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Gennaio 2010

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Coscienza di classe e consenso oggi

RIFLESSIONI SU CLASSE, COSCIENZA, CONSENSO, LINGUAGGIO E MANIPOLAZIONE.

Massimo Ammendola

 

Nelle mutate condizioni della vita contemporanea, le categorie utilizzate per indicare i vecchi gruppi sociali, nati con la Rivoluzione industriale, non sembrano più in grado di spiegare la realtà[1].

La classe operaia, ad esempio, è una categoria zombie, così come Ulrich Beck definisce quei concetti e schemi di lettura del mondo che vengono ancora impiegati pur avendo perso capacità rivelatrice del reale: famiglia, vicinato, comunità, classe, proletariato, finiscono oggi per costituire quasi un ostacolo alla comprensione della realtà[2]. Queste categorie, che denotavano sfere e forze di tensione e di contraddizione, sono come svuotate, e perdendo la loro connotazione critica, tendono a diventare termini descrittivi, ingannevoli.

Guardando alla società odierna, la classe operaia pare sia stata inglobata all'interno della società del benessere e dei consumi, diventando parte di una vasta «classe media»: i proletari, dal secolo scorso sono diventati a tutti gli effetti consumatori, al servizio della classe dominante, che punta alla crescita economica come fine a se stesso, e non è orientata al miglioramento della vita di tutti.

Eppure, nonostante la distruzione delle risorse e la proliferazione dello spreco, la minaccia continua che viene dal cibo che mangiamo, da poteri occulti che scavalcano la democrazia, dall’aria che respiriamo, dai tessuti, dai materiali di cui sono fatti i nostri mobili e le nostre case, è come se stessimo bene.

«Siamo in un'epoca di passioni tristi», così la definiscono Benasayag e Schmit[3]: un’epoca contrassegnata da impotenza, disgregazione, incertezza, mancanza di senso, un’epoca in cui tutto pare possibile, e allora niente è più reale. Un’epoca che produce una soggettività straniata, un sentimento di esteriorità rispetto al mondo circostante. E siamo molto spaventati dall'incertezza odierna, ma contemporaneamente, c'è appagamento: «La comunità se la passa troppo bene per darsi pensiero»[4]. Inoltre non pensiamo siano possibili alternative allo stato di cose attuale, ed in fondo, il cambiamento spesso ci fa paura, e tendiamo quindi ad essere tendenzialmente conservatori, chi più chi meno. Così, con l'azzeramento della cultura della collettività come soggetto, una vera proposta alternativa pare impossibile. L'élite che gestisce il sistema economico-industiale, invece, riesce a trarre profitto anche dal rischio e ci riesce sempre meglio, portando avanti tutto un sistema che è del tutto irrazionale.

Come siamo arrivati a tutto ciò?

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Il nuovo spirito del capitalismo

La globalizzazione economica e l'affermarsi di un regime di accumulazione flessibile[5] hanno determinato frammentazione sociale, precarietà e fluidità, nei rapporti lavorativi, così come nelle relazioni tra gli uomini, con lo spazio e con il tempo. In declino ormai il modello del maschio adulto lavoratore e pater familias, supportato da diverse forme di aiuto statale (welfare), si sviluppa  caos, anche negli altri ambiti connessi al lavoro. La diminuzione della stabilità e il moltiplicarsi delle forme di lavoro atipiche, si combina con forti mutamenti sociali, nonché con il forte indebolimento della struttura degli stati nazionali, sotto l'attacco del capitalismo multinazionale.

Soggettivamente, l'esperienza quotidiana, la vita di ognuno, diventa sempre più individuale. Non è una semplice atomizzazione, ma un individualismo istituzionalizzato, cioè una situazione in cui da un lato l'individualità diviene «l'unità riproduttiva della vita sociale»[6], dall'altro l'identità diventa «a progetto», in perpetua ed incerta costruzione: è il «nuovo spirito del capitalismo», che si definisce attorno a un criterio di legittimazione centrato sull'idea di «vita a progetto»[7].

Epicentro di questa trasformazione è il mercato del lavoro, che ha fortemente aumentato la frammentazione sociale. In fondo era stata proprio l'esperienza del lavoro in fabbrica, standardizzato, che aveva reso possibile la solidarietà di classe. Ancora Beck coglie efficacemente il fatto che, oggi, un qualsiasi tipo di discorso sulla «classe operaia» perde la sua evidenza fondata sull'esperienza quotidiana, e così vengono a cadere i fondamenti e i riferimenti riguardo le questioni se il proletariato si sia «imborghesito» o gli impiegati si siamo «proletarizzati»[8]. Tutti coloro che lavorano e sono sfruttati direttamente o indirettamente, e sono soggetti alle norme capitalistiche di produzione possono esseri definiti oggi «proletari»? Impossibile definire il concetto di proletariato.

Almeno in questa fase storica, la pluralizzazione dell'esperienza lavorativa costituisce senz'altro un ostacolo alla riproduzione dell'idea di classe.

La classe operaia non è più facilmente rintracciabile, insomma. E ciò lascia un vuoto non solo sul piano dell'analisi, ma anche sul piano politico e culturale: in un mondo sociale in rapida trasformazione, privo di un baricentro, organizzato su diversissimi piani per quanto riguarda spazi e istituzioni, con molteplici riferimenti culturali – la cosiddetta «modernità liquida» di Zygmunt Bauman –, l'analisi della realtà deve riferirsi al modo in cui i gruppi sociali possono accedere alle diverse risorse disponibili, in campo economico, ma anche in campo culturale (accesso alla comunicazione e ai prodotti culturali), e nelle relazioni tra questi due campi.

Nella (ormai superata) società dello stipendio fisso, il problema della disuguaglianza sociale coincideva in sostanza a quello della ineguale distribuzione dei frutti della crescita economica. Oggi, forse ancor più che in passato, la disuguaglianza non si riduce solo all'ambito puramente economico. Nella società globalizzata e interconnessa dalle tecnologie della comunicazione vecchie e nuove, l'esperienza quotidiana, la produzione, i rapporti di potere, si strutturano non più attorno ad un'unica dimensione (che prima vedeva coincidere territorio, spazio sociale ed esperienza soggettiva), ma nell'intreccio dello spazio dei luoghi e quello dei flussi, in un mix di mobilità, flessibilità, efficienza, prevedibilità, calcolabilità, controllo.

