suo inseparabile ruffiano, un avvocato
simbolo dei lacchè che attorniano l’autorità demenziale dell’ignoranza.
Nella realtà il pregiudizio, che è sempre in definitiva una
paura, si esprime attraverso un vero e proprio ostracismo culturale,
verso gli attori di un qualsiasi modo di operare che non vogliano essere
confinati nei limiti ristretti dei modi di fare affermati. Qualsiasi
tentativo di sprovincializzazione delle periferie culturali è visto come
presunzione individuale. Il protagonista aspirante pittore è infatti
definito un presuntuoso dai suoi inquietanti detrattori, seguiti
acriticamente da un’opinione pubblica intontita dalla loro retorica
verbosa. La resistenza all’introduzione di livelli più evoluti di
operare è, in generale, cosciente ed agita coerentemente al fine di
impedire l’affermazione di nuove energie capaci di svecchiare
l’ordinario. In tal modo le gerontocrazie locali possono continuare a
perseguire impunemente rendite di posizioni assolutamente immeritate. Il
risultato è l’emigrazione culturale preventiva della stragrande
maggioranza di giovani energie che vanno ad affollare, in concorrenza
tra loro, i centri meno periferici già stracolmi di tutte le varietà
umane, lasciando al proprio destino un territorio umanamente sempre più
povero, ma che continua stoltamente a mandarle via. La percezione
diffusa è che ogni tentativo di esigere il proprio posto nella realtà di
origine sia solo tempo perso.
Nel film le figure del professore-critico d’arte e
dell’avvocato-lacchè, interpretano perfettamente il ruolo di una
borghesia ancora culturalmente agraria ed arretrata interposta fra le
aspirazioni legittime alla realizzazione di sé da parte della gente
comune e la possibilità anche solo di tentare di concretizzare tali
aspirazioni. Una perfetta macchina dell’immobilismo sociale, radicata
capillarmente sul territorio e dotata di agganci con i sistemi di
controllo ai livelli più alti (nella fattispecie del racconto: i media
locali). La doppia natura dei personaggi rimanda alle intersezioni che
nel sistema agiscono contro la libertà individuale. Il critico d’arte
non è infatti solo un affossatore di talenti, ma anche un genitore
severo ed insensibile e, nientemeno, un professore che, s’intende, gioca
un ruolo ugualmente nefasto nel suo ambito istituzionale: la scuola. Suo
figlio è destinato ad essere una nullità «ben educata» ed infelice.
Ma la tensione prodotta dalla frustrazione impera sull’intera
realtà rappresentata, tanto che Gabriele, l’occhio narrante, vede
proprio in suo padre un modello negativo da non seguire, l’uomo nero,
reso tale nei rapporti familiari, dalle vessazioni sociali che è
costretto a subire. Il dramma di quest’uomo è un dramma sociale, egli
sarà sconfitto perché lottatore solitario. Il suo paese immobile
conoscerà l’unica innovazione visibile nella forma delle merci che ne
decoreranno le strade e le piazze negli anni (automobili moderne e altre
forme della vita contemporanea), orfano dei propri figli migliori, a
loro volta impossibilitati nella completa comprensione di se stessi
all’estero. Gabriele, pur essendo uno scienziato non aveva capito niente
riguardo a suo padre ed ai suoi propri timori, prima di tornare in paese
al funerale del suo «vecchio».
In questo quadro generale nessuno è felice, meno ancora le
figure femminili. Franca (interpretata da Valeria Golino), la moglie
dell’inquieto Ernesto, è l’unica che crede veramente in suo marito, ma
perché prima di tutto sa di amare una persona «speciale», anche quando
lui è intrattabile e distratto verso di lei. Il suo ruolo di moglie e
madre le toglie spazio per altre aspirazioni rispetto al suo lavoro di
insegnate, lei non ha «grilli per la testa» e vive sostanzialmente della
sua famiglia nell’accettazione rassegnata di un’insoddisfazione di cui
non conosce le cause. Donna Valeria Giordano (interpretata da Anna
Falchi), moglie del dentista di Gabriele, è un’appariscente donna del
nord, apparentemente emancipata, ma incapace di vera indipendenza.
Finirà infatti per ricadere negli angusti solchi del perbenismo paesano.
Nell’uno e nell’altro caso i ruoli femminili sono entrambi ricondotti al
riflesso delle rispettive autorità maschili di riferimento. L’unica
donna che ci appare finalmente scevra da condizionamenti maschili, ma
non da una certa solitudine, è Margherita Bui nel ruolo di Anna, la
bambina che da piccola ha mostrato le mutandine a Gabriele, e che
evidentemente non ha subito i condizionamenti paesani, grazie ad un
ambiente di crescita più urbano. Di un suo eventuale marito non si sa
nulla.
Questo film che parla apparentemente di pittura, realizza un
affresco, completo di personaggi molto ben caratterizzati, di una realtà
che potrebbe sembrare relativa e periferica, ma che tende a
generalizzarsi estendendosi anche oltre i suoi ambiti tradizionali. Se
infatti il piccolo paese è periferia rispetto al capoluogo, il capoluogo
è periferia rispetto al Nord, e l’Italia è, già da un po’, periferia
rispetto ad altri centri internazionali. In sostanza qualsiasi luogo non
sappia offrire un futuro degno alle proprie migliori energie non può
essere considerato un «centro per la vita» e questo non sembra più
essere un problema solo per i piccoli centri. L’abbandono dei paesi (o
delle città) di origine da parte dei giovani in cerca di affermazione
personale è un sintomo molto esplicito sul giudizio implicito che questi
hanno del territorio da cui provengono. Purtroppo però questo abbandono,
di carattere spiccatamente individualista, non può essere la soluzione,
dato che la ricerca di altri luoghi per la propria realizzazione
professionale, non può garantire comunque una completa realizzazione
come esseri umani. L’assenza di umanità del mondo attuale, il quale
risulta sempre al di sotto delle aspettative delle persone, dalle più
semplici alle più ambiziose, non è qualcosa a cui si può ovviare
cambiando luogo, ma qualcosa da cui liberare ogni luogo, pena l’amarezza
di un’esistenza in cui per ogni cosa guadagnata ve n’è sempre un’altra
perduta, come capita ai personaggi del film di Rubini.
DICEMBRE 2009