Coscienza di classe e consenso oggi
RIFLESSIONI SU CLASSE,
COSCIENZA, CONSENSO, LINGUAGGIO E MANIPOLAZIONE.
Massimo Ammendola
Nelle mutate condizioni della vita contemporanea, le
categorie utilizzate per indicare i vecchi gruppi sociali, nati con
La classe operaia, ad esempio, è una categoria zombie, così
come Ulrich Beck definisce quei concetti e schemi di lettura del mondo
che vengono ancora impiegati pur avendo perso capacità rivelatrice del
reale: famiglia, vicinato, comunità, classe, proletariato, finiscono
oggi per costituire quasi un ostacolo alla comprensione della realtà[2].
Queste categorie, che denotavano sfere e forze di tensione e di
contraddizione, sono come svuotate, e perdendo la loro connotazione
critica, tendono a diventare termini descrittivi, ingannevoli.
Guardando alla società odierna, la classe operaia pare sia
stata inglobata all'interno della società del benessere e dei consumi,
diventando parte di una vasta «classe media»: i proletari, dal secolo
scorso sono diventati a tutti gli effetti consumatori, al servizio della
classe dominante, che punta alla crescita economica come fine a se
stesso, e non è orientata al miglioramento della vita di tutti.
Eppure, nonostante la distruzione delle risorse e la
proliferazione dello spreco, la minaccia continua che viene dal cibo che
mangiamo, da poteri occulti che scavalcano la democrazia, dall’aria che
respiriamo, dai tessuti, dai materiali di cui sono fatti i nostri mobili
e le nostre case, è come se stessimo bene.
«Siamo in un'epoca di passioni tristi», così la definiscono
Benasayag e Schmit[3]: un’epoca
contrassegnata da impotenza, disgregazione, incertezza, mancanza di
senso, un’epoca in cui tutto pare possibile, e allora niente è più
reale. Un’epoca che produce una soggettività straniata, un sentimento di
esteriorità rispetto al mondo circostante. E siamo molto spaventati
dall'incertezza odierna, ma contemporaneamente, c'è appagamento: «La
comunità se la passa troppo bene per darsi pensiero»[4].
Inoltre non pensiamo siano possibili alternative allo stato di cose
attuale, ed in fondo, il cambiamento spesso ci fa paura, e tendiamo
quindi ad essere tendenzialmente conservatori, chi più chi meno. Così,
con l'azzeramento della cultura della collettività come soggetto, una
vera proposta alternativa pare impossibile. L'élite che gestisce il
sistema economico-industiale, invece, riesce a trarre profitto anche dal
rischio e ci riesce sempre meglio, portando avanti tutto un sistema che
è del tutto irrazionale.
Come siamo arrivati a tutto ciò?
Il nuovo spirito del capitalismo
La globalizzazione economica e l'affermarsi di un regime di
accumulazione flessibile[5]
hanno determinato frammentazione sociale, precarietà e fluidità, nei
rapporti lavorativi, così come nelle relazioni tra gli uomini, con lo
spazio e con il tempo. In declino ormai il modello del maschio adulto
lavoratore e pater familias, supportato da diverse forme di aiuto
statale (welfare), si sviluppa
caos, anche negli altri ambiti connessi al lavoro. La diminuzione
della stabilità e il moltiplicarsi delle forme di lavoro atipiche, si
combina con forti mutamenti sociali, nonché con il forte indebolimento
della struttura degli stati nazionali, sotto l'attacco del capitalismo
multinazionale.
Soggettivamente, l'esperienza quotidiana, la vita di ognuno,
diventa sempre più individuale. Non è una semplice atomizzazione, ma un
individualismo istituzionalizzato, cioè una situazione in cui da un lato
l'individualità diviene «l'unità riproduttiva della vita sociale»[6],
dall'altro l'identità diventa «a progetto», in perpetua ed incerta
costruzione: è il «nuovo spirito del capitalismo», che si definisce
attorno a un criterio di legittimazione centrato sull'idea di «vita a
progetto»[7].
Epicentro di questa trasformazione è il mercato del lavoro,
che ha fortemente aumentato la frammentazione sociale. In fondo era
stata proprio l'esperienza del lavoro in fabbrica, standardizzato, che
aveva reso possibile la solidarietà di classe. Ancora Beck coglie
efficacemente il fatto che, oggi, un qualsiasi tipo di discorso sulla
«classe operaia» perde la sua evidenza fondata sull'esperienza
quotidiana, e così vengono a cadere i fondamenti e i riferimenti
riguardo le questioni se il proletariato si sia «imborghesito» o gli
impiegati si siamo «proletarizzati»[8].
Tutti coloro che lavorano e sono sfruttati direttamente o
indirettamente, e sono soggetti alle norme capitalistiche di produzione
possono esseri definiti oggi «proletari»? Impossibile definire il
concetto di proletariato.
Almeno in questa fase storica, la pluralizzazione
dell'esperienza lavorativa costituisce senz'altro un ostacolo alla
riproduzione dell'idea di classe.
La classe operaia non è più facilmente rintracciabile,
insomma. E ciò lascia un vuoto non solo sul piano dell'analisi, ma anche
sul piano politico e culturale: in un mondo sociale in rapida
trasformazione, privo di un baricentro, organizzato su diversissimi
piani per quanto riguarda spazi e istituzioni, con molteplici
riferimenti culturali – la cosiddetta «modernità liquida» di Zygmunt
Bauman –, l'analisi della realtà deve riferirsi al modo in cui i gruppi
sociali possono accedere alle diverse risorse disponibili, in campo
economico, ma anche in campo culturale (accesso alla comunicazione e ai
prodotti culturali), e nelle relazioni tra questi due campi.
Nella (ormai superata) società dello stipendio fisso, il
problema della disuguaglianza sociale coincideva in sostanza a quello
della ineguale distribuzione dei frutti della crescita economica. Oggi,
forse ancor più che in passato, la disuguaglianza non si riduce solo
all'ambito puramente economico. Nella società globalizzata e
interconnessa dalle tecnologie della comunicazione vecchie e nuove,
l'esperienza quotidiana, la produzione, i rapporti di potere, si
strutturano non più attorno ad un'unica dimensione (che prima vedeva
coincidere territorio, spazio sociale ed esperienza soggettiva), ma
nell'intreccio dello spazio dei luoghi e quello dei flussi, in un mix di
mobilità, flessibilità, efficienza, prevedibilità, calcolabilità,
controllo.