La fine dell'epoca del welfare, che ha favorito una certa stabilizzazione anche dei ceti medio-bassi, confluiti nella classe media, porta a una condizione di vulnerabilità sociale, a sentimenti di insicurezza e sofferenza, riferiti al futuro incerto, che provocano la mancanza di quel minimo di fede e speranza nel futuro che sono necessarie per ribellarsi contro il presente, anche quello più intollerabile: tutto ciò definisce una nuova condizione di subordinazione, che si manifesta nel sentirsi isolati e privi di una lettura condivisa del mondo e dei suoi rapporti sociali, nell'essere vulnerabili nel proprio lavoro, economicamente, esposti a dinamiche che non si controllano e privati di quelle sicurezze sociali attorno a cui si organizzava la vita personale e familiare, nel non riuscire più a capire che i propri interessi coincidono con quelli degli altri e nel fare proprie logiche di adattamento individualistico, di autopromozione.

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Dalla classe al ceto

In una situazione sociale in cui le biografie sono sempre più frammentate, in cui le occasioni di distinzione legate al consumo aumentano, in cui l'individualizzazione definisce l'ordine del discorso  in ogni ambito della società, in cui le esperienze di lavoro si diversificano, i processi di classificazione, identificazione e riconoscimento necessari alla formazione e mobilitazione di una «classe» diventano particolarmente difficoltosi.

Per Magatti e De Benedittis è utile quindi recuperare il termine «ceto», proprio per indicare quelle aggregazioni fluttuanti, relativamente poco definite, in quanto iper-sollecitate e identificate con le varie sfere (lavoro, consumi, territorio). I cosiddetti «nuovi ceti popolari», più che come i vecchi ceti rigidi e chiusi, vanno pensati in modo dinamico e plurale, riconoscendone sia le differenze interne, sia il debole senso di identità collettiva: cogliere la frammentazione e il carattere composito, ma senza perdere di vista le comunanze oggettive.

Il processo di frammentazione sistemica e culturale allontana l'esperienza dei nuovi ceti da quella della classe operaia: la mancanza di condivisione della medesima condizione si perde, tra precarietà lavorativa e complessità culturale della società, che rendono impossibile il riconoscersi in una qualche comunità. Negli stessi luoghi di lavoro, esistono soggetti che svolgono le stesse mansioni, ma con paghe, contratti e orari profondamente diversi.

La situazione si aggrava con il fatto che le identità collettive di tipo politico, quali partiti, sindacati, hanno perso la loro funzione collettiva di richiamo identitario, e anche le nuove forme di aggregazione, quelle dei movimenti e dei comitati cittadini, dipendono dal capitale culturale e scolastico, tramite i quali si costruisce la disposizione all'universale e quindi alla partecipazione, alla riflessione, all'espressione delle proprie posizioni.

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La coscienza è lenta

Nel momento critico che stiamo vivendo, cosa può fare una persona qualunque con uno stipendio minimo, praticamente ricattata da ogni parte, senza l'appoggio di un sindacato, di un partito, senza una fonte di informazione affidabile, senza punti di aggregazione dove poter confrontarsi, discutere? Di cosa deve nutrire la propria anima, in nome di quali principi dovrebbe reagire?

È necessario un approccio distaccato per comprendere i cambiamenti in corso: ma davvero è possibile?

La coscienza è in ritardo, non coglie il presente. Molto più che il passato, è lo stesso presente che sfugge, e la coscienza non può essere un luogo di decisione efficace. Si dovrebbe cercare invece di fare emergere nuove possibilità, facendo dipendere la coscienza dalle nostre pratiche, cercando la consapevolezza, l’energia che ci aiuta a riconoscere e accogliere «ciò che è», ovvero ciò che esiste o avviene in noi e intorno a noi nel qui e ora. 

Chi un approccio distaccato se lo può permettere, chi ha possibilità d'accesso al capitale culturale e scolastico, chi potrebbe conoscere, studiare, in mezzo all'oceano di informazioni, partecipare, creare e vivere pratiche nuove, chi si potrebbe mettere a disposizione della comunità, troppo spesso si chiude in un settarismo che accomuna la quasi totalità dei gruppi e delle associazioni operanti, piccoli porti in cui ci si nasconde, senza ri-uscire più in mare aperto. Si brancola divisi, con mancanza di metodo, in mezzo ad un narcisismo straripante e assolutamente interclassista, senza vere possibilità di confronto. L'indignazione non si trasforma in mobilitazione, si sbuffa e si va avanti.

L'azione, l'agire, mancano di senso: su questo si basa l'oppressione. La debolezza dell'agire diventa debolezza del pensare: spesso si dice che in passato si moriva per le idee, ma oggi si tende ad esser antipolitici, e così le masse hanno perso potenziale politico.

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Pseudo-comunità televisive

Restano, obbligatoriamente, solo pochissimi ambiti che creano una qualche forma di identificazione (ma che contemporaneamente creano anche addomesticamento): la televisione, medium di massa per eccellenza ed accessibile a tutti, la totalizzante «esperienza» del consumo, e un radicamento nelle proprie tradizioni (religiose, territoriali, etniche).

La televisione è infatti il media più inserito nella famiglia, nel quotidiano, anche nel lavoro, rispetto ad altri media come cinema, teatro, concerti, che richiedono comunque una rottura col quotidiano.

La televisione, insieme agli altri media e ai produttori dell'informazione, crea la realtà, e crea anche le odierne pseudo-comunità,  basandole su paure, ossessioni ed emergenze, che ciclicamente tornano alla ribalta, come immigrazione, pedofilia, ecc.

Il modello «emozionale» è ormai oliato, basato sull'intreccio televisivo tra gossip e voyeurismo, che ben si riassume nei reality show che producono il fenomeno che Thompson chiama di intimità non reciproca a distanza[9], in cui abbiamo gli spettatori (soggetti alle prese con scarse possibilità di costruzione soddisfacente dell'identità e basso riconoscimento sociale sulla scala del prestigio) che si identificano e si avvicinano emozionalmente ai personaggi dello star system.

