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Gennaio 2010

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Questione meridionale (recensioni)

L’UOMO NERO DI SERGIO RUBINI.

Un affresco della condizione meridionale

Alessandro D’Aloia

 

Il film di Sergio Rubini ci racconta in forma di commedia il dramma dell’intelligenza nella provincia del Sud. Esso rappresenta in modo efficace la difficoltà di realizzazione di sé che l’uomo incontra nelle realtà provinciali più che altrove. Il tema portante può essere individuato nella contraddizione fra «centro e periferia».

Lo sguardo di Rubini si posa su un’intera realtà che riguarda una fetta consistente di persone, abitanti di territori-periferia più o meno lontani da centri importanti. Racconta la vita di paese e il soffocamento delle aspirazioni ad esprimere se stessi che dominano pesantemente la scena in questi luoghi. L’ambientazione paesana non ha quindi un carattere puramente estetico o pittoresco, ma un senso culturale. Il racconto ambientato in un paesino della Puglia, caratterizza una doppia perifericità dell’essere. Da un lato la provincialità rispetto al capoluogo più prossimo (Bari), dall’altro il Sud inteso come periferia rispetto ad un Nord culturale più che geografico.

Elementi chiave della storia sono riscontrabili anche al di là dei personaggi e del periodo narrativo principali. Gabriele Rossetti, il figlio di Ernesto (il protagonista, capostazione e aspirante pittore interpretato da Rubini), è infatti in età adulta diventato uno scienziato di spessore internazionale, che però vive altrove, fuori dall’Italia ovviamente. L’amarezza del racconto è implicita nella considerazione che senza allontanarsi dal paese di origine, il figlio-scienziato, non sarebbe sicuramente potuto diventare quello che è diventato. Non avrebbe potuto sottrarsi al destino del padre, il quale ostacolato da pregiudizi paesani lunghi una vita, ha dovuto infine optare per l’abbandono delle aspirazioni che facevano di lui un uomo e tornare ad essere un impiegato statale che esaurisce la propria esistenza in un ruolo non suo e che lo aliena in definitiva da se stesso. Non importa se il capostazione-pittore avesse o meno lo spessore del genio della pittura, esso era sicuramente dotato di talento, ma il fatto è che l’ambiente in cui viveva (e in cui in molti viviamo) piuttosto che spronare il talento, o in generale l’intelligenza, le svilisce, le mortifica, nel pregiudizio (tutto crociano) che o si è dei geni assoluti o è meglio non sognare nulla per sé, non chiedere nulla alla vita oltre a quello che la realtà data offre, come se la vita fosse invece un privilegio per soli geni.

Il problema è che questa ipoteca culturale sull’intelligenza ha un risvolto doppiamente negativo, individuale e sociale. Da un lato, infatti, la mortificazione della persona non permette di scoprire nessun talento (neppure dunque «il genio») costretto a restare muto, dall’altro non consente neanche l’aspirazione personale a fare di sé degli uomini consapevoli delle proprie indoli. Nella fattispecie del racconto di Rubini, il pregiudizio si esprime attraverso la figura di un professore sedicente critico d’arte, che però non è in grado di riconoscere un falso da un originale, e del suo inseparabile ruffiano, un avvocato simbolo dei lacchè che attorniano l’autorità demenziale dell’ignoranza.

Nella realtà il pregiudizio, che è sempre in definitiva una paura, si esprime attraverso un vero e proprio ostracismo culturale, verso gli attori di un qualsiasi modo di operare che non vogliano essere confinati nei limiti ristretti dei modi di fare affermati. Qualsiasi tentativo di sprovincializzazione delle periferie culturali è visto come presunzione individuale. Il protagonista aspirante pittore è infatti definito un presuntuoso dai suoi inquietanti detrattori, seguiti acriticamente da un’opinione pubblica intontita dalla loro retorica verbosa. La resistenza all’introduzione di livelli più evoluti di operare è, in generale, cosciente ed agita coerentemente al fine di impedire l’affermazione di nuove energie capaci di svecchiare l’ordinario. In tal modo le gerontocrazie locali possono continuare a perseguire impunemente rendite di posizioni assolutamente immeritate. Il risultato è l’emigrazione culturale preventiva della stragrande maggioranza di giovani energie che vanno ad affollare, in concorrenza tra loro, i centri meno periferici già stracolmi di tutte le varietà umane, lasciando al proprio destino un territorio umanamente sempre più povero, ma che continua stoltamente a mandarle via. La percezione diffusa è che ogni tentativo di esigere il proprio posto nella realtà di origine sia solo tempo perso.