La fine dell'epoca del welfare, che ha favorito una
certa stabilizzazione anche dei ceti medio-bassi, confluiti nella classe
media, porta a una condizione di vulnerabilità sociale, a sentimenti di
insicurezza e sofferenza, riferiti al futuro incerto, che provocano la
mancanza di quel minimo di fede e speranza nel futuro che sono
necessarie per ribellarsi contro il presente, anche quello più
intollerabile: tutto ciò definisce una nuova condizione di
subordinazione, che si manifesta nel sentirsi isolati e privi di una
lettura condivisa del mondo e dei suoi rapporti sociali, nell'essere
vulnerabili nel proprio lavoro, economicamente, esposti a dinamiche che
non si controllano e privati di quelle sicurezze sociali attorno a cui
si organizzava la vita personale e familiare, nel non riuscire più a
capire che i propri interessi coincidono con quelli degli altri e nel
fare proprie logiche di adattamento individualistico, di autopromozione.
Dalla classe al ceto
In una situazione sociale in cui le biografie sono sempre più
frammentate, in cui le occasioni di distinzione legate al consumo
aumentano, in cui l'individualizzazione definisce l'ordine del discorso
in ogni ambito della società, in cui le esperienze di lavoro si
diversificano, i processi di classificazione, identificazione e
riconoscimento necessari alla formazione e mobilitazione di una «classe»
diventano particolarmente difficoltosi.
Per Magatti e De Benedittis è utile quindi recuperare il
termine «ceto», proprio per indicare quelle aggregazioni fluttuanti,
relativamente poco definite, in quanto iper-sollecitate e identificate
con le varie sfere (lavoro, consumi, territorio). I cosiddetti «nuovi
ceti popolari», più che come i vecchi ceti rigidi e chiusi, vanno
pensati in modo dinamico e plurale, riconoscendone sia le differenze
interne, sia il debole senso di identità collettiva: cogliere la
frammentazione e il carattere composito, ma senza perdere di vista le
comunanze oggettive.
Il processo di frammentazione sistemica e culturale allontana
l'esperienza dei nuovi ceti da quella della classe operaia: la mancanza
di condivisione della medesima condizione si perde, tra precarietà
lavorativa e complessità culturale della società, che rendono
impossibile il riconoscersi in una qualche comunità. Negli stessi luoghi
di lavoro, esistono soggetti che svolgono le stesse mansioni, ma con
paghe, contratti e orari profondamente diversi.
La situazione si aggrava con il fatto che le identità
collettive di tipo politico, quali partiti, sindacati, hanno perso la
loro funzione collettiva di richiamo identitario, e anche le nuove forme
di aggregazione, quelle dei movimenti e dei comitati cittadini,
dipendono dal capitale culturale e scolastico, tramite i quali si
costruisce la disposizione all'universale e quindi alla partecipazione,
alla riflessione, all'espressione delle proprie posizioni.
La coscienza è lenta
Nel momento critico che stiamo vivendo, cosa può fare una
persona qualunque con uno stipendio minimo, praticamente ricattata da
ogni parte, senza l'appoggio di un sindacato, di un partito, senza una
fonte di informazione affidabile, senza punti di aggregazione dove poter
confrontarsi, discutere? Di cosa deve nutrire la propria anima, in nome
di quali principi dovrebbe reagire?
È necessario un approccio distaccato per comprendere i
cambiamenti in corso: ma davvero è possibile?
La coscienza è in ritardo, non coglie il presente. Molto più
che il passato, è lo stesso presente che sfugge, e la coscienza non può
essere un luogo di decisione efficace. Si dovrebbe cercare invece di
fare emergere nuove possibilità, facendo dipendere la coscienza dalle
nostre pratiche, cercando la consapevolezza, l’energia che ci aiuta a
riconoscere e accogliere «ciò che è», ovvero ciò che esiste o avviene in
noi e intorno a noi nel qui e ora.
Chi un approccio distaccato se lo può permettere, chi ha
possibilità d'accesso al capitale culturale e scolastico, chi potrebbe
conoscere, studiare, in mezzo all'oceano di informazioni, partecipare,
creare e vivere pratiche nuove, chi si potrebbe mettere a disposizione
della comunità, troppo spesso si chiude in un settarismo che accomuna la
quasi totalità dei gruppi e delle associazioni operanti, piccoli porti
in cui ci si nasconde, senza ri-uscire più in mare aperto. Si brancola
divisi, con mancanza di metodo, in mezzo ad un narcisismo straripante e
assolutamente interclassista, senza vere possibilità di confronto.
L'indignazione non si trasforma in mobilitazione, si sbuffa e si va
avanti.
L'azione, l'agire, mancano di senso: su questo si basa
l'oppressione. La debolezza dell'agire diventa debolezza del pensare:
spesso si dice che in passato si moriva per le idee, ma oggi si tende ad
esser antipolitici, e così le masse hanno perso potenziale politico.
Pseudo-comunità televisive
Restano, obbligatoriamente, solo pochissimi ambiti che creano
una qualche forma di identificazione (ma che contemporaneamente creano
anche addomesticamento): la televisione, medium di massa per eccellenza
ed accessibile a tutti, la totalizzante «esperienza» del consumo, e un
radicamento nelle proprie tradizioni (religiose, territoriali, etniche).
La televisione è infatti il media più inserito nella
famiglia, nel quotidiano, anche nel lavoro, rispetto ad altri media come
cinema, teatro, concerti, che richiedono comunque una rottura col
quotidiano.
La televisione, insieme agli altri media e ai produttori
dell'informazione, crea la realtà, e crea anche le odierne
pseudo-comunità, basandole
su paure, ossessioni ed emergenze, che ciclicamente tornano alla
ribalta, come immigrazione, pedofilia, ecc.