La debolezza dei nuovi ceti popolari li rende quindi facili prede degli «imprenditori di identità», che in questo periodo storico hanno tanto successo.

Per quanto riguarda l'accesso alla comunicazione con il computer, la rete Internet è ancora fortemente elitaria: alla disuguaglianza d'accesso, il cosiddetto digital divide, che in Italia è ancora molto forte, si aggiunge la difficoltà di selezione nell'abbondanza di informazioni, nel mare magnum della rete, che richiede energie, risorse e competenze da parte dell'utente. Quindi, anche se economicamente è possibile accedere alla rete, c'è bisogno comunque di un certo capitale culturale, che permetta di saperla usare e di farlo bene.

Ma, anche a causa del contesto mediatico poco libero, è in internet, che traspaiono idee che non avrebbero mai spazio sui grandi media.

Esistono insomma, al giorno d'oggi, molti più canali comunicativi rispetto al passato, ma aumentando la quantità, avendo molta più possibilità di comunicare, siamo meno «collegati» di prima, cioè peggiora la qualità della comunicazione. Non c'è una contemporanea apertura della personalità, non c'è un percorso di comprensione di sé e dell'altro e si parla ormai con formule preconfezionate, prive di significato. E l'incapacità di comunicare è anche sintomo dell'incapacità di condividere progetti comuni. Nel parlare il proprio linguaggio, la gente parla il linguaggio dei suoi padroni, degli agenti pubblicitari, non esprimendo solo se stessi, le proprie conoscenze, sentimenti e aspirazioni, ma anche qualcos’altro diverso da sé. Descrivono ciò che i media della comunicazione di massa gli dicono, e questo si confonde con quanto vedono e sentono realmente. Per descriverci dobbiamo usare i termini della pubblicità, dei film, dei politici, dei bestsellers. Ciò che gli individui intendono quando dicono, si collega a ciò che essi non dicono. Oppure ciò che intendono non può essere preso alla lettera, non perché mentano, ma perché l’universo di pensiero e di pratica in cui vivono è un universo di contraddizioni manipolate.

Se la classe operaia faceva dell'identità collettiva la propria forza, nella modernità liquida chi dispone di poche risorse economiche e culturali si ritrova in una condizione che gli appare, dal punto di vista delle idee e degli interessi, dissimile da coloro che lo circondano: è forte la frammentazione, il riconoscimento di sé e degli altri non passa più dalla comune condizione lavorativa, lo stesso ingresso nella vita sociale non è più scandito dall'inserimento nel lavoro, né dal punto di vista temporale né da quello rituale.

Mancando una stabilità lavorativa, il consumo si afferma come compensazione che rassicura, diventa la via più facile, comoda e realistica per l'ingresso nel mondo sociale circostante.

Così l'uomo più insicuro, tende a rimanere ignaro delle proprie potenzialità e capacità, che i luoghi della formazione non esaltano ma, al contrario, formano uomini «inferiori», che non possono che poi mendicare aiuti per la sopravvivenza. Gli insicuri trovano nel narcisismo uno sfogo naturale della propria condizione e assumono comportamenti masochistici e di difesa della propria condizione a oltranza. E il paternalismo della destra attuale si innesta perfettamente su questi bisogni, rassicurando e soggiogando l'ego.

La solitudine, la condizione stessa che sosteneva l’individuo contro ed oltre la sua società, è divenuta tecnicamente impossibile: questo aspetto della sfera privata – la sola condizione che, quando i bisogni vitali siano stati soddisfatti,  può dare significato alla libertà e all’indipendenza di pensiero – è diventata da tempo la più dispendiosa delle merci.

Fintanto che gli individui sono indottrinati e manipolati non possono rendersi conto della distinzione tra bisogni veri e falsi[10]. I bisogni falsi vengono sovrimposti all’individuo e sono quelli che perpetuano la repressione, la fatica, l’aggressività, la miseria e l’ingiustizia. L’individuo può trovare estremo piacere nel soddisfarli, ma non possono essere conservati e protetti se servono ad arrestare lo sviluppo della capacità (sua e di altri) di riconoscere la malattia dell’insieme e afferrare le possibilità che si offrono per curarla. Il risultato è pertanto un’euforia nel mezzo dell’infelicità.

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«L'esperienza» del consumo

Altra fortissima forma di identificazione la crea il consumo, che ha stravolto l'associazione tipica tra condizione popolare, lavoro e risparmio. Il «gusto del necessario» è stato soppiantato dal «gusto dell'usa e getta». Inoltre molte azioni quotidiane, si intersecano e si confondono con il consumo, da quando questo, specie nei paesi industrializzati, include vastissimi segmenti sociali, modificando l'esperienza degli individui e delle relazioni. La maggior parte dei bisogni che prevalgono, bisogno di rilassarsi, divertirsi, comportarsi e consumare in accordo con gli annunci pubblicitari, di amare e odiare ciò che altri amano e odiano, appartengono a questa categoria di falsi bisogni, determinati da potenze esterne.

L'atto del consumare non ha bisogno di alcuna mediazione: a 15 anni puoi andare pure malissimo a scuola, ma sei già un perfetto consumatore. Acquistare beni o emozioni è la cosa più semplice al mondo. Non è faticoso, non sono necessarie competenze particolari, dato che si acquisiscono automaticamente: guardando la televisione e stando con gli altri. In fondo, essere e sentirsi come gli altri è anche il modo più rapido per sanare, superficialmente, le proprie ferite interiori.