Nel film le figure del professore-critico d’arte e dell’avvocato-lacchè, interpretano perfettamente il ruolo di una borghesia ancora culturalmente agraria ed arretrata interposta fra le aspirazioni legittime alla realizzazione di sé da parte della gente comune e la possibilità anche solo di tentare di concretizzare tali aspirazioni. Una perfetta macchina dell’immobilismo sociale, radicata capillarmente sul territorio e dotata di agganci con i sistemi di controllo ai livelli più alti (nella fattispecie del racconto: i media locali). La doppia natura dei personaggi rimanda alle intersezioni che nel sistema agiscono contro la libertà individuale. Il critico d’arte non è infatti solo un affossatore di talenti, ma anche un genitore severo ed insensibile e, nientemeno, un professore che, s’intende, gioca un ruolo ugualmente nefasto nel suo ambito istituzionale: la scuola. Suo figlio è destinato ad essere una nullità «ben educata» ed infelice.

Ma la tensione prodotta dalla frustrazione impera sull’intera realtà rappresentata, tanto che Gabriele, l’occhio narrante, vede proprio in suo padre un modello negativo da non seguire, l’uomo nero, reso tale nei rapporti familiari, dalle vessazioni sociali che è costretto a subire. Il dramma di quest’uomo è un dramma sociale, egli sarà sconfitto perché lottatore solitario. Il suo paese immobile conoscerà l’unica innovazione visibile nella forma delle merci che ne decoreranno le strade e le piazze negli anni (automobili moderne e altre forme della vita contemporanea), orfano dei propri figli migliori, a loro volta impossibilitati nella completa comprensione di se stessi all’estero. Gabriele, pur essendo uno scienziato non aveva capito niente riguardo a suo padre ed ai suoi propri timori, prima di tornare in paese al funerale del suo «vecchio».

In questo quadro generale nessuno è felice, meno ancora le figure femminili. Franca (interpretata da Valeria Golino), la moglie dell’inquieto Ernesto, è l’unica che crede veramente in suo marito, ma perché prima di tutto sa di amare una persona «speciale», anche quando lui è intrattabile e distratto verso di lei. Il suo ruolo di moglie e madre le toglie spazio per altre aspirazioni rispetto al suo lavoro di insegnate, lei non ha «grilli per la testa» e vive sostanzialmente della sua famiglia nell’accettazione rassegnata di un’insoddisfazione di cui non conosce le cause. Donna Valeria Giordano (interpretata da Anna Falchi), moglie del dentista di Gabriele, è un’appariscente donna del nord, apparentemente emancipata, ma incapace di vera indipendenza. Finirà infatti per ricadere negli angusti solchi del perbenismo paesano. Nell’uno e nell’altro caso i ruoli femminili sono entrambi ricondotti al riflesso delle rispettive autorità maschili di riferimento. L’unica donna che ci appare finalmente scevra da condizionamenti maschili, ma non da una certa solitudine, è Margherita Bui nel ruolo di Anna, la bambina che da piccola ha mostrato le mutandine a Gabriele, e che evidentemente non ha subito i condizionamenti paesani, grazie ad un ambiente di crescita più urbano. Di un suo eventuale marito non si sa nulla.

Questo film che parla apparentemente di pittura, realizza un affresco, completo di personaggi molto ben caratterizzati, di una realtà che potrebbe sembrare relativa e periferica, ma che tende a generalizzarsi estendendosi anche oltre i suoi ambiti tradizionali. Se infatti il piccolo paese è periferia rispetto al capoluogo, il capoluogo è periferia rispetto al Nord, e l’Italia è, già da un po’, periferia rispetto ad altri centri internazionali. In sostanza qualsiasi luogo non sappia offrire un futuro degno alle proprie migliori energie non può essere considerato un «centro per la vita» e questo non sembra più essere un problema solo per i piccoli centri. L’abbandono dei paesi (o delle città) di origine da parte dei giovani in cerca di affermazione personale è un sintomo molto esplicito sul giudizio implicito che questi hanno del territorio da cui provengono. Purtroppo però questo abbandono, di carattere spiccatamente individualista, non può essere la soluzione, dato che la ricerca di altri luoghi per la propria realizzazione professionale, non può garantire comunque una completa realizzazione come esseri umani. L’assenza di umanità del mondo attuale, il quale risulta sempre al di sotto delle aspettative delle persone, dalle più semplici alle più ambiziose, non è qualcosa a cui si può ovviare cambiando luogo, ma qualcosa da cui liberare ogni luogo, pena l’amarezza di un’esistenza in cui per ogni cosa guadagnata ve n’è sempre un’altra perduta, come capita ai personaggi del film di Rubini.

 

DICEMBRE 2009

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