Il modello «emozionale» è ormai oliato, basato sull'intreccio
televisivo tra gossip e voyeurismo, che ben si riassume nei reality
show che producono il fenomeno che Thompson chiama di intimità
non reciproca a distanza[9],
in cui abbiamo gli spettatori (soggetti alle prese con scarse
possibilità di costruzione soddisfacente dell'identità e basso
riconoscimento sociale sulla scala del prestigio) che si identificano e
si avvicinano emozionalmente ai personaggi dello star system.
La debolezza dei nuovi ceti popolari li rende quindi facili
prede degli «imprenditori di identità», che in questo periodo storico
hanno tanto successo.
Per quanto riguarda l'accesso alla comunicazione con il
computer, la rete Internet è ancora fortemente elitaria: alla
disuguaglianza d'accesso, il cosiddetto digital divide, che in
Italia è ancora molto forte, si aggiunge la difficoltà di selezione
nell'abbondanza di informazioni, nel mare magnum della rete, che
richiede energie, risorse e competenze da parte dell'utente. Quindi,
anche se economicamente è possibile accedere alla rete, c'è bisogno
comunque di un certo capitale culturale, che permetta di saperla usare e
di farlo bene.
Ma, anche a causa del contesto mediatico poco libero, è in
internet, che traspaiono idee che non avrebbero mai spazio sui grandi
media.
Esistono insomma, al giorno d'oggi, molti più canali
comunicativi rispetto al passato, ma aumentando la quantità, avendo
molta più possibilità di comunicare, siamo meno «collegati» di prima,
cioè peggiora la qualità della comunicazione. Non c'è una contemporanea
apertura della personalità, non c'è un percorso di comprensione di sé e
dell'altro e si parla ormai con formule preconfezionate, prive di
significato. E l'incapacità di comunicare è anche sintomo
dell'incapacità di condividere progetti comuni. Nel parlare il proprio
linguaggio, la gente parla il linguaggio dei suoi padroni, degli agenti
pubblicitari, non esprimendo solo se stessi, le proprie conoscenze,
sentimenti e aspirazioni, ma anche qualcos’altro diverso da sé.
Descrivono ciò che i media della comunicazione di massa gli dicono, e
questo si confonde con quanto vedono e sentono realmente. Per
descriverci dobbiamo usare i termini della pubblicità, dei film, dei
politici, dei bestsellers. Ciò che gli individui intendono quando
dicono, si collega a ciò che essi non dicono. Oppure ciò che intendono
non può essere preso alla lettera, non perché mentano, ma perché
l’universo di pensiero e di pratica in cui vivono è un universo di
contraddizioni manipolate.
Se la classe operaia faceva dell'identità collettiva la
propria forza, nella modernità liquida chi dispone di poche risorse
economiche e culturali si ritrova in una condizione che gli appare, dal
punto di vista delle idee e degli interessi, dissimile da coloro che lo
circondano: è forte la frammentazione, il riconoscimento di sé e degli
altri non passa più dalla comune condizione lavorativa, lo stesso
ingresso nella vita sociale non è più scandito dall'inserimento nel
lavoro, né dal punto di vista temporale né da quello rituale.
Mancando una stabilità lavorativa, il consumo si afferma come
compensazione che rassicura, diventa la via più facile, comoda e
realistica per l'ingresso nel mondo sociale circostante.
Così l'uomo più insicuro, tende a rimanere ignaro delle
proprie potenzialità e capacità, che i luoghi della formazione non
esaltano ma, al contrario, formano uomini «inferiori», che non possono
che poi mendicare aiuti per la sopravvivenza. Gli insicuri trovano nel
narcisismo uno sfogo naturale della propria condizione e assumono
comportamenti masochistici e di difesa della propria condizione a
oltranza. E il paternalismo della destra attuale si innesta
perfettamente su questi bisogni, rassicurando e soggiogando l'ego.
La solitudine, la condizione stessa che sosteneva l’individuo
contro ed oltre la sua società, è divenuta tecnicamente impossibile:
questo aspetto della sfera privata – la sola condizione che, quando i
bisogni vitali siano stati soddisfatti,
può dare significato alla libertà e all’indipendenza di pensiero
– è diventata da tempo la più dispendiosa delle merci.
Fintanto che gli individui sono indottrinati e manipolati non
possono rendersi conto della distinzione tra bisogni veri e falsi[10].
I bisogni falsi vengono sovrimposti all’individuo e sono quelli che
perpetuano la repressione, la fatica, l’aggressività, la miseria e
l’ingiustizia. L’individuo può trovare estremo piacere nel soddisfarli,
ma non possono essere conservati e protetti se servono ad arrestare lo
sviluppo della capacità (sua e di altri) di riconoscere la malattia
dell’insieme e afferrare le possibilità che si offrono per curarla. Il
risultato è pertanto un’euforia nel mezzo dell’infelicità.
«L'esperienza» del consumo
Altra fortissima forma di identificazione la crea il consumo,
che ha stravolto l'associazione tipica tra condizione popolare, lavoro e
risparmio. Il «gusto del necessario» è stato soppiantato dal «gusto
dell'usa e getta». Inoltre molte azioni quotidiane, si intersecano e si
confondono con il consumo, da quando questo, specie nei paesi
industrializzati, include vastissimi segmenti sociali, modificando
l'esperienza degli individui e delle relazioni. La maggior parte dei
bisogni che prevalgono, bisogno di rilassarsi, divertirsi, comportarsi e
consumare in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare e odiare ciò
che altri amano e odiano, appartengono a questa categoria di falsi
bisogni, determinati da potenze esterne.
L'atto del consumare non ha bisogno di alcuna mediazione: a
15 anni puoi andare pure malissimo a scuola, ma sei già un perfetto
consumatore. Acquistare beni o emozioni è la cosa più semplice al mondo.
Non è faticoso, non sono necessarie competenze particolari, dato che si
acquisiscono automaticamente: guardando la televisione e stando con gli
altri. In fondo, essere e sentirsi come gli altri è anche il modo più
rapido per sanare, superficialmente, le proprie ferite interiori.