Quindi, per una fase lunga della vita, i nuovi ceti popolari utilizzano soprattutto il consumo come canale per confermare la propria appartenenza societaria: se non consumi, sei tagliato fuori, si è «alieni», in una condizione soggettiva nuova di alienazione, di separazione, di estraniazione. Se si accede ai modelli e ai luoghi del consumo, ci si sente parte della pseudo-comunità, si viene riconosciuti e si riconosce. E il consumo diventa quindi il momento del sentirsi parte, esperienza fondamentale per l'uomo. Disgregate le comunità e il tessuto operaio, distrutto qualsiasi vero senso di appartenenza, l'individuo è più fragile, diventa difficile riuscire a conservare una vera vita relazionale che sia significativa. In un mondo in cui le tradizionali reti di relazioni sono sempre più striminzite, frequentare i luoghi del consumo è un modo comodo per costruire amicizie esterne alla famiglia.

L'iperconsumo è alla base del sistema che sovrapproduce, e si iperconsuma anche facendo debiti, anche se i soldi non ci sono: è una Religione[11], con i suoi luoghi di culto, o meglio i suoi non-luoghi[12], le sue cattedrali, i freddi ed impersonali centri commerciali, luoghi sociali della vita d'oggi, dove si celebrano riti, dove tempo e spazio sono sospesi.

Gli oggetti di consumo sono i nuovi miti d'oggi, le idee che più di altre ci pervadono e ci plasmano come individui e come società, quelle che la pubblicità e i mezzi di comunicazione di massa propongono come valori e impongono come pratiche sociali, fornendo loro un linguaggio che le rende appetibili e desiderabili. I miti sono idee che ci possiedono e ci governano con mezzi non logici, ma psicologici, e quindi radicati nel profondo della nostra anima.

«Non bisogna dimenticare che l'oggetto è il miglior portatore del soprannaturale: c'è facilmente nell'oggetto una perfezione e insieme un'assenza di origine, una chiusura e una brillantezza, una trasformazione della vita in materia (la materia è assai più magica della vita), e per dir tutto un silenzio che appartiene all'ordine del meraviglioso»[13].

Le multinazionali diventano fabbricanti di sogni e universi, di futuri e sensazioni. Scattano desideri istintivi e inconsci, la pubblicità manipola i desideri inconsci e egoistici per creare bramosia verso ogni nuovo marchio o prodotto, facendoci desiderare anche ciò di cui non abbiamo bisogno.

Si creano diverse percezioni dei prodotti, vi si instillano filosofie, modi di essere, che legano al prodotto un esercito di fedeli, si creano legami emotivi con i prodotti e le filosofie delle loro aziende, i modelli di comportamento che veicolano si traducono concretamente in stili di vita e di consumo: il quadro è completo, si crea così un anello che congiunge la vita di tutti i giorni e i macrocontesti della sfera pubblica e dei media.

La costante frammentazione dei prodotti culturali, tipica dell'uso del Web 2.0, genera un nuovo fenomeno di attenzione e percezione attiva dello spettatore-partecipante. Prendiamo l'esempio di una sottospecie della serie iPod, l'iPod shuffle: questo lettore musicale segna in modo deciso la cultura frammentata di quest'epoca, con l'impossibilità di scegliere quale musica ascoltare, se non a priori, che rafforza la cosiddetta snack-culture, la «cultura dello spuntino», in cui la fruizione tramite strumenti digitali di musica, film, telefilm e video si sta spezzettando sempre di più, permettendo all'utente di partecipare alla creazione di nuovi modi di presentare i prodotti culturali[14]. Questo fatto, unito al cambiamento di strategia da parte dei grandi soggetti industriali che producono film, libri, musica e anche pubblicità, genera uno stato di sollecitazione minima ma costante per il pubblico che vi vive perennemente immerso.

Questo modello di socializzazione ha una caratteristica vincente: diversifica mentre unifica. Si attenua così la sensazione soggettiva di omologazione e subordinazione che era tipica della condizione operaia tradizionale, e i nuovi ceti popolari vengono integrati nel nuovo spirito del capitalismo, dando il loro contributo a tenere oliato il meccanismo.

I nuovi ceti popolari sono terreno di conquista da parte di chi è in grado di capire i loro sentimenti, le loro aspettative, le loro paure, in un contesto generale dominato da instabilità e imprevedibilità. Vulnerabili, spaventati, siamo manipolabili e programmabili, tendiamo più ad essere automi, che umani.

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Liberi di scegliere il proprio destino?

I destini personali non sono più omogenei, anche se i fallimenti sono tanti, il ventaglio delle possibilità è ampio: c'è sempre qualcuno che ce l'ha fatta, ha colto l'occasione, si è autorealizzato. Sono questi i valori della «vita a progetto», a prescindere dall'effettiva possibilità di poter realizzare, nella propria esistenza, qualcosa di vagamente vicino alle proprie aspirazioni. L'indeterminatezza in un certo senso diventa libertà. Ci si sente liberi e uguali agli altri: avendo (in teoria) accesso a tutto ciò che il mercato e i media offrono. Così si sviluppa una visione del mondo orizzontale, scompare insomma il conflitto di classe: l'autorità si frantuma, e cresce la sensazione di poter decidere da sé, per sé; e si riduce la percezione dello «stare in basso», anche se le disuguaglianze, ad ogni livello, continuano ad essere presenti. Il sabato sera,  ad esempio, la festa comandata per eccellenza, si è tutti uguali: la persona che eri durante la settimana non esiste più. Lo stesso accade nei centri commerciali, se hai un po' di soldi in tasca, si annullano apparentemente differenze e gerarchie sociali.

La subordinazione chiara, evidente, gerarchica, del lavoro in fabbrica, viene rimpiazzata da una invisibile disciplina, in cui l'uguaglianza (falsa) dell'accesso ai consumi, alle reti relazionali e ai media è condizionata dalla necessità di stare al gioco, di appartenere, anche al di là delle disuguaglianze: è questa la forma contemporanea della subordinazione che lega i nuovi ceti popolari, dotati di poche risorse economiche e culturali, ai modelli culturali prevalenti.

E non si nutre più speranza di realizzare un progetto di mutamento sociale, non si pensa di esser in alcun modo in grado di contribuire a determinare il corso degli eventi, ma, in un mix di realismo e fatalismo, di individualismo nichilista e di rigida chiusura, si spera in una salvezza attesa nel microcosmo della propria vita quotidiana e dei propri circoli relazionali, senza più il bisogno o l'aspirazione di cambiare status, appoggiandosi su ciò che si ha, ora sui consumi, ora sulla famiglia, ora sulla religione, ora sul lavoro. Perché in realtà le difficoltà quotidiane sono enormi, trovandosi «shakerati» tra pratiche di vita e modelli mediatici, economico-culturali, che pretendono una continua destrutturazione, un continuo e stressante lavoro di adattamento, nonché una continua necessità di denaro per stare al passo coi tempi e le mode: è il desiderio di emulare la ricchezza altrui, le case, i vestiti, le auto, tutte cose che soddisfano innanzitutto il bisogno di considerazione sociale di chi le possiede, stimolando perennemente «la lotta degli egoismi»[15] e la rivalità tra poveri e poveri, così come pure, allo stesso modo, quella tra ricchi e ricchi, che alla fine accrescono comunque la concentrazione di ricchezza e potere in mano alle classi privilegiate.            

Si insegue un modello di libertà negativa, in cui sono tutti liberi da ogni interferenza, dallo Stato, dalle tasse, in cui vince l'idea forte di perseguire la via del consumo e della ricchezza. E questo modello è profondamente radicato, specie in Italia, dove c'è una versione estremizzata di un trend che è comunque presente in gran parte dell’Europa.

Ma allo stesso tempo, non esiste più speranza, il futuro diventa minaccia: i destini personali si separano da quelli collettivi. La globalizzazione economica, che collega, che «apre» il locale al globale, spaventa e crea insicurezza e angoscia nei nuovi ceti popolari: sentono il loro territorio, spazio di per sé limitato, come vulnerabile, e continuamente invaso da processi esterni che sfuggono al controllo e spesso anche alla semplice comprensione.

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Totalitarismo dolce

L'affermazione del nuovo spirito del capitalismo e la frammentazione lavorativa e culturale decretano l'incapacità di pensare la realtà circostante e quindi di immaginare di poterla cambiare o condizionare, il che condanna i nuovi ceti popolari all'insignificanza sociale. Oggi siamo forse un grado oltre l'indifferenza di cui scriveva Gramsci: «L’indifferenza è il peso morto della storia. L’indifferenza opera potentemente nella storia. Opera passivamente, ma opera. È la fatalità; è ciò su cui non si può contare; è ciò che sconvolge i programmi, che rovescia i piani meglio costruiti; è la materia bruta che strozza l’intelligenza. Ciò che succede, il male che si abbatte su tutti, avviene perché la massa degli uomini abdica alla sua volontà, lascia promulgare le leggi che solo la rivolta potrà abrogare, lascia salire al potere uomini che poi solo un ammutinamento potrà rovesciare. Tra l’assenteismo e l’indifferenza poche mani, non sorvegliate da alcun controllo, tessono la tela della vita collettiva, e la massa ignora, perché non se ne preoccupa; e allora sembra sia la fatalità a travolgere tutto e tutti, sembra che la storia non sia altro che un enorme fenomeno naturale, un’eruzione, un terremoto del quale rimangono vittime tutti, chi ha voluto e chi non ha voluto, chi sapeva e chi non sapeva, chi era stato attivo e chi indifferente. Alcuni piagnucolano pietosamente, altri bestemmiano oscenamente, ma nessuno o pochi si domandano: se avessi fatto anch’io il mio dovere, se avessi cercato di far valere la mia volontà, sarebbe successo ciò che è successo?»[16].

La fine della classe operaia, della fiducia nel progresso e nella politica va di pari passo con la caduta della coscienza storica, conseguenza dell'incapacità di codificare il mutamento culturale in corso: la memoria si sta affievolendo, e come può l'uomo realizzare sé stesso senza sapere chi era prima?

La situazione della nostra società è praticamente di «totalitarismo dolce», che prende il sopravvento sulle libertà individuali e sulla realizzazione dell'individuo, che non permette l'accesso a una piena cittadinanza sociale.

L’apparato tecnico di produzione e di distribuzione (sempre più automatizzato) funziona come un sistema che è totalitario, nella misura in cui determina non soltanto le occupazioni, le abilità e gli atteggiamenti socialmente richiesti, ma anche i bisogni e le aspirazioni individuali: in tal modo dissolve l’opposizione tra esistenza privata ed esistenza pubblica, tra i bisogni individuali e quelli sociali, che vengono quindi manipolati. La tecnologia serve per istituire nuove forme di controllo sociale e di coesione sociale, più efficaci e più piacevoli.

Questa capacità di contenere e controllare il mutamento sociale è forse il successo più potente e caratteristico della società industriale avanzata: Marcuse parla di «integrazione degli opposti» e di «chiusura dell'universo di discorso»[17]: al tempo stesso i risultati, non meno che i requisiti, di tale successo.

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Chi domina i linguaggi, domina la società

Come scriveva Alberto Melucci, gli ultimi decenni hanno cambiato il modo in cui opera il potere, dato che «la produzione, distribuzione e controllo dell'informazione sono le chiavi dei processi sociali rispetto a cui altre risorse diventano strumentali […]. Tutto ciò che assicura il controllo non è il semplice processo di determinati beni o valori, ma la capacità di dominare i linguaggi, le grammatiche e le sintassi che organizzano il nostro senso»[18].

Ciò chiaramente non significa negare la permanente importanza dei fattori economici, ma non si può prescindere dalla dimensione culturale per cogliere le dinamiche del conflitto sociale e i processi di costruzione della disuguaglianza, dell'identità e della differenza.

I mezzi di produzione, circolazione e scambio culturale si sono espansi sensazionalmente con le nuove tecnologie dei media e dell'informazione, le stesse parole diventano utensili, strumenti di lavoro, dell'attività produttiva. Insomma, chi domina i linguaggi, domina la società.

E se, allo stesso tempo, stiamo assistendo ad uno snaturamento del linguaggio e di conseguenza dei concetti chiave della società (classe, collettività, libertà, politica, rivoluzione), ci rendiamo conto che saltano gli strumenti per capire e raccontare la realtà, così come per immaginarne una diversa.