Quindi, per una fase lunga della vita, i nuovi ceti popolari
utilizzano soprattutto il consumo come canale per confermare la propria
appartenenza societaria: se non consumi, sei tagliato fuori, si è
«alieni», in una condizione soggettiva nuova di alienazione, di
separazione, di estraniazione. Se si accede ai modelli e ai luoghi del
consumo, ci si sente parte della pseudo-comunità, si viene riconosciuti
e si riconosce. E il consumo diventa quindi il momento del sentirsi
parte, esperienza fondamentale per l'uomo. Disgregate le comunità e il
tessuto operaio, distrutto qualsiasi vero senso di appartenenza,
l'individuo è più fragile, diventa difficile riuscire a conservare una
vera vita relazionale che sia significativa. In un mondo in cui le
tradizionali reti di relazioni sono sempre più striminzite, frequentare
i luoghi del consumo è un modo comodo per costruire amicizie esterne
alla famiglia.
L'iperconsumo è alla base del sistema che sovrapproduce, e si
iperconsuma anche facendo debiti, anche se i soldi non ci sono: è una
Religione[11], con i suoi luoghi di
culto, o meglio i suoi non-luoghi[12],
le sue cattedrali, i freddi ed impersonali centri commerciali, luoghi
sociali della vita d'oggi, dove si celebrano riti, dove tempo e spazio
sono sospesi.
Gli oggetti di
consumo sono i nuovi miti d'oggi, le idee che più di altre ci pervadono
e ci plasmano come individui e come società, quelle che la pubblicità e
i mezzi di comunicazione di massa propongono come valori e impongono
come pratiche sociali, fornendo loro un linguaggio che le rende
appetibili e desiderabili. I miti sono idee che ci possiedono e ci
governano con mezzi non logici, ma psicologici, e quindi radicati nel
profondo della nostra anima.
«Non bisogna
dimenticare che l'oggetto è il miglior portatore del soprannaturale: c'è
facilmente nell'oggetto una perfezione e insieme un'assenza di origine,
una chiusura e una brillantezza, una trasformazione della vita in
materia (la materia è assai più magica della vita), e per dir tutto un
silenzio che
appartiene all'ordine del meraviglioso»[13].
Le
multinazionali diventano fabbricanti di sogni e universi, di futuri e
sensazioni. Scattano desideri istintivi e inconsci, la pubblicità
manipola i desideri inconsci e egoistici per creare bramosia verso ogni
nuovo marchio o prodotto, facendoci desiderare anche ciò di cui non
abbiamo bisogno.
Si creano
diverse percezioni dei prodotti, vi si instillano filosofie, modi di
essere, che legano al prodotto un esercito di fedeli, si creano legami
emotivi con i prodotti e le filosofie delle loro aziende, i modelli di
comportamento che veicolano si traducono concretamente in stili di vita
e di consumo: il quadro è completo, si crea così un anello che congiunge
la vita di tutti i giorni e i macrocontesti della sfera pubblica e dei
media.
La costante frammentazione dei prodotti culturali, tipica
dell'uso del Web 2.0, genera un nuovo fenomeno di attenzione e
percezione attiva dello spettatore-partecipante. Prendiamo l'esempio di
una sottospecie della serie iPod,
l'iPod shuffle: questo lettore
musicale segna in modo deciso la cultura frammentata di quest'epoca, con
l'impossibilità di scegliere quale musica ascoltare, se non a priori,
che rafforza la cosiddetta
snack-culture, la «cultura dello spuntino», in cui la fruizione
tramite strumenti digitali di musica, film, telefilm e video si sta
spezzettando sempre di più, permettendo all'utente di partecipare alla
creazione di nuovi modi di presentare i prodotti culturali[14]. Questo fatto, unito
al cambiamento di strategia da parte dei grandi soggetti industriali che
producono film, libri, musica e anche pubblicità, genera uno stato di
sollecitazione minima ma costante per il pubblico che vi vive
perennemente immerso.
Questo modello di socializzazione ha una caratteristica
vincente: diversifica mentre unifica. Si attenua così la sensazione
soggettiva di omologazione e subordinazione che era tipica della
condizione operaia tradizionale, e i nuovi ceti popolari vengono
integrati nel nuovo spirito del capitalismo, dando il loro contributo a
tenere oliato il meccanismo.
I nuovi ceti popolari sono terreno di conquista da parte di
chi è in grado di capire i loro sentimenti, le loro aspettative, le loro
paure, in un contesto generale dominato da instabilità e
imprevedibilità. Vulnerabili, spaventati, siamo manipolabili e
programmabili, tendiamo più ad essere automi, che umani.
Liberi di scegliere il proprio
destino?
I destini personali non sono più omogenei, anche se i
fallimenti sono tanti, il ventaglio delle possibilità è ampio: c'è
sempre qualcuno che ce l'ha fatta, ha colto l'occasione, si è
autorealizzato. Sono questi i valori della «vita a progetto», a
prescindere dall'effettiva possibilità di poter realizzare, nella
propria esistenza, qualcosa di vagamente vicino alle proprie
aspirazioni. L'indeterminatezza in un certo senso diventa libertà. Ci si
sente liberi e uguali agli altri: avendo (in teoria) accesso a tutto ciò
che il mercato e i media offrono. Così si sviluppa una visione del mondo
orizzontale, scompare insomma il conflitto di classe: l'autorità si
frantuma, e cresce la sensazione di poter decidere da sé, per sé; e si
riduce la percezione dello «stare in basso», anche se le disuguaglianze,
ad ogni livello, continuano ad essere presenti. Il sabato sera,
ad esempio, la festa comandata per eccellenza, si è tutti uguali:
la persona che eri durante la settimana non esiste più. Lo stesso accade
nei centri commerciali, se hai un po' di soldi in tasca, si annullano
apparentemente differenze e gerarchie sociali.