Un breve confronto tra lo stadio iniziale della teoria della società industriale e la sua situazione presente può contribuire a mostrare come le basi stesse della critica siano state alterate. La critica nell’800 elaborò i primi concetti di un’alternativa, e ci fu una mediazione storica tra teoria e pratica, valori e fatti, bisogni e scopi, che ebbe luogo nella coscienza e nell’azione politica delle due grandi classi che si fronteggiavano: borghesia e proletariato. Ma lo sviluppo capitalista ha alterato la struttura e la funzione di queste due classi in modo tale che esse non appaiono più essere agenti di trasformazione storica. Anzi, un interesse prepotente per la conservazione ed il miglioramento dello status quo istituzionale unisce gli antagonisti d’un tempo. Nell’impossibilità di indicare in concreto quali agenti ed enti di mutamento sociale sono disponibili, la critica è costretta ad arretrare verso un livello più alto di astrazione. Non v’è alcun terreno su cui la teoria e la pratica, il pensiero e l’azione si incontrino. Persino l’analisi strettamente empirica delle alternative storiche sembra essere una speculazione totalmente irrealistica, e il farle proprie sembra essere un fatto di preferenza personale.

Il livellamento delle distinzioni di classe non indica la scomparsa delle classi, quanto la misura in cui i bisogni e le soddisfazioni che servono a conservare gli interessi costituiti sono ormai fatti propri dalla maggioranza della popolazione.

C’è una mìmesi, un’identificazione immediata dell’individuo con la sua società, e tramite questa, con la società come un tutto. Ecco il pensiero a una dimensione[19].

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La guerra è pace?

Il fatto che il modo prevalente di essere liberi è la servitù, il modo di esser uguali è una disuguaglianza imposta dall’alto, non può oggi trovare espressione a causa della rigida definizione di tali concetti nei termini dei poteri che plasmano il relativo universo di discorso. Il risultato è il familiare linguaggio orwelliano di 1984, la guerra è pace, la pace è guerra, così come ha affermato di recente il premio Nobel per la Pace, Barack Obama, nel suo discorso di premiazione.

Altro risultato sono partiti politici che operano per la difesa e lo sviluppo del capitalismo ma si chiamano socialisti…

La novità è l’accettazione generale di queste menzogne da parte dell’opinione pubblica e privata, la soppressione del loro mostruoso contenuto. La diffusione e l’efficacia di questo linguaggio testimoniano del trionfo della società sulle contraddizioni che albergano in essa; le contraddizioni sono riprodotte senza far saltare il sistema sociale. Ed è la contraddizione dichiarata, clamorosa, che viene usata come strumento di discorso e di pubblicità. La sintassi dell’abbreviazione riduttiva (onu, nato), ad esempio, proclama la conciliazione degli opposti saldandoli insieme in una struttura solida e familiare. Considerata un tempo l’offesa principale contro la logica, la contraddizione appare ora come un principio della logica della manipolazione. È la logica di una società che può permettersi di far a meno della logica e di giocare con la distruzione, una società in grado di dominare, con mezzi tecnologici, la mente e la materia.

L’unificazione degli opposti che caratterizza lo stile commerciale e politico è uno dei molti modi in cui il discorso e la comunicazione si rendono immuni all’espressione della protesta e del rifiuto. Come possono protesta e rifiuto trovare la parola giusta quando gli organi dell’ordine costituito ammettono, dando pubblicità alla cosa, che la pace consiste realmente nel trovarsi sull’orlo della guerra, che le armi definitive hanno un prezzo foriero di profitti? Nell’esibire le proprie contraddizioni come contrassegno della verità, quest’universo di discorso si chiude in sé, escludendo ogni altro discorso che non si svolga nei suoi termini.

Il linguaggio si articola in costruzioni che impongono all’ascoltatore un significato obliquo e abbreviato, che bloccano lo sviluppo del contenuto, che spingono ad accettare ciò che viene offerto nella forma in cui è offerto. L’analisi descrittiva dei fatti blocca la loro comprensione e diventa un elemento dell’ideologia che li sostiene.

E ciò significa sopprimere la storia: un universo di discorso in cui le categorie della libertà sono divenute intercambiabili con i loro opposti, e anzi si identificano con questi, non solo pratica il linguaggio di Orwell o di Esopo, ma respinge e dimentica la realtà storica: i vecchi concetti storici sono invalidati da nuove definizioni, da falsificazioni. Significa sopprimere il passato stesso della società ed il suo futuro, nella misura in cui il futuro invoca il mutamento qualitativo, la negazione del presente.

Il linguaggio chiuso, come quello dell'informazione, non dimostra e non spiega, bensì comunica decisioni, dettati, comandi.

Bisogna quindi conservare e proteggere il diritto, il bisogno di pensare e parlare in termini diversi da quelli dell’uso comune, densi di significato, razionali, e validi precisamente perché sono diversi.

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Globalizzazione o imperialismo?

Il termine «globalizzazione», ad esempio, è uno di quelli più utilizzati e popolari, è parola chiave in qualsiasi dibattito teorico e politico sui nostri tempi, ma anche nel linguaggio quotidiano, raggiungendo un'egemonia virtuale tale da assumere un carattere di inevitabilità, che disarma l'immaginazione e impedisce di pensare e di realizzare un'alternativa equa. «Dietro questo termine, c'è però un progetto di classe: il tentativo di gettare un velo ideologico sopra gli interessi economici di una classe emergente di capitalisti transnazionali. Interessi per i quali l'ordine economico mondiale esistente è in procinto di essere cambiato in modo tale da creare le condizioni ottimali per il libero gioco dell'avidità, dell'interesse di classe e dell'ottenimento del profitto»[20]. Ed è quello che sta accadendo in questa fase storica, in cui il capitalismo riorganizza il suo sistema tramite «la crisi», cercando contemporaneamente nuovi profitti, attaccando le periferie e catturando gli ultimi beni comuni che, bene o male, sono rimasti in mano alla gestione pubblica (acqua, rifiuti, energia, istruzione, sanità, trasporti).