La subordinazione chiara, evidente, gerarchica, del lavoro in
fabbrica, viene rimpiazzata da una invisibile disciplina, in cui
l'uguaglianza (falsa) dell'accesso ai consumi, alle reti relazionali e
ai media è condizionata dalla necessità di stare al gioco, di
appartenere, anche al di là delle disuguaglianze: è questa la forma
contemporanea della subordinazione che lega i nuovi ceti popolari,
dotati di poche risorse economiche e culturali, ai modelli culturali
prevalenti.
E non si nutre più speranza di realizzare un progetto di
mutamento sociale, non si pensa di esser in alcun modo in grado di
contribuire a determinare il corso degli eventi, ma, in un mix di
realismo e fatalismo, di individualismo nichilista e di rigida chiusura,
si spera in una salvezza attesa nel microcosmo della propria vita
quotidiana e dei propri circoli relazionali, senza più il bisogno o
l'aspirazione di cambiare status, appoggiandosi su ciò che si ha, ora
sui consumi, ora sulla famiglia, ora sulla religione, ora sul lavoro.
Perché in realtà le difficoltà quotidiane sono enormi, trovandosi
«shakerati» tra pratiche di vita e modelli mediatici,
economico-culturali, che pretendono una continua destrutturazione, un
continuo e stressante lavoro di adattamento, nonché una continua
necessità di denaro per stare al passo coi tempi e le mode: è il
desiderio di emulare la ricchezza altrui, le case, i vestiti, le auto,
tutte cose che soddisfano innanzitutto il bisogno di considerazione
sociale di chi le possiede, stimolando perennemente «la lotta degli
egoismi»[15] e la rivalità tra
poveri e poveri, così come pure, allo stesso modo, quella tra ricchi e
ricchi, che alla fine accrescono comunque la concentrazione di ricchezza
e potere in mano alle classi privilegiate.
Si insegue un modello di libertà negativa, in cui sono tutti
liberi da ogni interferenza, dallo Stato, dalle tasse, in cui vince
l'idea forte di perseguire la via del consumo e della ricchezza. E
questo modello è profondamente radicato, specie in Italia, dove c'è una
versione estremizzata di un trend che è comunque presente in gran parte
dell’Europa.
Ma allo stesso tempo, non esiste più speranza, il futuro
diventa minaccia: i destini personali si separano da quelli collettivi.
La globalizzazione economica, che collega, che «apre» il locale al
globale, spaventa e crea insicurezza e angoscia nei nuovi ceti popolari:
sentono il loro territorio, spazio di per sé limitato, come vulnerabile,
e continuamente invaso da processi esterni che sfuggono al controllo e
spesso anche alla semplice comprensione.
Totalitarismo dolce
L'affermazione del nuovo spirito del capitalismo e la
frammentazione lavorativa e culturale decretano l'incapacità di pensare
la realtà circostante e quindi di immaginare di poterla cambiare o
condizionare, il che condanna i nuovi ceti popolari all'insignificanza
sociale. Oggi siamo forse un grado oltre l'indifferenza di cui scriveva
Gramsci: «L’indifferenza è il peso morto della storia.
L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma
opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che
sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la
materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che
si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla
sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà
abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento
potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non
sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e
la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la
fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro
che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale
rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e
chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni
piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o
pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi
cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è
successo?»[16].
La fine della classe operaia, della fiducia nel progresso e
nella politica va di pari passo con la caduta della coscienza storica,
conseguenza dell'incapacità di codificare il mutamento culturale in
corso: la memoria si sta affievolendo, e come può l'uomo realizzare sé
stesso senza sapere chi era prima?
La situazione della nostra società è praticamente di
«totalitarismo dolce», che prende il sopravvento sulle libertà
individuali e sulla realizzazione dell'individuo, che non permette
l'accesso a una piena cittadinanza sociale.
L’apparato tecnico di produzione e di distribuzione (sempre
più automatizzato) funziona come un sistema che è totalitario, nella
misura in cui determina non soltanto le occupazioni, le abilità e gli
atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni
individuali: in tal modo dissolve l’opposizione tra esistenza privata ed
esistenza pubblica, tra i bisogni individuali e quelli sociali, che
vengono quindi manipolati. La tecnologia serve per istituire nuove forme
di controllo sociale e di coesione sociale, più efficaci e più
piacevoli.
Questa capacità di contenere e controllare il mutamento
sociale è forse il successo più potente e caratteristico della società
industriale avanzata: Marcuse parla di «integrazione degli opposti» e di
«chiusura dell'universo di discorso»[17]:
al tempo stesso i risultati, non meno che i requisiti, di tale successo.
Chi domina i linguaggi, domina la
società
Come scriveva Alberto Melucci, gli ultimi decenni hanno
cambiato il modo in cui opera il potere, dato che «la produzione,
distribuzione e controllo dell'informazione sono le chiavi dei processi
sociali rispetto a cui altre risorse diventano strumentali […]. Tutto
ciò che assicura il controllo non è il semplice processo di determinati
beni o valori, ma la capacità di dominare i linguaggi, le grammatiche e
le sintassi che organizzano il nostro senso»[18].
Ciò chiaramente non significa negare la permanente importanza
dei fattori economici, ma non si può prescindere dalla dimensione
culturale per cogliere le dinamiche del conflitto sociale e i processi
di costruzione della disuguaglianza, dell'identità e della differenza.
I mezzi di produzione, circolazione e scambio culturale si
sono espansi sensazionalmente con le nuove tecnologie dei media e
dell'informazione, le stesse parole diventano utensili, strumenti di
lavoro, dell'attività produttiva. Insomma, chi domina i linguaggi,
domina la società.
E se, allo stesso tempo, stiamo assistendo ad uno
snaturamento del linguaggio e di conseguenza dei concetti chiave della
società (classe, collettività, libertà, politica, rivoluzione), ci
rendiamo conto che saltano gli strumenti per capire e raccontare la
realtà, così come per immaginarne una diversa.