Va quindi recuperato un altro termine per definire l'attuale processo di cambiamento e ampliamento dei flussi internazionali del commercio, del capitale, della tecnologia e dell'informazione: «imperialismo». La differenza con l'imperialismo classico sta nel fatto che quella definizione si riferiva «alla tendenza di una nazione ad imporre il suo dominio economico e ad influenzare la politica interna di altri paesi con l'obiettivo di avviare la costruzione di imponenti imperi economici»[21]. Oggi invece, ci troviamo davanti a un «imperialismo transnazionale», in un'epoca che vede gli stati nazionali sempre più indeboliti rispetto ai potentati economici, coloro che cercano di imporre il loro dominio economico e ad influenzare la politica interna dei paesi sono proprio le multinazionali e le banche, che utilizzano gli stati per creare i propri imperi economici, spacciando questo stato di cose inevitabile e necessario.

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La pubblicità: manipolazione e propaganda

Il controllo delle masse attraverso il sistema consumistico, come garanzia della democrazia e della diffusione della cultura individualista, è stato teorizzato molto prima della sua piena realizzazione avvenuta intorno a quegli anni '80 targati Reagan e Thatcher. L'incipit di «Propaganda», testo scritto dal nipote di Sigmund Freud, Edward Louis Bernays, nel 1928, ci chiarisce le idee: «La manipolazione consapevole e intelligente, delle opinioni e delle abitudini delle masse svolge un ruolo importante in una società democratica, coloro i quali padroneggiano questo dispositivo sociale costituiscono un potere invisibile che dirige veramente il paese. Noi siamo in gran parte governati da uomini di cui ignoriamo tutto, ma che sono in grado di plasmare la nostra mentalità, orientare i nostri gusti, suggerirci cosa pensare»[22]. Come la propaganda è stata ed è usata in tempo di guerra, con ottimi risultati,  la si usa ugualmente in tempo di pace. E diventiamo partecipanti involontari al sistema di obsolescenza programmata. Herbert Marcuse in un'intervista del 1967: «Si tratta di un'applicazione infantile della psicoanalisi, che non tiene conto di un autentico, politico e sistematico spreco di risorse tecnologiche e del processo produttivo, per esempio questo passar di moda pianificato; oppure la produzione di innumerevoli marche e gadgets che in ultima analisi si somigliano tutti; la produzione di un numero infinito di modelli d'auto; e questa prosperità, nello stesso tempo, porta consciamente o inconsciamente a una sorta d'esistenza schizofrenica. Credo che in questa società venga accumulata un'enorme quantità di aggressività e distruttività proprio a causa di questa vuota prosperità. Tutto questo alla fine scoppia». E Marcuse fa spesso riferimento alla pubblicità: quando parla del linguaggio, dice che sono proprio gli agenti pubblicitari a dar forma all’universo di comunicazione in cui il comportamento unidimensionale si esprime. L’accorciamento della sintassi, che taglia lo sviluppo del significato, creando immagini fisse che si impongono con concretezza sopraffattoria e pietrificata, è la tecnica tipica dell’industria pubblicitaria. La pubblicità è una delle madri della perversione del concetto, vero assente nella comunicazione, più delle parole. In fondo la pubblicità è semplicemente «l’industria che promuove l’industria»[23]. La sua prima funzione è quella di promuovere il consumo di prodotti industriali e di sostituirsi ai costumi popolari tradizionali. L’emergere della pubblicità coincide quindi con l’ingresso in una nuova era del capitalismo, un’epoca di compimento del sistema. L’accumulazione capitalistica, basandosi sulla produzione di massa, non poteva continuare a esistere se non colonizzando ogni dimensione dell’esistenza sociale e individuale. Così l’imperativo a produrre sempre di più si è ben presto tradotto nell’imperativo a consumare sempre di più.  A partire dalla crisi del 1929 il consumo di massa è stato elevato, in tutte le economie industriali, a imperativo civico, poiché è diventato indispensabile al movimento espansivo delle nostre economie. Globalmente un tale sistema economico si mantiene soltanto se le popolazioni consumano in misura sempre maggiore la stessa merce, oppure creando nuovi prodotti capaci di sviluppare nuove attività lucrative. La commercializzazione di nuovi aspetti delle attività sociali e umane, che oggi suscita tanta indignazione, è necessariamente inscritta nella dinamica capitalistica. Siamo prigionieri di un meccanismo infernale. La natura di tale sistema spinge costantemente la società verso il baratro, o piuttosto la vuole mantenere artificialmente sempre sull’orlo. Il capitalismo ha saputo promuovere meglio l’accumulazione della ricchezza: è riuscito a vendere il comfort materiale. Ecco dunque cosa è apparentemente riuscito a soffocare i vari progetti di emancipazione elaborati nella prima metà del xx secolo, di cui le rivolte del ’68 e quelle degli anni seguenti appaiono gli ultimi echi. La pubblicità è uno dei pilastri della società capitalista. Ed è diventata progressivamente un settore produttivo a sé stante, nonostante si abbia l’impressione che non produca niente. In effetti forse crea proprio l’essenziale: l’incessante rinnovamento del desiderio di comprare. Il che è fondamentale per il mantenimento dell’attuale ordine sociale, in quanto spinge al conformismo della pseudodistinzione e all’abbandono di ogni pratica autonoma tipica della vita tradizionale, formattando e delimitando l’immaginario degli individui.  Christine Frederick, in Selling Mrs. Consumer, formulava così nel 1929: «Consumptionism è il nome della nuova teoria. È comunemente accettato al giorno d’oggi che si tratta dell’idea migliore che l’America potesse offrire al mondo, l’idea che le masse lavoratrici […] possano essere considerate anche come consumatrici. […] Pagarle di più per vender loro di più e trarne così maggior profitto, ecco come bisogna ragionare». 

La pubblicità, instillando continuamente la certezza che non c’è un altro mondo possibile, o desiderabile, e mascherando l’ampiezza del disastro, disinnesca tutto ciò che potrebbe condurre a una contestazione del mondo industriale. Ma fa di più: canalizza lo scontento che tutto questo provoca in svariati sfoghi commerciali che favoriscono il suo stesso sviluppo (viaggi ai tropici, calmanti, palestre, gioco d’azzardo…), e così via qualunque tipo di riflessione sulla vita che siamo costretti a vivere. Terry Gilliam, nel film Brazil, l’aveva capito: al di là delle sue pretese commerciali, la pubblicità è una vera e propria propaganda.