Un breve confronto tra lo stadio iniziale della teoria della
società industriale e la sua situazione presente può contribuire a
mostrare come le basi stesse della critica siano state alterate. La
critica nell’800 elaborò i primi concetti di un’alternativa, e ci fu una
mediazione storica tra teoria e pratica, valori e fatti, bisogni e
scopi, che ebbe luogo nella coscienza e nell’azione politica delle due
grandi classi che si fronteggiavano: borghesia e proletariato. Ma lo
sviluppo capitalista ha alterato la struttura e la funzione di queste
due classi in modo tale che esse non appaiono più essere agenti di
trasformazione storica. Anzi, un interesse prepotente per la
conservazione ed il miglioramento dello status quo istituzionale unisce
gli antagonisti d’un tempo. Nell’impossibilità di indicare in concreto
quali agenti ed enti di mutamento sociale sono disponibili, la critica è
costretta ad arretrare verso un livello più alto di astrazione. Non v’è
alcun terreno su cui la teoria e la pratica, il pensiero e l’azione si
incontrino. Persino l’analisi strettamente empirica delle alternative
storiche sembra essere una speculazione totalmente irrealistica, e il
farle proprie sembra essere un fatto di preferenza personale.
Il livellamento delle distinzioni di classe non indica la
scomparsa delle classi, quanto la misura in cui i bisogni e le
soddisfazioni che servono a conservare gli interessi costituiti sono
ormai fatti propri dalla maggioranza della popolazione.
C’è una mìmesi, un’identificazione immediata dell’individuo
con la sua società, e tramite questa, con la società come un tutto. Ecco
il pensiero a una dimensione[19].
La guerra è pace?
Il fatto che il modo prevalente di essere liberi è la
servitù, il modo di esser uguali è una disuguaglianza imposta dall’alto,
non può oggi trovare espressione a causa della rigida definizione di
tali concetti nei termini dei poteri che plasmano il relativo universo
di discorso. Il risultato è il familiare linguaggio orwelliano di 1984,
la guerra è pace, la pace è guerra, così come ha affermato di recente il
premio Nobel per
Altro risultato sono partiti politici che operano per la
difesa e lo sviluppo del capitalismo ma si chiamano socialisti…
La novità è l’accettazione generale di queste menzogne da
parte dell’opinione pubblica e privata, la soppressione del loro
mostruoso contenuto. La diffusione e l’efficacia di questo linguaggio
testimoniano del trionfo della società sulle contraddizioni che
albergano in essa; le contraddizioni sono riprodotte senza far saltare
il sistema sociale. Ed è la contraddizione dichiarata, clamorosa, che
viene usata come strumento di discorso e di pubblicità. La sintassi
dell’abbreviazione riduttiva (onu,
nato), ad esempio, proclama
la conciliazione degli opposti saldandoli insieme in una struttura
solida e familiare. Considerata un tempo l’offesa principale contro la
logica, la contraddizione appare ora come un principio della logica
della manipolazione. È la logica di una società che può permettersi di
far a meno della logica e di giocare con la distruzione, una società in
grado di dominare, con mezzi tecnologici, la mente e la materia.
L’unificazione degli opposti che caratterizza lo stile
commerciale e politico è uno dei molti modi in cui il discorso e la
comunicazione si rendono immuni all’espressione della protesta e del
rifiuto. Come possono protesta e rifiuto trovare la parola giusta quando
gli organi dell’ordine costituito ammettono, dando pubblicità alla cosa,
che la pace consiste realmente nel trovarsi sull’orlo della guerra, che
le armi definitive hanno un prezzo foriero di profitti? Nell’esibire le
proprie contraddizioni come contrassegno della verità, quest’universo di
discorso si chiude in sé, escludendo ogni altro discorso che non si
svolga nei suoi termini.
Il linguaggio si articola in costruzioni che impongono
all’ascoltatore un significato obliquo e abbreviato, che bloccano lo
sviluppo del contenuto, che spingono ad accettare ciò che viene offerto
nella forma in cui è offerto. L’analisi descrittiva dei fatti blocca la
loro comprensione e diventa un elemento dell’ideologia che li sostiene.
E ciò significa sopprimere la storia: un universo di discorso
in cui le categorie della libertà sono divenute intercambiabili con i
loro opposti, e anzi si identificano con questi, non solo pratica il
linguaggio di Orwell o di Esopo, ma respinge e dimentica la realtà
storica: i vecchi concetti storici sono invalidati da nuove definizioni,
da falsificazioni. Significa sopprimere il passato stesso della società
ed il suo futuro, nella misura in cui il futuro invoca il mutamento
qualitativo, la negazione del presente.
Il linguaggio chiuso, come quello dell'informazione, non
dimostra e non spiega, bensì comunica decisioni, dettati, comandi.
Bisogna quindi conservare e proteggere il diritto, il bisogno
di pensare e parlare in termini diversi da quelli dell’uso comune, densi
di significato, razionali, e validi precisamente perché sono diversi.
Globalizzazione o imperialismo?
Il termine «globalizzazione», ad esempio, è uno di quelli più
utilizzati e popolari, è parola chiave in qualsiasi dibattito teorico e
politico sui nostri tempi, ma anche nel linguaggio quotidiano,
raggiungendo un'egemonia virtuale tale da assumere un carattere di
inevitabilità, che disarma l'immaginazione e impedisce di pensare e di
realizzare un'alternativa equa. «Dietro questo termine, c'è però un
progetto di classe: il tentativo di gettare un velo ideologico sopra gli
interessi economici di una classe emergente di capitalisti
transnazionali. Interessi per i quali l'ordine economico mondiale
esistente è in procinto di essere cambiato in modo tale da creare le
condizioni ottimali per il libero gioco dell'avidità, dell'interesse di
classe e dell'ottenimento del profitto»[20].
Ed è quello che sta accadendo in questa fase storica, in cui il
capitalismo riorganizza il suo sistema tramite «la crisi», cercando
contemporaneamente nuovi profitti, attaccando le periferie e catturando
gli ultimi beni comuni che, bene o male, sono rimasti in mano alla
gestione pubblica (acqua, rifiuti, energia, istruzione, sanità,
trasporti).
Va quindi
recuperato un altro termine per definire l'attuale processo di
cambiamento e ampliamento dei flussi internazionali del commercio, del
capitale, della tecnologia e dell'informazione: «imperialismo». La
differenza con l'imperialismo classico sta nel fatto che quella
definizione si riferiva «alla tendenza di una nazione ad imporre il
suo dominio economico e ad influenzare la politica interna di altri
paesi con l'obiettivo di avviare la costruzione di imponenti imperi
economici»[21].
Oggi invece, ci troviamo davanti a un «imperialismo transnazionale», in
un'epoca che vede gli stati nazionali sempre più indeboliti rispetto ai
potentati economici, coloro che cercano di imporre il loro dominio
economico e ad influenzare la politica interna dei paesi sono proprio le
multinazionali e le banche, che utilizzano gli stati per creare i propri
imperi economici, spacciando questo stato di cose inevitabile e
necessario.
La
pubblicità: manipolazione e propaganda
Il controllo delle masse attraverso il sistema consumistico, come garanzia della democrazia e della diffusione della cultura individualista, è stato teorizzato molto prima della sua piena realizzazione avvenuta intorno a quegli anni '80 targati Reagan e Thatcher. L'incipit di «Propaganda», testo scritto dal nipote di Sigmund Freud, Edward Louis Bernays, nel 1928, ci chiarisce le idee: «La manipolazione consapevole e intelligente, delle opinioni e delle abitudini delle masse svolge un ruolo importante in una società democratica, coloro i quali padroneggiano questo dispositivo sociale costituiscono un potere invisibile che dirige veramente il paese. Noi siamo in gran parte governati da uomini di cui ignoriamo tutto, ma che sono in grado di plasmare la nostra mentalità, orientare i nostri gusti, suggerirci cosa pensare»[22]. Come la propaganda è stata ed è usata in tempo di guerra, con ottimi risultati, la si usa ugualmente in tempo di pace. E diventiamo partecipanti involontari al sistema di obsolescenza programmata. Herbert Marcuse in un'intervista del 1967: «Si tratta di un'applicazione infantile della psicoanalisi, che non tiene conto di un autentico, politico e sistematico spreco di risorse tecnologiche e del processo produttivo, per esempio questo passar di moda pianificato; oppure la produzione di innumerevoli marche e gadgets che in ultima analisi si somigliano tutti; la produzione di un numero infinito di modelli d'auto; e questa prosperità, nello stesso tempo, porta consciamente o inconsciamente a una sorta d'esistenza schizofrenica. Credo che in questa società venga accumulata un'enorme quantità di aggressività e distruttività proprio a causa di questa vuota prosperità. Tutto questo alla fine scoppia». E Marcuse fa spesso riferimento alla pubblicità: quando parla del linguaggio, dice che sono proprio gli agenti pubblicitari a dar forma all’universo di comunicazione in cui il comportamento unidimensionale si esprime. L’accorciamento della sintassi, che taglia lo sviluppo del significato, creando immagini fisse che si impongono con concretezza sopraffattoria e pietrificata, è la tecnica tipica dell’industria pubblicitaria. La pubblicità è una delle madri della perversione del concetto, vero assente nella comunicazione, più delle parole. In fondo la pubblicità è semplicemente «l’industria che promuove l’industria»[23]. La sua prima funzione è quella di promuovere il consumo di prodotti industriali e di sostituirsi ai costumi popolari tradizionali. L’emergere della pubblicità coincide quindi con l’ingresso in una nuova era del capitalismo, un’epoca di compimento del sistema. L’accumulazione capitalistica, basandosi sulla produzione di massa, non poteva continuare a esistere se non colonizzando ogni dimensione dell’esistenza sociale e individuale. Così l’imperativo a produrre sempre di più si è ben presto tradotto nell’imperativo a consumare sempre di più. A partire dalla crisi del 1929 il consumo di massa è stato elevato, in tutte le economie industriali, a imperativo civico, poiché è diventato indispensabile al movimento espansivo delle nostre economie. Globalmente un tale sistema economico si mantiene soltanto se le popolazioni consumano in misura sempre maggiore la stessa merce, oppure creando nuovi prodotti capaci di sviluppare nuove attività lucrative. La commercializzazione di nuovi aspetti delle attività sociali e umane, che oggi suscita tanta indignazione, è necessariamente inscritta nella dinamica capitalistica. Siamo prigionieri di un meccanismo infernale. La natura di tale sistema spinge costantemente la società verso il baratro, o piuttosto la vuole mantenere artificialmente sempre sull’orlo. Il capitalismo ha saputo promuovere meglio l’accumulazione della ricchezza: è riuscito a vendere il comfort materiale. Ecco dunque cosa è apparentemente riuscito a soffocare i vari progetti di emancipazione elaborati nella prima metà del xx secolo, di cui le rivolte del ’68 e quelle degli anni seguenti appaiono gli ultimi echi. La pubblicità è uno dei pilastri della società capitalista. Ed è diventata progressivamente un settore produttivo a sé stante, nonostante si abbia l’impressione che non produca niente. In effetti forse crea proprio l’essenziale: l’incessante rinnovamento del desiderio di comprare. Il che è fondamentale per il mantenimento dell’attuale ordine sociale, in quanto spinge al conformismo della pseudodistinzione e all’abbandono di ogni pratica autonoma tipica della vita tradizionale, formattando e delimitando l’immaginario degli individui. Christine Frederick, in Selling Mrs. Consumer, formulava così nel 1929: «Consumptionism è il nome della nuova teoria. È comunemente accettato al giorno d’oggi che si tratta dell’idea migliore che l’America potesse offrire al mondo, l’idea che le masse lavoratrici […] possano essere considerate anche come consumatrici. […] Pagarle di più per vender loro di più e trarne così maggior profitto, ecco come bisogna ragionare».
La pubblicità,
instillando continuamente la certezza che non c’è un altro mondo
possibile, o desiderabile, e mascherando l’ampiezza del disastro,
disinnesca tutto ciò che potrebbe condurre a una contestazione del mondo
industriale. Ma fa di più: canalizza lo scontento che tutto questo
provoca in svariati sfoghi commerciali che favoriscono il suo stesso
sviluppo (viaggi ai tropici, calmanti, palestre, gioco d’azzardo…), e
così via qualunque tipo di riflessione sulla vita che siamo costretti a
vivere. Terry Gilliam, nel film Brazil, l’aveva capito: al di là delle
sue pretese commerciali, la pubblicità è una vera e propria propaganda.