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Un lento risveglio

In conclusione, citando ancora Marcuse: «Occorrono nuovi modi di definizione e realizzazione per una società libera, dato che non può essere definita nei termini tradizionali delle libertà economiche, politiche ed intellettuali, ma dall’equivalente negativo: in tal senso, libertà economica significherebbe libertà dall’economia, dal controllo di forze e relazioni economiche; libertà dalla lotta quotidiana per l’esistenza, dal problema di guadagnarsi la vita. Libertà politica significherebbe liberazione degli individui da una politica su cui essi non hanno nessun controllo effettivo. E la libertà intellettuale equivarrebbe alla restaurazione del pensiero individuale, ora assorbito dalla comunicazione e dall’indottrinamento di massa, e all’abolizione dell’opinione pubblica, assieme ai suoi produttori. Il suono irrealistico di queste proposizioni è indicativo dell’intensità delle forze che impediscono di tradurle in atto, coltivando bisogni materiali e intellettuali che perpetuano forme obsolete di lotta per l’esistenza». Ed è su questa strada che si deve camminare decisi, lavorando sul linguaggio, cercando di annullare le mistificazioni e le manipolazioni nascoste in esso, trovando il modo di socializzare i saperi e creare legami, mantenendo viva la riflessione critica: «siamo ora arrivati ad un punto nel quale l’evoluzione personale di una minoranza e lo scambio di informazioni al suo interno, non bastano più, bisogna incidere sul tessuto sociale». Occorre che la massa critica che lentamente si sta risvegliando, sullo sfondo dei suddetti scenari apocalittici che ci circondano, allarghi il campo dei propri interessi, e riesca a collegare le varie individualità separate tra loro, mettendo in rete questa lenta crescita, per recepirla in profondità e trasversalmente, affinché diventi un percorso costruttivo comune e consapevole: «continui a perseguire il necessario percorso della propria crescita interiore e personale, ma che a questo aggiunga l’intervento esterno, amoroso ed intelligente, nei confronti della società. La stessa crescita interiore e numerica dei partecipanti alla massa critica è ormai sempre più legata alla capacità di trasformare l'elaborazione interiore in azioni verso gli altri. Per fare questo non si può fare ricorso all’attuale modello di prassi politica, che è la sommatoria di egoismi personali, fazionali, di classe o di categoria. Bisogna «inventare e proporre» un modo nuovo di fare politica. [...] Ma occorre cominciare ora a piantare i semi capaci di generare gli alberi di una nuova società futura»[24]. Fare l'attivista, agire per il cambiamento, è una delle più importanti, coraggiose e produttive attività di tutta la storia umana, perché volta a costruire un futuro diverso, migliore.

 

DICEMBRE 2009

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[1] Mauro Magatti, Mario De Benedittis, I nuovi ceti popolari. Chi ha preso il posto della classe operaia?, Feltrinelli, Milano 2006.

[2] Ulrich Beck, La società del rischio, Carocci, Roma 2000.

[3] Miguel Benasayag, Gérard Schmit, L'epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2005.

[4] John K. Galbraith, Il capitalismo americano, Comunità, Milano 1955, in Herbert Marcuse, L'uomo a una dimensione. L'ideologia della società industriale avanzata, Einaudi, Torino 1999.

[5] Regime di accumulazione flessibile: basato sull'elasticità e sull'aumento dei profitti, grazie alle sue varie manifestazioni di produzione snella e automatizzazione, esternalizzazioni, nomadismo aziendale, deloca-lizzazione, così come l'aumento della flessibilità, la riduzione dei dipendenti stabili e il ricorso sempre maggiore a forza-lavoro esterna e precaria.

[6] Ulrick Beck, cit.

[7] Luc Boltanski, Ève Chiapello, Le nouvel esprit du capitalisme, Gallimard, Paris 1999; in Italia è in traduzione per Feltrinelli.

[8] Ulrick Beck, cit., pag. 149.

[9] John B. Thompson, Mezzi di comunicazione e modernità. Una teoria sociale dei media, Il Mulino, Bologna 1998.

[10] Herbert Marcuse, L'uomo a una dimensione. L'ideologia della società industriale avanzata, Einaudi, Torino 1999.

[11] George Ritzer, La religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi e riti dell'iperconsumismo, Il Mulino, Bologna 2005.

[12] Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità, Eleuthera, Milano 2005.

[13] Roland Barthes, Miti d'oggi, Einaudi, Torino 1974.

[14] Antonio Dini, Emozione Apple. Fabbricare sogni nel XXI secolo, Il Sole 24 Ore, Milano 2008.

[15] Thorstein Veblen, La teoria della classe agiata. Studio economico sulle istituzioni, Einaudi, Torino 2007.

[16] Antonio Gramsci, La città futura. Scritti 1917-1918, Einaudi, Torino 1982, da La Città futura, numero unico della rivista pubblicata dalla Federazione giovanile socialista piemontese, 11 febbraio 1917.

[17] Herbert Marcuse, cit.

[18] Alberto Melucci, Quale globalizzazione?, in Studi sulla sociologia, xxxv, 1997.

[19] Herbert Marcuse, cit.

[20] James Petras, Henry Veltmeyer, La globalizzazione smascherata. L'imperialismo nel XXI secolo, Jaca Book, Milano 2002.

[21] Da Wikipedia, L'enciclopedia libera.

[22] Edward Louis Bernays, Propaganda. Della manipolazione dell'opinione pubblica in democrazia, Lupetti, Bologna 2008.

[23] Gruppo M.a.r.c.u.s.e. (Movimento Autonomo di Riflessione Critica a Uso dei Sopravvissuti dell'Economia), Miseria umana della pubblicità. Il nostro stile di vita sta uccidendo il mondo, Eleuthera, Milano 2006.

[24] Da www.unaretedamore.net, Per introdurre la coscienza in politica.