Un lento
risveglio
In conclusione,
citando ancora Marcuse: «Occorrono nuovi modi di definizione e
realizzazione per una società libera, dato che non può essere definita
nei termini tradizionali delle libertà economiche, politiche ed
intellettuali, ma dall’equivalente negativo: in tal senso, libertà
economica significherebbe libertà dall’economia, dal controllo di forze
e relazioni economiche; libertà dalla lotta quotidiana per l’esistenza,
dal problema di guadagnarsi la vita. Libertà politica significherebbe
liberazione degli individui da una politica su cui essi non hanno nessun
controllo effettivo. E la libertà intellettuale equivarrebbe alla
restaurazione del pensiero individuale, ora assorbito dalla
comunicazione e dall’indottrinamento di massa, e all’abolizione
dell’opinione pubblica, assieme ai suoi produttori. Il suono
irrealistico di queste proposizioni è indicativo dell’intensità delle
forze che impediscono di tradurle in atto, coltivando bisogni materiali
e intellettuali che perpetuano forme obsolete di lotta per l’esistenza».
Ed è su questa strada che si deve camminare decisi, lavorando sul
linguaggio, cercando di annullare le mistificazioni e le manipolazioni
nascoste in esso, trovando il modo di socializzare i saperi e creare
legami, mantenendo viva la riflessione critica: «siamo ora arrivati
ad un punto nel quale l’evoluzione personale di una minoranza e lo
scambio di informazioni al suo interno, non bastano più, bisogna
incidere sul tessuto sociale». Occorre che la massa critica che
lentamente si sta risvegliando, sullo sfondo dei suddetti scenari
apocalittici che ci circondano, allarghi il campo dei propri interessi,
e riesca a collegare le varie individualità separate tra loro, mettendo
in rete questa lenta crescita, per recepirla in profondità e
trasversalmente, affinché diventi un percorso costruttivo comune e
consapevole: «continui a perseguire il necessario percorso della propria
crescita interiore e personale, ma che a questo aggiunga l’intervento
esterno, amoroso ed intelligente, nei confronti della società. La stessa
crescita interiore e numerica dei partecipanti alla massa critica è
ormai sempre più legata alla capacità di trasformare l'elaborazione
interiore in azioni verso gli altri. Per fare questo non si può fare
ricorso all’attuale modello di prassi politica, che è la sommatoria di
egoismi personali, fazionali, di classe o di categoria. Bisogna
«inventare e proporre» un modo nuovo di fare politica. [...] Ma occorre
cominciare ora a piantare i semi capaci di generare gli alberi di una
nuova società futura»[24]. Fare l'attivista,
agire per il cambiamento, è una delle più importanti, coraggiose e
produttive attività di tutta la storia umana, perché volta a costruire
un futuro diverso, migliore.
DICEMBRE 2009
[1]
Mauro Magatti, Mario De Benedittis, I nuovi ceti popolari.
Chi ha preso il posto della classe operaia?, Feltrinelli,
Milano 2006.
[2]
Ulrich
Beck, La società del rischio, Carocci, Roma 2000.
[3]
Miguel Benasayag, Gérard Schmit, L'epoca delle passioni
tristi, Feltrinelli, Milano 2005.
[4]
John K. Galbraith, Il capitalismo americano, Comunità,
Milano
[5]
Regime di accumulazione flessibile: basato sull'elasticità e
sull'aumento dei profitti, grazie alle sue varie manifestazioni
di produzione snella e automatizzazione, esternalizzazioni,
nomadismo aziendale, deloca-lizzazione, così come l'aumento
della flessibilità, la riduzione dei dipendenti stabili e il
ricorso sempre maggiore a forza-lavoro esterna e precaria.
[6]
Ulrick Beck, cit.
[7]
Luc Boltanski, Ève Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme,
Gallimard, Paris 1999; in Italia è in traduzione per
Feltrinelli.
[8]
Ulrick Beck, cit., pag. 149.
[9]
John B. Thompson, Mezzi di comunicazione e modernità. Una
teoria sociale dei media, Il Mulino, Bologna 1998.
[10]
Herbert Marcuse, L'uomo a una dimensione. L'ideologia della
società industriale avanzata, Einaudi, Torino 1999.
[11]
George Ritzer, La
religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi e riti
dell'iperconsumismo, Il Mulino, Bologna 2005.
[12]
Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della
surmodernità, Eleuthera, Milano 2005.
[13]
Roland Barthes, Miti d'oggi, Einaudi, Torino 1974.
[14]
Antonio Dini, Emozione Apple. Fabbricare sogni nel XXI secolo,
Il Sole 24 Ore, Milano 2008.
[15]
Thorstein Veblen, La teoria della classe agiata. Studio
economico sulle istituzioni, Einaudi, Torino 2007.
[16]
Antonio Gramsci, La
città futura. Scritti 1917-1918, Einaudi, Torino 1982, da
[17]
Herbert Marcuse, cit.
[18]
Alberto Melucci, Quale globalizzazione?, in Studi
sulla sociologia, xxxv,
1997.
[19]
Herbert Marcuse, cit.
[20]
James Petras, Henry
Veltmeyer, La globalizzazione smascherata. L'imperialismo nel
XXI secolo, Jaca Book, Milano 2002.
[21]
Da Wikipedia, L'enciclopedia libera.
[22]
Edward Louis Bernays, Propaganda. Della manipolazione
dell'opinione pubblica in democrazia, Lupetti, Bologna 2008.
[23]
Gruppo M.a.r.c.u.s.e.
(Movimento Autonomo di Riflessione Critica a Uso dei
Sopravvissuti dell'Economia), Miseria umana della pubblicità.
Il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo, Eleuthera,
Milano 2006.
[24]
Da
www.unaretedamore.net,
Per introdurre la coscienza in politica.